Magistratura democratica

La libertà di espressione dei magistrati e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo

di Francesco Buffa

L’argomento che mi è stato affidato riguarda la libertà di espressione dei giudici secondo la CEDU. Prima di affrontare questo tema, però, vorrei allargare un po’ la prospettiva, fornendo un panorama più generale delle principali norme e principi applicabili in materia a livello mondiale, degli standard internazionali di tutela di questo diritto e dell’evoluzione giurisprudenziale. Anticipo qui le mie conclusioni: la giurisprudenza della Corte Edu non solo è conforme agli standard internazionali di tutela, ma ha anche svolto e svolge un ruolo fondamentale nella creazione di tali standard.

1. Il diritto alla libertà di espressione e lo standard generale di protezione internazionale / 2. Contenuto del diritto / 3. Restrizioni generali / 4. Rischi specifici dei social media / 5. Alcuni casi / 6. Fonti del diritto / 7. Il sistema di protezione della libertà di espressione della CEDU / 8. L’imparzialità dei giudici (art. 6)… / 9. … e la loro libertà di espressione / 10. Sito web e blog, collegamento ipertestuale, like / 11. Alcune conclusioni

 

1. Il diritto alla libertà di espressione e lo standard generale di protezione internazionale

La libertà di opinione e la libertà di espressione sono condizioni indispensabili per il pieno sviluppo della persona. Sono essenziali per qualsiasi società. Esse costituiscono il fondamento di ogni società libera e democratica (Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, commento generale n. 34). Mentre i giudici hanno tradizionalmente esercitato una certa moderazione nell’esprimersi pubblicamente, oggi c’è una crescente aspettativa che essi spieghino i loro processi decisionali al pubblico in generale. I giudici, poi, partecipano al dibattito politico ed esprimono le loro opinioni sulle riforme legislative e su altri argomenti di interesse generale. 

Nella società contemporanea, dove tutti, attraverso i social media, sono connessi agli altri senza confini di tempo e di spazio, i giudici hanno una maggiore visibilità ed esposizione pubblica. Questi sviluppi sollevano nuove questioni sull’indipendenza e l’imparzialità della magistratura, che sono essenziali per il diritto a un giusto processo. Seguendo l’approccio più diffuso che tutti conosciamo, infatti, “bisogna essere giusti, ma anche apparire giusti”.

Le considerazioni che seguono cercano di trovare un equilibrio tra questi interessi contrastanti, quello legato alla libertà di espressione e quello relativo all’imparzialità dei giudici.

Molte fonti di diritto internazionale tutelano la libertà di espressione. Questo diritto, riconosciuto dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (UDHR), adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948, è stato così ampiamente riconosciuto da diventare vincolante per gli Stati come materia di diritto internazionale consuetudinario. 

L’art. 19 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR) garantisce il diritto di avere opinioni senza interferenze e il diritto alla libertà di espressione, che comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni tipo, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto o a mezzo stampa, sotto forma di arte o attraverso qualsiasi altro mezzo di comunicazione. 

La stessa fonte prevede tuttavia che «L’esercizio dei diritti previsti dal paragrafo 2 del presente articolo comporta particolari doveri e responsabilità. Può quindi essere soggetto ad alcune restrizioni, ma queste sono solo quelle previste dalla legge e necessarie: (a) per il rispetto dei diritti o della reputazione altrui; (b) per la protezione della sicurezza nazionale o dell’ordine pubblico, o della salute o della morale pubblica».

Le fonti principali per l’interpretazione del linguaggio dei trattati sulla libertà di espressione sono gli organismi istituiti da tali trattati, che sono generalmente responsabili della supervisione dell’attuazione del trattato. Nel caso dell’ICCPR, quest’organo è il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, un gruppo di 18 esperti internazionali che prestano servizio a titolo personale (non come rappresentanti dei rispettivi governi). Il Comitato per i diritti umani riceve e commenta i rapporti periodici degli Stati sull’attuazione dell’ICCPR e decide anche sui casi individuali dei Paesi che hanno accettato questo sistema di supervisione. Il Comitato emette anche interpretazioni delle disposizioni legali dell’ICCPR in un formato noto come “commenti generali”. 

Nell’ambito delle Nazioni Unite, nel 1993 la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite ha creato un relatore speciale sulla libertà di opinione e di espressione, che ha pubblicato un rapporto sull’indipendenza di giudici e avvocati (rapporto A/HRC/41/48 del 12/7/2019).

I trattati regionali sui diritti umani in Africa, nelle Americhe e in Europa contengono protezioni simili per la libertà di espressione (la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, adottata il 26 giugno 1981; la Convenzione americana sui diritti dell’uomo, adottata il 22 novembre 1969; la Carta araba dei diritti dell’uomo e, prima fra tutte, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950). 

Le autorità giudiziarie che presiedono a questi trattati regionali sono spesso influenti al di là del loro ambito territoriale, atteso il loro specifico mandato in materia di diritti umani e l’esperienza che apportano nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati sui diritti umani. Vi fornirò tre esempi.

Il primo. La Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, nella causa Lohe Issa Konate c. Burkina Faso, che riguardava una condanna a 12 mesi di reclusione per diffamazione e oltraggio alla corte per articoli che denunciavano la corruzione del procuratore e di altri, ha stabilito che la reclusione non può mai essere giustificata per la diffamazione.

Il secondo. Nella causa Lopez Lone et al. c. Honduras, la Corte interamericana dei diritti umani ha riconosciuto che la libertà di espressione deve essere garantita non solo per quanto riguarda la diffusione di informazioni e idee accolte favorevolmente o considerate inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che lo Stato o qualsiasi settore della popolazione considera discutibili. Il caso riguardava giudici honduregni che si erano opposti al colpo di Stato del 2009. Due giudici erano presenti alle proteste anti-golpe, un terzo aveva partecipato alla presentazione di un amparo (un ricorso per applicazione di un diritto costituzionale) per conto del Presidente deposto e un quarto aveva scritto un articolo e tenuto una conferenza in cui sosteneva che quanto accaduto costituiva un colpo di Stato. Tutti e quattro erano stati rimossi dall’incarico o avevano subito misure disciplinari. La Corte ha ritenuto che le dette azioni costituissero un discorso protetto e che i procedimenti contro i giudici costituissero una restrizione impropria della loro libertà di espressione. La decisione osserva che, anche se i giudici hanno normalmente l’obbligo di evitare l’attività politica, questo può essere sospeso durante un colpo di Stato, quando gli obblighi morali o legali possono costringere i giudici a difendere l’ordine democratico. La tutela del diritto alla libertà di espressione dei giudici non è, tuttavia, limitata ai momenti in cui la democrazia è a rischio.

Il terzo. Il caso Handyside c. Regno Unito della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu), del 1976, riguardava il sequestro di un libro osceno. Nella sua sentenza sul caso, la Corte ha affermato che «la libertà di espressione (...) è applicabile non solo alle “informazioni” o alle “idee” che sono accolte favorevolmente (...) ma anche a quelle che offendono, scioccano o disturbano lo Stato o qualsiasi settore della popolazione». Tuttavia, la Corte Edu ha ritenuto che, nel caso in questione, fosse legittimo limitare la libertà di espressione dell’editore e ha articolato un test rigoroso per stabilire quando la libertà di espressione può essere lecitamente limitata. 

Tutti questi principi hanno influenzato lo sviluppo della successiva dottrina a livello regionale e internazionale. 

 

2. Contenuto del diritto

Alcuni diritti umani sono considerati assoluti, ovvero non possono essere limitati in nessuna circostanza. Ad esempio, secondo l’ICCPR e la CEDU, il diritto di essere liberi dalla tortura e il diritto di non essere tenuti in schiavitù sono diritti assoluti. 

La libertà di opinione è un diritto assoluto, il che significa che non può essere limitata per nessun motivo. Ciò significa che gli Stati non possono criminalizzare il possesso di determinate opinioni e non possono arrestare, imprigionare, accusare o altrimenti molestare o intimidire una persona semplicemente a causa delle sue opinioni.

L’espressione di tali opinioni, invece, non è un diritto assoluto, e può essere limitata in alcune circostanze ben definite, seguendo – come dirò di seguito – un test in tre parti.

La libertà di espressione dei giudici è tutelata, compresa la loro capacità di partecipare alle discussioni che riguardano il funzionamento efficiente della magistratura. In quanto titolare di tale diritto di esprimersi liberamente, un giudice non deve aspettarsi che l’esercizio della libertà di espressione possa esporlo a sanzioni disciplinari.

Non solo a un giudice non è vietato l’uso dei social media, ma i social media costituiscono una nuova forma di interazione pubblica che è diventata parte della vita e della cultura quotidiana. I giudici sono certamente incoraggiati a mantenere una vita sociale e tutti concordano sul fatto che dovrebbero farlo, e non ci si aspetta che essi diventino “isolati e sterilizzati” dalla comunità in cui vivono. I giudici che non conoscono il pubblico hanno meno probabilità di essere efficaci. 

