Per una magistratura non corriva al senso comune
Cantare nel coro” vuol dire cedere alla compiacenza che porta a sorvolare sulla parzialità del dato (sia esso il fatto giornalistico, o quello su cui il magistrato fonda il proprio convincimento nella decisione di un caso): un monito alla coscienza in difesa dell’indipendenza dal senso comune, meno tangibile e diretto dei poteri “forti”, pena la perdita, per il magistrato, di quella funzione anti-maggioritaria che è connaturata ad ogni organo di garanzia.
Circa trent’anni fa, avevo cominciato da poco a fare il giornalista, mi persi nella notte cercando una stazione di rifornimento in aperta campagna. Un pubblico ministero mi aveva dato un appuntamento segreto per passarmi delle carte. Non riuscivo a trovare il posto, erano viaggi fatti ancora di ingombranti mappe stradali e telefoni a gettone, ma alla fine, con enorme ritardo e fatica, arrivai dalla mia fonte e il passaggio di documenti andò a buon fine. Avrei scoperto poi che si trattava di atti non più riservati perché già noti alle parti. Potevo procurarmeli assai più facilmente, insomma, ma ero alla prime armi e probabilmente non avevo capito bene come funzionavano quelle cose. In ogni caso, la scena di quei fogli passati di mano alla svelta, sotto la luce al neon del distributore, l’ho ancora in testa e certamente deve aver condizionato parecchio la mia scrittura, l’indomani. Feci un pezzo schiacciato sulle ragioni dell’accusa, la mia fonte, in definitiva neanche con chissà quali notizie, visto che era roba già in circolazione. Si trattava però di una storia in quei giorni su tutte le prima pagine, cantava nel coro e al giornale per il quale avevo cominciato a scrivere andò benissimo.
C’è un particolare aspetto dell’indipendenza della magistratura sul quale voglio concentrarmi: l’indipendenza – necessaria – dall’opinione pubblica. Mi interessa perché è un aspetto della più generale questione che chiama talvolta in causa la mia categoria professionale, i giornalisti. Probabilmente non è l’aspetto centrale del problema, posto che l’indipendenza della magistratura – condizione evidentemente indispensabile per l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge – è soggetta a più penetranti minacce. Che sono innanzitutto e da sempre quelle del potere economico e politico. Minacce assai più concentrate, dunque, di quella che può essere rappresentata dall’insidia di voler accondiscendere al senso comune. Minacce, quelle, più facili da individuare perché rivolte dall’esterno della magistratura o meglio dall’esterno dello stesso soggetto, giudice o pm, che può esserne l’obiettivo. La seduzione dell’opinione pubblica, la tendenza a volerla compiacere possono, invece, diventare una trappola nella quale magistrate e magistrati rischiano di infilarsi in qualche modo da sole e da soli.
È utile riprendere la polemica di qualche mese fa, rumorosamente sollevata dal Ministro della difesa in carica – tanto scomposta che lo stesso Ministro è successivamente e silenziosamente battuto in ritirata. Crosetto, come si ricorderà, ha pensato di scorgere nel pubblico richiamo (dal palco di un congresso) alla «funzione anti-maggioritaria della magistratura», una sorta di sedizioso richiamo alle armi contro il governo delle toghe (rosse). Non si sa se il Ministro si sia scandalizzato perché non a conoscenza del fatto che la funzione anti-maggioritaria è connaturata ad ogni organo di garanzia, che se non la esercitasse tradirebbe il suo mandato, oppure se la sua sia stata una polemica montata ad arte nel momento in cui più di un esponente del Governo e del sottogoverno incappava in vicende giudiziarie. Conta che l’occasione sia valsa alla magistratura per rivendicare in maniera più o meno unitaria la propria indipendenza. Dal potere esecutivo, naturalmente. Ma proprio la difesa della funzione anti-maggioritaria a me sembra che richiami la necessità, non colta, di tenere alta la guardia dell’indipendenza anche nei confronti del più diffuso e meno visibile potere dell’opinione pubblica corrente.
Il nostro Paese ha conosciuto più di una stagione in cui le indagini sono state condotte a furor di popolo. La più recente, quella di “Tangentopoli”, può già contare su una discreta memorialistica autocritica prodotta sia da magistrati che da giornalisti (quella meno recente dell’antiterrorismo e delle leggi speciali - va detto - assai meno, pur essendo stata molto più indagata sul piano storico). Su scala più ridotta, la tentazione di muoversi nel solco di quello che i mezzi di informazione rendono popolare non è però venuta mai meno. Dentro questo solco, la stampa perde totalmente la sua funzione critica e di sorveglianza del potere – perché nel momento in cui indaga, manda a processo, condanna, la magistratura è un potere. Sono io quella notte che prendo quelle carte in mezzo alla campagna, carte dove si parlava inevitabilmente di politici presunti corrotti, e non mi faccio troppe domande sull’attendibilità delle accuse quando ne scrivo.
Per essere esercitata coerentemente, la funzione anti-maggioritaria non può essere dismessa nei confronti dell’opinione pubblica prevalente o prevalentemente rappresentata dai media. Troppo spesso accade il contrario. Recenti iniziative delle procure contro la registrazione anagrafica dei figli dei genitori dello stesso sesso, contro le organizzazioni non governative che si occupano del salvataggio in mare, contro ragazze e ragazzi che cercano di richiamare l’attenzione sul cambiamento climatico, in generale contro i movimenti di lotta per i diritti (lavoratori della logistica, occupanti di immobili abbandonati), ma anche sentenze esemplari in casi di omicidi seguiti con particolare rilievo ed enfasi dalla stampa – trent’anni sono pochi! – confermano il rischio di una magistratura corriva al senso comune. Che certamente non approva la gestazione per altri, teme l’invasione dei migranti, vuole il pugno duro contro i blocchi stradali (non quelli dei trattori, curiosamente), non sopporta ritardi nelle consegne e non ha simpatie per i centri sociali – per non parlare della minaccia anarchica che scalza posizioni nella scaletta dei telegiornali. Il cerchio si chiude quando al governo c’è una maggioranza che, programmaticamente, accarezza le paure e le indirizza verso una risposta di tipo penale. Potere politico e potere del senso comune finiscono con l’avvicinarsi assai. Il populismo penale è una sfida anche all’indipendenza della magistratura, che dovrebbe temere la popolarità quanto qualsiasi altra minaccia alla sua autonomia.