I giudici che scrivono sui social media danno poi un enorme impulso alla trasparenza giudiziaria, fornendo all’opinione pubblica un quadro chiaro e una visione dei procedimenti giudiziari e dei percorsi giurisdizionali, evitando ogni opacità. 

Un giudice, infine, proprio per le sue specifiche competenze, si trova in una posizione unica per contribuire al miglioramento della legge, del sistema legale e dell’amministrazione della giustizia.

La maggior parte dei comitati etici degli Stati Uniti che hanno affrontato la questione dei social media suggerisce che gli attuali standard etici non vietano al giudice di utilizzare i social network, a condizione che rispetti i suoi doveri etici (ad esempio, California, Kentucky, Massachusetts, Ohio, Oklahoma, New York, South Carolina, Florida; vds. anche il parere 17-2009 della Commissione etica del South Carolina).

Analogamente, secondo il Comitato etico giudiziario della California (parere 66), «la partecipazione di un giudice a un sito di social network online non mette di per sé in ragionevole dubbio la capacità del giudice di agire in modo imparziale, non sminuisce l’ufficio giudiziario né interferisce con il corretto svolgimento dei doveri giudiziari del giudice più di qualsiasi altro tipo di attività sociale» (lo stesso Comitato ha affermato che un giudice «ha l’obbligo di cancellare, nascondere alla vista del pubblico e ripudiare in ogni altro modo i commenti avvilenti od offensivi fatti da altri che appaiono sul sito social network del giudice. Inoltre, un giudice ha l’obbligo di controllare frequentemente la propria pagina di rete per verificare se qualcuno vi abbia inserito post offensivi». Il Comitato ha ritenuto che, se un giudice lascia tali commenti sulla sua pagina, può dare l’impressione di approvarli tacitamente).

 

3. Restrizioni generali

Il modo in cui i giudici utilizzano i social media può avere un impatto sulla percezione che il pubblico ha dei giudici e sulla sua fiducia nel sistema giudiziario.

I Principi di condotta giudiziaria di Bangalore definiscono gli standard minimi di condotta etica dei giudici e costituiscono un quadro normativo della condotta giudiziaria.

Nel luglio 2006, il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) ha adottato una risoluzione che riconosce i Principi di Bangalore come un ulteriore sviluppo e un complemento dei Principi fondamentali delle Nazioni Unite sull’indipendenza della magistratura del 1985. L’ECOSOC ha invitato gli Stati a incoraggiare le proprie magistrature a prendere in considerazione i Principi al momento della revisione o dello sviluppo di norme relative alla condotta giudiziaria.

Tra i principi, ricordo in particolare i seguenti:

«Valore 2 - Imparzialità

2.2. Un giudice deve fare in modo che la sua condotta, sia in tribunale che fuori, mantenga e rafforzi la fiducia del pubblico, della professione legale e delle parti in causa nell’imparzialità del giudice e della magistratura. 2.3. Un giudice deve, per quanto ragionevole, comportarsi in modo tale da ridurre al minimo le occasioni in cui sarà necessario che il giudice sia ricusato per l’udienza o per la decisione delle cause. 2.4. Un giudice non deve, mentre è in corso o potrebbe essere in corso un procedimento, fare consapevolmente alcun commento che possa ragionevolmente influenzare l’esito di tale procedimento o compromettere la manifesta equità del processo, né deve fare alcun commento in pubblico o in altro modo che possa influenzare l’equo processo di qualsiasi persona o questione. 2.5. Un giudice deve astenersi dal partecipare a qualsiasi procedimento in cui non sia in grado di decidere in modo imparziale o in cui possa sembrare a un osservatore ragionevole che il giudice non sia in grado di decidere in modo imparziale»;

«Valore 4 - Correttezza

La correttezza e l’apparenza della correttezza sono essenziali per lo svolgimento di tutte le attività di un giudice. (…) 4.1. Un giudice deve evitare la scorrettezza e l’apparenza di scorrettezza in tutte le sue attività. 4.2. In quanto soggetto a un costante controllo pubblico, il giudice deve accettare restrizioni personali che potrebbero essere considerate onerose dal cittadino comune e deve farlo liberamente e di buon grado. In particolare, il giudice deve comportarsi in modo coerente con la dignità dell’ufficio giudiziario. 4.3. Nei suoi rapporti personali con i singoli membri della professione legale che esercitano regolarmente presso il tribunale del giudice, il giudice deve evitare situazioni che potrebbero ragionevolmente dare adito al sospetto o all’apparenza di favoritismi o parzialità. (...) 4.6. Un giudice, come ogni altro cittadino, ha diritto alla libertà di espressione, di credo, di associazione e di riunione, ma, nell’esercizio di tali diritti, deve sempre comportarsi in modo da preservare la dignità dell’ufficio giudiziario e l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura».

Lo scorso aprile 2018, l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC) ha istituito una Rete globale per l’integrità giudiziaria e ha adottato una Dichiarazione sull’integrità giudiziaria. In particolare, la Dichiarazione ha evidenziato che:

«Data la natura dell’ufficio giudiziario e l’importanza vitale della fiducia del pubblico nell’integrità e nell’imparzialità dei tribunali, l’uso dei social media da parte dei giudici, sia individualmente che collettivamente, solleva questioni specifiche e rischi etici che dovrebbero essere affrontati. Sebbene i giudici, come gli altri cittadini, abbiano diritto alla libertà di espressione, di credo, di associazione e di riunione, essi dovrebbero sempre comportarsi in modo da preservare la dignità del loro ufficio e l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura. Il modo in cui un singolo giudice utilizza i social media può avere un impatto sulla percezione pubblica di tutti i giudici e sulla fiducia nei sistemi giudiziari in generale. Il tema dell’uso dei social media da parte dei giudici è complesso. Da un lato, casi particolari di giudici che utilizzano i social media hanno portato a situazioni in cui questi giudici sono stati percepiti come parziali o soggetti a influenze esterne inappropriate. D’altro canto, i social media possono creare opportunità per diffondere le competenze dei giudici, aumentare la comprensione della legge da parte del pubblico e promuovere un ambiente di giustizia aperta e vicina alle comunità che i giudici servono. Inoltre, si sono verificati casi in cui i social media sono serviti come piattaforma per abusi o molestie online nei confronti dei giudici. I Principi di condotta giudiziaria di Bangalore, universalmente riconosciuti, identificano sei valori fondamentali che dovrebbero guidare il lavoro e la vita di ogni giudice: indipendenza, imparzialità, integrità, correttezza, uguaglianza, competenza e diligenza. Quando utilizzano i social media, i giudici dovrebbero sempre essere guidati dai Principi di Bangalore e dal commento dettagliato che li accompagna. Tuttavia, va notato che quando questi documenti sono stati redatti per la prima volta, le piattaforme di social media non esistevano (...).

Oggi è disponibile una vasta gamma di piattaforme di social media, ognuna delle quali offre servizi diversi, fornisce diverse opportunità di interazione e si rivolge a pubblici diversi. Di conseguenza, possono sorgere aspettative diverse per quanto riguarda i contenuti, il tipo e la frequenza di coinvolgimento per le diverse piattaforme. Inoltre, la maggior parte delle piattaforme di social media è in continua evoluzione. Di conseguenza, possono essere appropriati approcci diversi a seconda della natura e del tipo di piattaforma di social media. I social media offrono sempre più opportunità per un’ampia varietà di connessioni e relazioni online con i giudici. Ciò può avere un impatto, tra l’altro, sulle norme e sui principi che regolano le comunicazioni ex parte, i pregiudizi e le influenze esterne. Concetti come “friending” e “following” nel contesto dei social media differiscono dall’uso tradizionale. In alcuni casi, possono non significare molto di più del rapporto che si instaura tra un fornitore di contenuti (come un giornalista di un giornale) e un lettore o un abbonato. In altri casi, invece, il grado di interazione online può diventare più personale o addirittura intimo e quindi richiederà cautela da parte del giudice, ed eventualmente la manifestazione al pubblico, l’interdizione, la ricusazione o altre azioni simili a quelle stabilite per le relazioni offline tradizionali.

(...) I giudici non devono scambiare informazioni su siti di social media o servizi di messaggistica con le parti, i loro rappresentanti o il pubblico in generale su cause che sono o potrebbero essere sottoposte alla loro decisione. I giudici devono essere cauti nei toni e nel linguaggio ed essere professionali e prudenti in tutte le interazioni su tutte le piattaforme di social media. Può essere utile considerare, in relazione a ciascun contenuto dei social media (come post, commenti a post, aggiornamenti di stato, fotografie, ecc.), quale potrebbe essere il suo impatto sulla dignità giudiziaria se divulgato al pubblico. La stessa cautela si applica quando si reagisce ai contenuti dei social media caricati da altri. I giudici devono trattare gli altri con dignità e rispetto, non usare i social media per banalizzare le preoccupazioni altrui o fare commenti discriminatori per motivi vietati. 

(...) Se un giudice è stato insultato o maltrattato online, deve chiedere consiglio ai colleghi magistrati più anziani o ad altri meccanismi in vigore nella magistratura, ma deve astenersi dal rispondere direttamente. 

(...) I giudici devono assicurarsi di non utilizzare i loro account sui social media per promuovere, direttamente o indirettamente, interessi finanziari o commerciali propri o di terzi. 

(...) quando il grado di interazione, online o di altro tipo, diventa più personale o intimo, i giudici dovrebbero continuare a osservare i Principi di condotta giudiziaria di Bangalore, richiedendo, in situazioni appropriate, cautela, divulgazione, squalifica, ricusazione o altre azioni simili a quelle stabilite per le relazioni offline convenzionali. 

I giudici devono monitorare periodicamente gli account dei social media passati e presenti e devono adottare misure per esaminare i contenuti (...) e applicare coerentemente un’etichetta appropriata per rimuovere e/o bloccare i follower/amici/ecc. 

È prudente e saggio per i giudici esercitare la dovuta attenzione e diligenza quando creano amicizie e connessioni online e/o accettano richieste di amicizia online. 

(...) A prescindere dalle impostazioni, è consigliabile che i giudici non facciano commenti o assumano comportamenti sui social media che potrebbero essere imbarazzanti o impropri se diventassero di dominio pubblico». 

Il parere n. 3 del Consiglio consultivo dei giudici europei afferma che:

«il sistema giudiziario può funzionare correttamente solo se i giudici non sono isolati dalla società in cui vivono (...). In quanto cittadini, i giudici godono dei diritti e delle libertà fondamentali tutelati, in particolare, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (libertà di opinione, libertà religiosa, ecc.) (...). Tuttavia, tali attività possono mettere a repentaglio la loro imparzialità o talvolta persino la loro indipendenza. Occorre quindi trovare un ragionevole equilibrio tra il grado di coinvolgimento dei giudici nella società e la necessità che essi siano e siano considerati indipendenti e imparziali nell’esercizio delle loro funzioni».

La Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto (Commissione di Venezia) ha adottato una «Relazione sulla libertà di espressione dei giudici» nel corso della sua 103a sessione plenaria (Venezia, 19-20 giugno 2015); ha ricordato che nel diritto comparato il livello di restrizione dell’esercizio delle suddette libertà per i giudici varia da Paese a Paese, in base alle rispettive culture giuridiche: «sebbene i giudici possano essere membri di un partito politico in Germania e Austria, ciò è vietato in Turchia, Croazia o Romania. Mentre in Lituania i giudici dovrebbero evitare di dichiarare pubblicamente le proprie opinioni politiche e in Ucraina non dovrebbero partecipare ad alcuna attività politica, in Svezia le restrizioni ai discorsi politici dei giudici sono molto più limitate».

La Commissione ha inoltre ricordato che la CEDU, nel valutare la proporzionalità di un’interferenza con la libertà di espressione di un giudice in relazione ai suoi specifici doveri e responsabilità, considera la dichiarazione contestata alla luce di tutte le circostanze concrete del caso, tra cui la carica ricoperta dal richiedente, il contenuto della dichiarazione contestata, il contesto in cui la dichiarazione è stata fatta e la natura e la gravità delle sanzioni imposte. 

 

4. Rischi specifici dei social media 

I giudici che partecipano ai social media devono tenere presente che i codici di condotta giudiziaria si applicano con la stessa forza alle azioni virtuali e ai commenti online: le violazioni etiche online sarebbero improprie come se fossero avvenute per telefono o di persona; quindi è il contenuto, non il mezzo (i social media), a essere oggetto di scrutinio e valutazione.

Inoltre, rispetto alle forme di comunicazione tradizionali, i social media presentano alcuni rischi addizionali e inediti, di cui i giudici devono essere consapevoli.

1) Le comunicazioni e le relazioni sui social media sono molto più pubbliche rispetto ai media e alle relazioni più tradizionali, e presentano un rischio maggiore di creare nell’opinione pubblica un’apparenza di scorrettezza; i social media sono diversi in termini di immediatezza, ampiezza e forte visibilità pubblica.

2) Alcuni social media utilizzano varie etichette (ad esempio: “amici”, “follower”) che, in determinate circostanze, connotano un rapporto personale più stretto di quanto non esista in realtà. L’obbligo di evitare pregiudizi o parzialità effettive o percepite non consiste semplicemente nell’astenersi dal fare o dal “mettere mi piace” a commenti inappropriati, ma nell’espungere tali commenti fatti da altri dalla pagina del giudice stesso (e magari nel “togliergli il like”) per evitare di creare l’impressione che il giudice sia d’accordo con essi.

3) un giudice che partecipa a un sito di social network perde probabilmente il controllo sulla privacy delle proprie comunicazioni con gli altri. Poiché le informazioni pubblicate sui social media sono facilmente accessibili e diffuse, potrebbero non rimanere private nonostante le impostazioni di privacy più rigide. 

4) Le persone che utilizzano i social media accettano il rischio che i loro post vengano estrapolati dal contesto. Esprimere le proprie opinioni in un ambiente virtuale, dove le informazioni vengono scambiate in modo frettoloso, è intrinsecamente diverso dall’interazione interpersonale in natura, e lascia quindi spazio a interpretazioni errate, o addirittura a comunicazioni sbagliate e malintenzionate.

5) Alcuni network online consentono ad altri membri di pubblicare contenuti sul sito di un giudice. Sebbene gli utenti debbano esercitare cautela nell’esprimere le proprie opinioni personali online, non possono in alcun caso impedire ad altri utenti di pubblicare commenti indesiderati o addirittura inappropriati sulla loro pagina di social media. Non è improbabile che tali commenti, indipendentemente dalla loro approvazione o cancellazione, vengano associati al titolare dell’account del social media.

 

5. Alcuni casi

I rischi citati, specificamente legati ai nuovi media, sono testimoniati dai seguenti casi, che non sono studi di caso, ma casi reali.

a) Amici su Facebook

In Canada, un giudice è stato ricusato dai difensori quale presidente di un maxiprocesso per droga con più imputati perché molti dei suoi amici su Facebook erano procuratori della Corona. 

In Francia, un avvocato ha presentato ricorso in Cassazione perché un caso disciplinare nei suoi confronti era stato giudicato da membri dell’Ordine la cui imparzialità era stata messa in discussione per la loro amicizia su Facebook (caso giudicato dalla II sez. civile della Cassazione, 5 gennaio 2019 -16.12.394) che ha respinto il ricorso, in quanto: «le terme d’“ami” employé pour désigner les personnes qui acceptent d’entrer en contact par les réseaux sociaux ne renvoie pas à des relations d’amitié au sens traditionnel du terme et que l’existence de contacts entre ces différentes personnes par l’intermédiaire de ces réseaux ne suffit pas à caractériser une partialité particulière, le réseau social étant simplement un moyen de communication spécifique entre des personnes qui partagent les mêmes centres d’intérêt, et en l’espèce la même profession».

In Ohio, il Board of Commissioners on Grievances & Discipline (parere 2010-7) ha ricordato che «un “amico” di un social network può essere o non essere un amico nel senso tradizionale del termine e l’essere “amico” di qualcuno sui social media non significa necessariamente che siano coinvolti un affetto speciale, una fiducia reciproca e una stima, e può in effetti significare molto poco. (...) un’”amicizia” su Facebook può in realtà equivalere a una semplice conoscenza, che da sola può non costituire una ragione sufficiente per l’esclusione».

Anche il Comitato consultivo per l’etica giudiziaria dello Stato di New York ha respinto l’apparenza di scorrettezza basata unicamente su una precedente “amicizia” con persone coinvolte in qualche modo in un’azione legale in corso (parere 13-39).

Il Comitato etico giudiziario della California (parere 66) ha individuato una serie di fattori per valutare l’apparenza di scorrettezza, quali: i) la natura della particolare pagina di social media, ii) il numero di amici che il giudice ha (un numero inferiore suggerisce un rapporto più stretto), iii) la prassi del giudice nell’accettare le richieste di “amicizia” e iv) la regolarità con cui il particolare avvocato “amico” compare davanti al giudice.

Questo approccio è stato recentemente affermato anche dall’American Bar Association, nel parere formale 462, in cui si afferma che «il contesto è significativo. La semplice designazione di un collegamento ai social media non indica, di per sé, il grado o l’intensità del rapporto di un giudice con una persona».

Un parere del comitato consultivo di etica giudiziaria nominato dalla Corte Suprema della Florida sosteneva che la selezione di alcuni avvocati come amici su Facebook, il rifiuto di altri e la comunicazione implicita di queste scelte sulla rete trasmettevano e consentivano ad altri di trasmettere l’impressione di essere in una posizione speciale per influenzare il giudice. Negli anni successivi è emersa un’opinione contraria e la stessa Corte Suprema della Florida, con un voto di 5 a 3, si è trovata in disaccordo con il proprio comitato consultivo, affermando che «l’affermazione che un giudice sia “amico” di Facebook di un avvocato che compare davanti al giudice, da sola, non è una base giuridicamente sufficiente per la ricusazione», come ha ritenuto la maggioranza di 5 membri. I tre giudici dissenzienti hanno concluso che le amicizie tradizionali e quelle su Facebook non sono paragonabili:

«Un amico di Facebook ha accesso a tutte le informazioni personali presenti sulla pagina del profilo dell’utente, comprese le fotografie, gli aggiornamenti di stato, i like, i dislike, le informazioni sul lavoro, la storia scolastica, le immagini digitali, i video, i contenuti di altri siti web e una serie di altre informazioni, anche quando l’utente sceglie di rendere tutte le sue informazioni private al pubblico in generale (...) [e] gli “amici” di Facebook vengono a conoscenza di un numero considerevole di informazioni, comprese quelle potenzialmente personali, su base quasi quotidiana».

b) Like

In Bosnia Erzegovina, in un post su Facebook, qualcuno ha screditato la magistratura bosniaca e ha fatto commenti negativi sulle condizioni del sistema giudiziario. Un pubblico ministero (che lì gode dello stesso status di un giudice) ha apprezzato il post, apponendovi un “like”, ed è stato avviato un procedimento contro il pubblico ministero a causa della “dichiarazione” (nella misura in cui un “like” può essere considerato tale). Per quanto ne so, il caso è ancora pendente.

c) Post su Facebook

Un giudice canadese si è pensionato piuttosto che affrontare un’udienza disciplinare per i commenti che avrebbe inavvertitamente pubblicato su Facebook su altri due giudici.

In Slovenia, in un post del suo account privato chiuso al pubblico su Facebook, un giudice ha etichettato il Primo ministro come “il grande dittatore”, lamentandosi duramente per le misure adottate per combattere l’epidemia di Covid-19. Alcuni suoi amici hanno abusato della sua fiducia e hanno trasferito i suoi post al Segretario di Stato del gabinetto del Primo ministro sloveno, che ha reso pubblico il post. Il Consiglio giudiziario ha sottolineato che l’uso di un linguaggio irrispettoso nelle comunicazioni di un giudice, siano esse private o pubbliche, non è conforme all’integrità di un giudice. Tuttavia, la Corte disciplinare ha ritenuto che il giudice non avesse violato le regole disciplinari. Le sue dichiarazioni hanno anche dato origine allo sviluppo di linee-guida sull’uso dei social media da parte della Commissione etica.

In Georgia, un influente giudice ha pubblicato sulla sua pagina personale di Facebook un messaggio che esprimeva il suo atteggiamento negativo nei confronti dei partiti di opposizione e delle organizzazioni non governative.

d) TikTok

In Albania, un giudice è stato sospeso dall’Alto ispettore di giustizia per un periodo di sei mesi per comportamento inappropriato nell’uso di TikTok

In Romania, la sezione disciplinare del Csm ha allontanato un giudice dalla magistratura per aver postato due video di TikTok nell’ambito della sua vita privata, per la violazione dell’art. 99(a) della legge n. 303/2004, e successive modifiche, relativa allo status dei giudici e dei pubblici ministeri, che punisce le azioni che ledono l’onore professionale o l’integrità del prestigio della giustizia commesse durante o al di fuori dell’esercizio delle funzioni lavorative. La decisione è stata impugnata dal giudice presso l’Alta Corte di cassazione e giustizia.

e) Immagini

In Bosnia Erzegovina, la giudice che presiedeva una causa pendente ha caricato su Facebook un “selfie” accompagnato da un commento che esprimeva la sua felicità mentre era seduta in un ristorante; in seguito le è stato assegnato un caso che coinvolgeva quel ristorante, dove si è pronunciata a favore del gestore del ristorante. All’esito del procedimento disciplinare, la giudice ha ricevuto un’ammonizione.

In Germania, il presidente di una divisione penale di un tribunale regionale si è presentato sul suo sito pubblico di Facebook bevendo birra e indossando una maglietta con la scritta “Diamo una casa al vostro futuro: la prigione”. Uno degli avvocati della difesa, in un processo per rapina davanti alla stessa divisione penale, ha contestato il giudice mettendo in dubbio la sua imparzialità. Il tribunale ha respinto l’istanza ritenendola infondata, affermando che la questione riguardava solo la sua vita privata e che il giudice stava solo scherzando. Gli imputati sono stati condannati a otto e cinque anni di reclusione e hanno presentato ricorso alla Corte federale di giustizia, che ha ritenuto che la sentenza fosse basata su una violazione della legge (perché la mozione di ricusazione era stata erroneamente respinta) e ha annullato la condanna e rinviato la questione a un altro tribunale regionale. La Corte ha affermato che l’apparizione sui social media non era una questione di vita privata del giudice, poiché egli aveva fatto esplicito riferimento alla sua professione, ritraendosi in un modo incompatibile con la necessaria imparzialità di un giudice penale. 

Nel caso Lorenzana c. Austria, una giudice molto attraente, presumibilmente allo scopo di trovare un partner compatibile, ha mostrato le sue foto su Friendster e ha postato i suoi dati personali come giudice; ha posato con la parte superiore del corpo appena coperta da uno scialle, presumibilmente lasciando intendere che sotto non indossasse nulla. Con un severo avvertimento, il giudice è stato ammonito ad astenersi da ulteriori atti di scorrettezza. La sanzione è stata messa in discussione in quanto le foto non erano volgari, l’abbigliamento off-shoulder è un abbigliamento sociale accettabile secondo gli standard contemporanei e non è vietato, e infine perché non vi è alcun divieto per le donne attraenti di essere giudici. La Corte Suprema ha confermato la legittimità della sanzione affermando che, sebbene ai giudici non sia vietato diventare membri e partecipare ad attività di social network, essi in questo modo non si liberano del loro status di giudici, sicché, nell’esercizio della libertà di espressione, devono sempre comportarsi in modo da preservare la dignità dell’ufficio giudiziario e l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura.

In Germania, l’immagine del profilo del giudice era una foto di un berretto dell’uniforme della divisione “SS”, indossata dalla divisione militare responsabile dei campi di concentramento nella Seconda guerra mondiale e responsabile di crimini di guerra e genocidi; l’immagine era commentata con le parole: “Cari migranti, questo berretto vi permette di identificare il funzionario responsabile della vostra richiesta di asilo”. Il giudice è stato dimesso per gravi violazioni dei suoi doveri d’ufficio. 

f) Netflix

In un caso italiano riguardante le dichiarazioni rese da un pubblico ministero, nell’ambito di un documentario prodotto da Netflix su un omicidio oggetto di notevole attenzione da parte dei media di tutto il mondo – procedimento giudiziario ormai definitivamente chiuso a seguito della sentenza della Corte di cassazione –, è stata esclusa la sanzione disciplinare. La sezione disciplinare del Csm ha tenuto conto della circostanza che il procedimento penale era già stato deciso dallo stesso giudice e si era concluso, nonché della notevole risonanza mediatica e dell’assenza di espressioni idonee a ledere indebitamente i diritti altrui, ritenendo che si trattasse della narrazione di fatti processuali del tutto analoghi a quelli ipotizzabili in relazione a un libro scritto un anno dopo i fatti (Csm, sez. disc., 22 ottobre 2018, n. 163).

g) Messaggi personali

Negli Stati Uniti, un pubblico ministero e un giudice si sono scambiati su Whatsapp le loro impressioni su un processo in corso a cui partecipavano. Lo scambio è stato scoperto da un avvocato.

In Germania, una donna ha contattato l’amministrazione giudiziaria e ha dichiarato di non conoscere personalmente il procuratore, ma che da anni lui le inviava una serie di messaggi indesiderati attraverso vari social network; il procuratore è stato licenziato all’esito del periodo di prova, ha impugnato la decisione davanti alla Corte federale di giustizia, che ha ritenuto che vi fossero seri dubbi sulla sua idoneità a causa del contenuto dei messaggi, in particolare per il riferimento vanaglorioso ai poteri professionali in alcuni dei messaggi.

h) Tweet

In Austria, un giudice, coniuge di un giudice che presiedeva un caso penale di interesse pubblico, è stato sanzionato con una multa pecuniaria per aver twittato un commento negativo sulla persona accusata, dando così spazio alla ricusazione del giudice in carica. 

In un altro caso, sul suo account Twitter privato, un giudice ha ri-twittato un tweet scherzoso sugli avvocati (“Qual è la differenza tra un cane morto e un avvocato morto per strada? Che nel primo caso trovi le strisce di frenata”). La richiesta risarcitoria avanzata verso il giudice è stata respinta dal tribunale, ma il caso è stato riportato sul giornale con il nome e cognome del giudice e una foto-ritratto, e il giudice è stato costretto a cancellare il suo account Twitter privato.

i) Hyperlink

Nel caso USA c. Sierra Pacific Industries Inc. et al. (No. 15-15799, 9th Cir. 2017) un giudice ha postato sul suo tweet un collegamento (“link”) a un articolo di cronaca sulla sentenza appena emessa sul caso. La Corte del circuito ha affermato che il tweet non equivale a un commento pubblico sul merito di una causa in corso, contenendo solo un link ad articoli di cronaca e provenendo da un account che non identifica pubblicamente un membro della magistratura.

j) Commenti

In Grecia, la Corte Suprema ha punito un membro della magistratura che, attraverso un blog pubblico, aveva protestato con forza contro le misure di austerità e accusato i membri del gabinetto di essere traditori.

In Minnesota, l’anno scorso, un giudice ha commentato negativamente una segnalazione su Facebook relativa a un farmacista che aveva perso diverse dosi di vaccino Covid-19 lasciandole a temperatura ambiente durante la notte. La Commissione d’inchiesta giudiziaria ha ritenuto che le violazioni fossero abbastanza gravi da giustificare un’ammonizione pubblica. 

Nell’ottobre 2021, un giudice ha agito sui social media quale “negazionista” sulla pandemia di Covid-19. Contro questo giudice è stato aperto un procedimento disciplinare e la sanzione è stata l’espulsione. Il Consiglio giudiziario portoghese (Csm) ha deciso all’unanimità di espellere il giudice, affermando che egli aveva usato la sua posizione per fare “dichiarazioni diffamatorie” sui social media e minare il controllo della malattia. 

In Lituania, un giudice ha pubblicato su un portale un articolo in cui commentava in modo sfavorevole e critico le qualità negative di tutti i giudici; ha poi postato sul suo account Facebook l’articolo e un commento di un altro utente su tutti i giudici; ha anche contrassegnato con un “mi piace” i commenti sintetici sui giudici sul social network. Gli è stata inflitta una nota (la sanzione disciplinare più lieve), in quanto la Corte d’onore ha ritenuto che una generalizzazione negativa troppo ampia di tutti i giudici danneggi o possa danneggiare la fiducia dell’opinione pubblica sia nella magistratura sia nella capacità dei tribunali di trattare correttamente i casi. 

k) Sito web

Negli Stati Uniti, un giudice è stato pubblicamente rimproverato per aver gestito un sito web con materiale sessualmente esplicito e offensivo (Ethics Committee of the Kentucky Judiciary, Judicial Ethics Opinion JE-119, 2010).

In Italia, un procuratore generale gestiva in forma anonima un sito web in cui pubblicava sentenze e ordinanze dello stesso distretto con commenti che evidenziavano – spesso in modo molto sarcastico – errori legali, omettendo qualsiasi riferimento al nome del magistrato che aveva scritto il provvedimento. Mentre nessuna iniziativa disciplinare risulta nei confronti dei magistrati autori degli errori (a volte anche gravi), quando il magistrato è stato sottoposto alla valutazione per il rinnovo degli incarichi di procuratore generale, la sua correttezza è stata messa in discussione e l’incarico non è stato mantenuto.

l) Mailing-list

In Italia, in una mailing-list apparentemente riservata ai magistrati collegati da tutto il Paese, un giudice ha inviato una e-mail che criticava pesantemente l’allora Presidente del Consiglio italiano, chiamandolo con epiteti offensivi; la e-mail è stata pubblicata su un giornale e ha creato un lungo dibattito sull’uso improprio delle mailing-list, pur riservate, da parte dei giudici. 

Sul tema della responsabilità disciplinare dei magistrati, le espressioni inappropriate indirizzate ad incertam personam, in occasione di un intervento in un forum di discussione su un blog in tema di giustizia, non sono state ritenute integrare gli estremi dell’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. d, d.lgs n. 109/2006, se e in quanto la critica fosse oggettivamente non offensiva o derisoria, rientrando nella libertà di manifestazione del pensiero costituzionalmente garantita anche al magistrato, sia pure temperata in relazione alle specifiche funzioni sullo stesso incombenti (Cass., sez. unite, 23 ottobre 2017, n. 24969, Rv. 645915 – 01).

In tema di responsabilità disciplinare del magistrato, le espressioni sconvenienti rivolte ad incertam personam, in occasione di un intervento in un forum di discussione su un blog internet relativo a temi di giustizia, non integrano l’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. d, d.lgs n. 109/2006, che prevede che la condotta disciplinarmente rilevante sia posta in essere nell’esercizio delle funzioni, posto che la manifestazione del pensiero di un magistrato costituisce espressione di una libertà costituzionale che resta tale, e non diventa esercizio di una funzione giurisdizionale, anche quando si tratti di opinioni relative a questioni attinenti all’organizzazione di un ufficio giudiziario e al suo funzionamento, e sempre che non sia esplicitata attraverso riferimenti individualizzati (Cass., sez. unite, 17 marzo 2017, n. 6965, Rv. 643285 – 02). 

m) Attività di terzi 

Sebbene i giudici possano esercitare cautela nell’esprimere le proprie opinioni personali online, non possono in alcun caso impedire ad altri utenti di pubblicare commenti indesiderati o addirittura inappropriati sulla loro pagina social. Non è improbabile che tali commenti, indipendentemente dalla loro approvazione o cancellazione, vengano associati al titolare dell’account del social media. Il Comitato etico giudiziario della California (parere 66, già richiamato) ha ricordato gli obblighi del giudice in materia.

In Canada, alcune foto grafiche di natura sessuale che ritraevano una giudice erano state pubblicate online da terzi; la giudice non aveva avuto alcun controllo sulla pubblicazione, ma ne era consapevole; è stata giudicata colpevole di cattiva condotta per aver negato, in sede di audizione in vista del rapporto di lavoro, che ci fosse qualcosa nel suo passato che si sarebbe riflesso negativamente su di lei o sulla magistratura, e che avrebbe dovuto essere rivelato. 

n) Fondazione crowdfunding

Nel 2020 il Codice di etica giudiziaria della California vieta ai funzionari giudiziari di utilizzare piattaforme di crowdsourcing per favorire gli interessi di società commerciali.

o) Altri indirizzi

In Palestina, un giudice ha pubblicato un post sul suo account personale di Facebook (con dichiarazioni allarmanti relative all’operato dell’amministrazione giudiziaria) ed è stato sanzionato sulla base di una circolare recentemente emanata in materia di media dal capo dell’Alto consiglio giudiziario. Al-Haq, un’associazione non governativa indipendente per i diritti umani con sede nei Territori palestinesi occupati a Ramallah, ha denunciato la violazione della libertà di espressione del giudice senza restrizioni sui social media.

In India (caso Kameshwar c. Stato del Bihar), la Corte Suprema ha stabilito che, per il solo fatto di entrare nel servizio pubblico, una persona non cessa di essere un cittadino indiano o di aver diritto alla libertà di parola e di espressione garantita dalla Costituzione indiana ai sensi dell’art. 19(1)(a), che è un diritto fondamentale. 

In un altro caso (Abraham Kuruvilla c. S.C.T. Institute of Medical Sciences & Technology et al.), la Corte Suprema dell’India ha affermato che per dimostrare la parzialità sono necessarie prove adeguate e coerenti. È necessario dimostrare non solo l’esistenza di un pregiudizio di fatto, ma anche che c’è stato un errore giudiziario a causa di esso. Un approccio, dunque, che valorizza l’imparzialità del giudice e non anche la relativa apparenza, in sé poco significativa e non decisiva.

 

6. Fonti del diritto

Nella maggior parte dei Paesi, la costituzione contiene disposizioni generali sul diritto alla libertà di espressione, ma non disposizioni specifiche sull’esercizio della libertà di espressione da parte di giudici e pubblici ministeri, né sui mezzi informatici e tecnologici per l’espressione delle idee.

La legislazione nazionale o i codici deontologici elaborati dalle associazioni professionali di giudici e pubblici ministeri forniscono maggiori indicazioni. 

Da un certo punto di vista, considerando i social media come supporto tecnico neutrale della comunicazione, ciò implica che non è necessario prevedere una normativa specifica per l’uso dei social media da parte dei giudici. I quadri giuridici ed etici attualmente in vigore sono sufficienti per affrontare la questione dal punto di vista giudiziario e disciplinare. 

Un altro punto di vista, invece, sottolinea che i social media richiedono nuove regole e strumenti comportamentali per la magistratura, e che almeno le regole esistenti di judicial restraint e la regola contro la parzialità devono essere adattate alle sfide specifiche della comunicazione sui social media.

In qualsiasi approccio alla regolamentazione dell’uso dei social media da parte dei giudici, la modalità di regolamentazione dovrebbe essere sufficientemente “soft” da adattarsi ai cambiamenti tecnologici, adatta a incorporare i nuovi principi sviluppati dalla giurisprudenza disciplinare o dalla giurisprudenza sulla ricusazione, ma sufficientemente rigida da essere applicata come fonte secondaria di responsabilità. In ogni caso, la fonte principale per stabilire la responsabilità legale o disciplinare del giudice dovrebbe rimanere una norma rigida (costituzione o legge). 

Il modello dovrebbe basarsi sulla valutazione, da parte di un organo indipendente e imparziale – consiglio superiore della magistratura – e sentita l’associazione nazionale dei magistrati, delle violazioni o delle mancanze disciplinari che possono verificarsi nel contesto dell’uso dei social media da parte dei giudici.

Ovviamente qualsiasi violazione delle norme etiche nell’esercizio della libertà di espressione non può essere motivo di responsabilità disciplinare per un giudice: di conseguenza, è necessario tracciare una chiara linea di demarcazione tra, da un lato, la violazione degli obblighi etici da parte di un giudice e, dall’altro, una cattiva condotta invece disciplinarmente rilevante (la distinzione tra i due settori è netta nella raccomandazione n. 21/2020 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa).

La progettazione del modello dovrebbe essere guidata da alcuni valori etici e pratici: prudenza, precauzione, riserva, discrezione, dovere di vigilanza. 

Il requisito di base indicato potrebbe garantire una corretta applicazione dei test di proporzionalità e necessità, in un caso disciplinare specifico. 

Per quanto riguarda le sanzioni disciplinari, è necessario il rispetto dei principali fondamenti, che sono la legalità, la proporzionalità e la possibilità di sindacato giurisdizionale. 

A titolo di esempio, ricordo a questo proposito le Linee-guida per una condotta giudiziaria etica in Namibia.

Esse prevedono le seguenti regole:

«I giudici non rinunciano al diritto di avere una vita privata, né sono tenuti a isolarsi dalle loro comunità. Di conseguenza, non c’è alcun problema se un giudice possiede un account su Facebook, Twitter, LinkedIn o altri social media. 

Detto questo, la funzione giudiziaria è impegnativa e richiede che i giudici siano consapevoli del loro ruolo nel sostenere l’indipendenza, l’imparzialità e, soprattutto, l’integrità della magistratura. Si tratta di un obbligo oneroso che si applica dentro e fuori la corte. 

A questo proposito, sono vietate le seguente condotte: a. i giudici che inviano richieste di amicizia agli avvocati, o che accettano tali richieste; b. i giudici che condividono, ritwittano o ripubblicano, in qualsiasi forma, storie o commenti che potrebbero rivelare l’affiliazione politica di chi li diffonde; c. i giudici che condividono, ritwittano o ripubblicano, in qualsiasi forma, un’opinione sulla legalità di un evento che ha comportato una presunta condotta illecita o un caso che potrebbe essere portato davanti ad un tribunale.

Infine, si raccomanda ai giudici di assicurarsi di non identificarsi pubblicamente come giudici su queste forme di social media (ad esempio, aggiungendo le loro iniziali ecc.) (...).

Per quanto riguarda i media, un giudice dovrebbe esercitare la propria libertà di espressione non solo con la massima circospezione, ma anche con la massima moderazione. 

In caso di critiche da parte dei media su una decisione, o di critiche mosse da membri interessati del pubblico, il giudice dovrebbe astenersi dal rispondere a tali critiche scrivendo alla stampa o facendo commenti incidentali su tali critiche (...)».

In sintesi, i giudici devono sempre evitare il tipo di attività online che può minare la fiducia nella loro indipendenza e imparzialità e danneggiare la fiducia del pubblico nel sistema giudiziario.

Un’ultima osservazione sull’impatto di un quadro normativo specifico sulla libertà di espressione dei giudici sui social media: l’analisi delle specifiche regole sull’argomento mostra chiaramente che più la materia è regolamentata, soprattutto dai codici di condotta o dalle norme disciplinari, più il quadro normativo è rigido e più si restringe lo spazio per i giudici di esprimersi liberamente sui social media. Le norme della Namibia ne sono un chiaro esempio.

 

7. Il sistema di protezione della libertà di espressione della CEDU

La libertà di espressione è garantita anche dall’articolo 10 («Libertà di espressione») della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che recita: 

«1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive. 

2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario» (c.vi aggiunti).

L’art. 6 della Convenzione prevede il diritto a un processo equo: 

«1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge (…)» (c.vo aggiunto).

Di conseguenza, abbiamo decisioni della CEDU di tipo diverso in materia, a seconda delle controversie introdotte: alcune di esse sono state attivate dalla parte di un processo che lamentava la mancanza di imparzialità dei giudici ai sensi dell’art. 6; in altre, invece, a ricorrere alla CEDU, ai sensi dell’art. 10, è il giudice, già sanzionato.

La libertà di espressione è un diritto assoluto – come, ad esempio, il diritto alla vita (art. 2) o il divieto di tortura (art. 3) o di schiavitù e lavoro forzato (art. 4) –, così come la libertà di opinione.

La libertà di ricevere e diffondere informazioni e idee, invece, non è un diritto assoluto, e quindi conosce eccezioni e limiti. 

L’esercizio di questa libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere soggetto a formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni. 

Le interferenze degli Stati nell’esercizio di tale libertà sono possibili solo alle condizioni e nei limiti previsti dall’articolo 10, § 2, CEDU, che dev’essere interpretato in modo rigoroso. 

Alcuni limiti sono interni, derivanti dal concetto stesso di libertà di espressione. 

Altri limiti trovano la loro fonte essenzialmente nel secondo paragrafo dell’art. 10, o devono essere individuati al di fuori del perimetro dell’art. 10, a seconda delle circostanze del caso interessato, soprattutto perché la libertà di espressione spesso deve essere bilanciata con altri diritti protetti dalla CEDU. 

In conformità con l’art. 10, § 2, CEDU, qualsiasi interferenza dev’essere prevista dalla legge. 

Un’interferenza deve anche perseguire uno scopo legittimo, diretto alla tutela degli interessi richiamati dall’art. 10 (un elenco che non è esaustivo e la cui interpretazione e portata si evolve con la giurisprudenza della Corte). 

Un’interferenza deve anche essere necessaria in una società democratica, il che significa che si deve dimostrare che esiste una necessità sociale pressante, che persegue uno scopo legittimo e che è il mezzo meno restrittivo per raggiungere tale scopo. 

Quanto ai limiti interni, la libertà di espressione non beneficia della tutela dell’art. 10 quando l’espressione è incompatibile con i valori proclamati e garantiti dalla Convenzione: ad esempio, affermazioni che negano l’Olocausto, giustificano una politica filonazista, collegano tutti i musulmani con un grave atto di terrorismo, o dipingono gli ebrei come la fonte del male in Russia – si vedano: Lehideux e Isorni c. Francia, 23 settembre 1998; Garaudy c. Francia (dec.), n. 65831/01, 2003; Norwood c. Regno Unito (dec.), n. 23131/03, 2004; Witzsch c. Germania (dec.), n. 7485/03, 13 dicembre 2005; Pavel Ivanov c. Russia (dec.), n. 35222/04, 20 febbraio 07; Gündüz c. Turchia, n. 35071/97, 2003; Perincek c. Svizzera [GC], n. 27510/08, 15 ottobre 2015; per un caso riguardante la comunicazione via Internet, vds. Bartnik c. Polonia (dec.), n. 53628/10, 11 marzo 2014; per un caso di fake news, vds. Schuman c. Polonia (dec.), n. 52517/13, 3 giugno 2014). 

L’art. 10 della Convenzione stessa prevede anche dei limiti esterni al diritto in questione. Qualsiasi interferenza sulla libertà di espressione deve essere basata sulla legge, deve perseguire almeno uno degli scopi legittimi stabiliti e deve essere proporzionata. 

In primo luogo, la restrizione della libertà dev’essere “prevista dalla legge”. 

La Corte europea dei diritti dell’uomo ribadisce che l’espressione «prescritto dalla legge», ai sensi dell’art. 10, § 2, richiede innanzitutto che la misura impugnata abbia una base giuridica. Di solito si tratta di quella nazionale, ma può anche essere una convenzione delle Nazioni Unite o una legge dell’Unione europea. 

Anche il diritto nazionale deve essere identificato, tenendo conto del fatto che all’interno del Consiglio d’Europa ci sono Paesi di civil law e Paesi di common law. Pertanto, la fonte nazionale di una restrizione potrebbe essere indifferentemente la legge o il common law

Per essere rilevante, la legge deve soddisfare i requisiti della Convenzione: essenzialmente deve essere esistente, accessibile e prevedibile. Questa espressione non richiede solo il rispetto della legge, ma si riferisce anche alla qualità di tale legge, richiedendo che sia compatibile con lo Stato di diritto, che sia contenuta in una fonte ufficiale accessibile e che sia pubblicata. 

Per soddisfare tali requisiti, normalmente la legge deve essere scritta e raccolta in testi ufficiali o bollettini accessibili. La Corte ribadisce spesso che una norma non può essere considerata una «legge» ai sensi dell’art. 10, § 2, a meno che non sia formulata con sufficiente precisione per consentire ai cittadini – se necessario, con un’adeguata consulenza – di regolare la loro condotta; essi devono essere in grado di prevedere, in misura ragionevole rispetto alle circostanze, le conseguenze che una determinata azione può comportare; non è necessario che tali conseguenze siano prevedibili con assoluta certezza (vds. Dink c. Turchia, nn. 2668/07, 6102/08, 30079/08, 7072/09 e 7124/09, § 114, 2010; VgT Verein Gegen Tierfabriken c. Svizzera, n. 24699/94, § 52, 2001 VI; Rotaru c. Romania [GC], n. 28341/95, § 52, 2000-V; Gawęda c. Polonia, n. 26229/95, § 39, 2002-II; Maestri c. Italia [GC], n. 39748/98, § 30, 2004-I). 

Per «leggi» si intendono generalmente la Costituzione e la legislazione primaria. La Corte interamericana dei diritti dell’uomo (CIDU), nel suo parere consultivo sulla parola «leggi» nell’articolo 30 della Convenzione americana dei diritti dell’uomo, le definisce come «norme giuridiche generali legate al benessere generale, approvate da organi legislativi democraticamente eletti e istituiti dalla Costituzione, e formulate secondo le procedure» stabilite nelle rispettive costituzioni nazionali. Tuttavia, ciò non vieta necessariamente al legislatore di delegare tale potere, nel rispetto di alcuni vincoli. Inoltre, come osservato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, si rispetta la diversità dei sistemi giuridici, per cui anche la regola affermata dal giudice nei Paesi di common law è considerata «legge». I regolamenti sussidiari o altre norme sviluppate dal potere esecutivo o da altri attori in base a poteri delegati sono soggetti invece a condizioni rigorose. Tali deleghe saranno problematiche se conferiscono «una discrezionalità illimitata per la restrizione della libertà di espressione a coloro che sono incaricati della sua esecuzione».

Le leggi stesse devono soddisfare determinati standard qualitativi per superare questa parte del test. Ciò significa che non possono essere eccessivamente vaghe e devono essere accessibili. 

Infine, la legge che la governa deve a sua volta rispettare altri obblighi previsti dalle norme sui diritti umani. Ad esempio, non sono legittime le leggi discriminatorie o che prevedono pene non consentite dalle norme sui diritti umani, ad esempio perché crudeli e disumane.

Per soddisfare il requisito della prevedibilità, la legge deve essere sufficientemente chiara nei suoi termini per fornire agli individui un’indicazione adeguata delle circostanze e delle condizioni in cui le autorità sono autorizzate a ricorrere a tali misure.

Se da un lato la certezza è auspicabile, dall’altro essa può comportare un’eccessiva rigidità e la legge dev’essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze. Di conseguenza, molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini più o meno vaghi, la cui interpretazione e applicazione pongono problemi nella prassi. 

È molto importante che le leggi che prevedono restrizioni alla libertà di espressione siano accessibili e chiare. Se le leggi non sono chiare e accessibili, non daranno un’indicazione adeguata alle persone su quali espressioni sono proibite. Poiché gli individui non sanno se il loro discorso è protetto, si autocensureranno al di là di quanto previsto dalla legge. Questo crea quello che a volte viene chiamato “chilling effect”, perché le leggi poco chiare “congelano” o scoraggiano la libertà di espressione al di là di quanto la legge effettivamente vieta. 

Sebbene le leggi debbano essere precise, quanto debbano esserlo è una questione più difficile. La Corte europea dei diritti dell’uomo utilizza il criterio della ragionevole prevedibilità delle conseguenze di un’azione. Questo linguaggio è articolato nella storica causa Sunday Times c. Regno Unito: una norma non può essere considerata una «legge» se non è formulata con sufficiente precisione per consentire al cittadino di regolare la propria condotta: egli deve essere in grado – se necessario, con una consulenza adeguata – di prevedere, in misura ragionevole rispetto alle circostanze, le conseguenze che una determinata azione può comportare (vds. anche Altuğ Taner Akçam c. Turchia, per i risultati opposti dell’esame della Corte).

La Corte Edu ammette che spetta in primo luogo alle autorità nazionali, in particolare ai tribunali, interpretare e applicare il diritto interno (cfr. Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano c. Italia [GC], n. 38433/09, § 140, 2012; Kruslin c. Francia, 24 aprile 1990, § 29; Kopp c. Svizzera, 25 marzo 1998, § 59), e che una WECL nazionale (giurisprudenza consolidata) potrebbe essere un’ulteriore fonte di diritto che dà chiarezza alla legislazione. 

Una legge può comunque soddisfare il requisito della prevedibilità anche se la persona interessata deve avvalersi di un’adeguata consulenza legale per valutare, in misura ragionevole rispetto alle circostanze, le conseguenze che una determinata azione può comportare. 

Ciò è particolarmente vero in relazione alle persone che svolgono un’attività professionale, abituate a procedere con un elevato grado di cautela nell’esercizio della loro professione. Per questo motivo ci si può aspettare da loro una particolare attenzione nel valutare i rischi che tale attività comporta (Cantoni c. Francia, 15 novembre 1996, § 35, e Chauvy et al. c. Francia, n. 64915/01, §§ 43-45, 2004 VI). 

Nella sentenza Editorial Board of PravoyeDelo and Shtekel c. Ucraina (n. 33014/05, 5 maggio 2011), la Corte Edu ha riconosciuto per la prima volta che l’art. 10 della Convenzione dev’essere interpretato nel senso di imporre agli Stati l’obbligo positivo di creare un quadro normativo adeguato per garantire un’effettiva tutela della libertà di espressione dei giornalisti su Internet. In quel caso, i ricorrenti erano stati condannati al risarcimento dei danni per aver ripubblicato un testo anonimo, oggettivamente diffamatorio, che avevano scaricato da Internet (accompagnandolo con un editoriale che indicava la fonte e prendeva le distanze dal testo). È stato, inoltre, ordinato loro di pubblicare una ritrattazione e delle scuse, anche se queste ultime non sono previste dalla legge. Esaminando il caso alla luce dell’articolo 10 della Convenzione, la Corte ha rilevato che l’ingerenza denunciata non era «prevista dalla legge», come richiesto dal secondo paragrafo di tale articolo, perché all’epoca, nell’ordinamento ucraino, non esisteva una tutela legale per i giornalisti che ripubblicano contenuti da Internet. Inoltre, i tribunali nazionali si erano rifiutati di trasporre in questa situazione le disposizioni che tutelavano la stampa. Tuttavia, la protezione dei giornalisti è subordinata alla condizione che essi agiscano in buona fede e forniscano informazioni affidabili e precise in conformità con un giornalismo responsabile (Stoll c. Svizzera [GC], n. 69698/01, § 104, 2007 V). 

Una volta accertato che l’ingerenza interessata ha una base giuridica, la Corte passerà a considerare se l’ingerenza serve a uno dei sei «scopi legittimi» specificati al § 2 dell’articolo 10: 1) «nell’interesse della sicurezza nazionale, dell’integrità territoriale o della pubblica sicurezza»; 2) «per la prevenzione di disordini o crimini»; 3) «per la protezione della salute o della morale»; 4) «per la protezione della reputazione o dei diritti altrui»; 5) «per impedire la divulgazione di informazioni ricevute in via confidenziale»; 6) «per mantenere l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario». 

Se la restrizione è basata sulla legge e sostenuta da almeno una delle finalità legittime espressamente menzionate, l’interferenza deve essere infine «necessaria in una società democratica». Questo passo finale richiede di concentrarsi sull’esercizio di bilanciamento tra i diversi interessi e diritti protetti. Si tratta di una valutazione complessa, che dipende ampiamente dalle circostanze peculiari del caso specifico. 

«Necessario in una società democratica» significa, secondo la giurisprudenza della Corte Edu, che deve corrispondere a un «bisogno sociale pressante», essere proporzionato allo scopo legittimo perseguito ai sensi del secondo paragrafo dell’articolo 10 e giustificato da decisioni giudiziarie che forniscano una motivazione pertinente e sufficiente. Nella maggior parte dei casi, infatti, la libertà di espressione è in relazione con altri importanti diritti tutelati dalla Convenzione: ad esempio, in una società moderna l’interesse dei giornalisti e dei media a diffondere informazioni può spesso entrare in conflitto con il diritto alla privacy altrui, parte del diritto alla vita privata tutelato dall’art. 8 della Convenzione (si vedano, tra le tante, Axel Springer AG c. Germania [GC], n. 39954/08, § 83, 7 febbraio 2012; Von Hannover c. Germania (n. 2) [GC], nn. 40660/08 e 60641/08, 2012).

Il requisito della necessità richiede anche una stretta connessione tra la restrizione e la capacità di proteggere l’interesse pubblico minacciato. Nel determinare se una restrizione soddisfa questa parte del test, il termine «necessario» deve essere interpretato come non così forte come “indispensabile”, ma più che semplicemente “utile”, “ragionevole” o “desiderabile”. Nella parte del test relativa alla necessità è incorporato un requisito di proporzionalità, il che significa che la restrizione dev’essere proporzionata alla tutela dell’interesse legittimo. In altre parole, le restrizioni «devono essere appropriate per raggiungere la loro funzione di protezione». 

Nel valutare se una restrizione è proporzionata, lo Stato deve considerare «la forma di espressione in questione e i mezzi di diffusione». Ad esempio, il valore attribuito alla libertà di espressione è particolarmente elevato nel contesto di un dibattito pubblico riguardante personaggi pubblici e politici. 

Un altro elemento di proporzionalità è che la restrizione non dev’essere eccessiva: una restrizione deve interferire «il meno possibile con l’effettivo esercizio del diritto». Se esiste un mezzo alternativo efficace per proteggere l’interesse pubblico in questione, dev’essere adottato questo approccio alternativo. Allo stesso modo, se l’obiettivo può essere raggiunto con diversi mezzi, dev’essere scelta l’opzione che limita meno il diritto. 

La proporzionalità è richiesta anche in relazione a qualsiasi sanzione imposta nell’ambito di una restrizione alla libertà di espressione. Ciò significa, ad esempio, che l’imposizione di sanzioni penali andrà bilanciata rispetto all’interesse pubblico in gioco.

Gli Stati contraenti hanno un certo margine di apprezzamento nel valutare l’esistenza di tale necessità, ma questo va di pari passo con la supervisione europea, che comprende sia la legislazione che le decisioni che la applicano, anche quelle emesse da un tribunale indipendente. Secondo la Corte Edu, se le autorità nazionali hanno un certo margine di apprezzamento, questo non è illimitato e la Corte ha quindi il potere di decidere in via definitiva se una “restrizione” sia conciliabile con la libertà di espressione tutelata dall’art. 10. 

Il compito della Corte nell’esercizio della sua funzione di vigilanza non è quello di essere una quarta istanza, che si sostituisce alle autorità interne per rivalutare le prove raccolte nei procedimenti nazionali. Si tratta piuttosto di verificare, alla luce del caso nel suo complesso, se le decisioni prese da queste ultime in virtù del loro potere di apprezzamento possano essere conciliate con le disposizioni della Convenzione invocate. Quando viene denunciata un’interferenza delle autorità nazionali con l’art. 10, la Corte è tenuta a verificare se tale restrizione è consentita dalla Convenzione. Ciò non significa che il controllo si limiti ad accertare se lo Stato convenuto abbia esercitato il proprio potere discrezionale in modo ragionevole, attento e in buona fede; la Corte deve esaminare l’ingerenza lamentata alla luce del caso nel suo complesso e stabilire se essa sia «proporzionata allo scopo legittimo perseguito» e se le ragioni addotte dalle autorità nazionali per giustificarla siano «pertinenti e sufficienti». Come già detto, la Corte applica un triplice test per esaminare le decisioni interne sulla presunta interferenza, verificando se l’interferenza è basata sulla legge, persegue almeno uno degli scopi legittimi stabiliti ed è proporzionata. 

In un esame finale, spesso l’analisi del diritto comparato gioca un ruolo importante. Potrebbe esistere una regolamentazione omogenea della questione giuridica interessata – cd. “consenso” – tra tutti gli Stati contraenti. In questo caso, un rapporto di ricerca può delineare una chiara tendenza tra la grande maggioranza dei Paesi del Consiglio d’Europa presi in esame. Queste circostanze saranno normalmente apprezzate dalla Corte, nel senso che il margine di apprezzamento per il singolo Stato contraente è ristretto. Di conseguenza, il controllo europeo esercitato dalla Corte sarà più severo sull’azione interessata, perché questa si dimostra isolata, a fronte di un diverso “consenso” o “tendenza” tra gli altri Paesi.

 

8. L’imparzialità dei giudici (art. 6)…

L’imparzialità dei giudici è stata messa in discussione dalla Corte Edu in molti casi:

- il fatto che un membro di un tribunale abbia una certa conoscenza personale di un attore del procedimento (il che non significa necessariamente che il giudice sarà pregiudicato a favore di quella persona: Pullar c. Regno Unito, n. 22399/93, 10 giugno 1996);

- imparzialità dei giudici che valutano un oltraggio alla corte da parte di una delle parti dello stesso processo (Kyprianou c. Cipro, n. 73797/01, 15 dicembre 2005);

- imparzialità del presidente del tribunale per una dichiarazione pubblica alla stampa su un caso (Buscemi c. Italia, n. 29569/95, 16 settembre1999 – violazione del diritto di difesa);

- licenziamento di un giudice a causa della sua vita privata e della sua stretta relazione con un avvocato i cui clienti ne hanno indirettamente beneficiato (Ozpinar c. Turchia, n. 20999/04, 19 ottobre 2010: violazione dell’art. 8), dove la Corte ha affermato il principio «i doveri etici dei giudici possono entrare nella loro vita privata quando la loro condotta offusca l’immagine o la reputazione della magistratura»;

- mancanza di imparzialità del giudice a causa dei legami familiari tra il presidente del tribunale e l’avvocato della controparte (Micallef c. Malta, n. 17056/06, 15 ottobre 2009).

Uno dei primi giudizi della corte è stato Hauschildt c. Danimarca (n. 10486/83) del 24 Maggio 1989, dove la Corte ha affermato che l’esistenza di imparzialità per lo scopo di cui all’art. 6, comma 1, dev’essere determinata in base a un test soggettivo, cioè sulla base della convinzione personale di un determinato giudice in un determinato caso, e anche in base a un test oggettivo, cioè verificando se il giudice offra garanzie sufficienti a escludere qualsiasi dubbio legittimo al riguardo (vds., tra le altre autorità, la sentenza De Cubber del 26 ottobre 1984, serie A, n. 86, pp. 13-14, par. 24).

In base al test oggettivo, si deve stabilire se, al di là del comportamento personale del giudice, vi siano fatti accertabili che possano sollevare dubbi sulla sua imparzialità. In questo senso, anche le apparenze possono avere una certa importanza. La posta in gioco è la fiducia che i tribunali di una società democratica devono ispirare nel pubblico e soprattutto, per quanto riguarda i procedimenti penali, nell’imputato. Di conseguenza, qualsiasi giudice nei confronti del quale vi sia un motivo legittimo di temere una mancanza di imparzialità deve ritirarsi (vds., mutatis mutandis, De Cubber, cit., par. 26, p. 14).

Ciò implica che, nel decidere se in un determinato caso vi sia un motivo legittimo per temere che un determinato giudice manchi di imparzialità, il punto di vista dell’imputato è importante, ma non decisivo. Ciò che è decisivo è se questo timore può essere ritenuto oggettivamente giustificato.

Le autorità giudiziarie, nell’esercizio della loro funzione giurisdizionale, sono tenute a esercitare la massima discrezione in merito ai casi che trattano, al fine di preservare la loro immagine di giudici imparziali, ma anche nell’esprimere critiche nei confronti dei colleghi pubblici ufficiali e, in particolare, degli altri giudici (Di Giovanni c. Italia, n. 51160/06, 9 luglio 2013). In questo caso la ricorrente (un giudice), oltre a criticare il sistema giudiziario italiano in un articolo di stampa, aveva evidenziato la mancanza di imparzialità di un recente concorso pubblico per l’ingresso in magistratura facendo riferimento a un collega (genericamente identificato) che avrebbe esercitato la sua influenza per favorire la figlia. Respingendo il ricorso della ricorrente per violazione dell’art. 10 della CEDU contro l’ammonimento inflittole dalla Camera disciplinare del Csm, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che la ricorrente non avesse dato prova della discrezione richiesta a un giudice. Il magistrato non aveva tenuto conto dei possibili dubbi sulla veridicità delle informazioni, contribuendo così a presentare come fondata all’opinione pubblica una voce che, poi, si è rivelata infondata. Nella parte finale della decisione si legge: «Sottolineando la massima discrezione imposta alle autorità giudiziarie, la Corte ricorda che tale discrezione deve indurle a non utilizzare la stampa, nemmeno per rispondere alle provocazioni» (§ 80). La Corte ha concluso per la non violazione.

Con la decisione 15 novembre 2016 sul caso Simić c. Bosnia Erzegovina (n. 75255/10), la Corte Edu ha dichiarato all’unanimità il ricorso irricevibile. Il caso riguardava la rimozione del Sig. Simić dalla carica di giudice della Corte costituzionale. Basandosi in particolare sull’art. 6, § 1 (diritto a un equo processo), e sull’art. 10 (libertà di espressione), Simić sosteneva in particolare che il procedimento di licenziamento era stato ingiusto e che era stato rimosso dall’incarico a causa delle dichiarazioni che aveva rilasciato pubblicamente attraverso i media criticando la Corte costituzionale. Pur sostenendo di essere stato rimosso dall’incarico a causa delle sue dichiarazioni pubbliche, la decisione aveva invece riguardato essenzialmente la sua capacità di esercitare le proprie funzioni e non le sue opinioni espresse pubblicamente. In effetti, le ragioni della rimozione dalla carica erano da ricercare nella sua lettera del maggio 2009, che aveva indubbiamente sollevato sospetti sulla sua imparzialità e indipendenza, e nel comportamento incompatibile con il ruolo di giudice. La Corte ha quindi concluso che il reclamo del Sig. Simić ai sensi dell’art. 10 era manifestamente infondato e doveva essere respinto in quanto irricevibile. 

Nella causa n. 65717/14, Rasa Auguste c. Lituania, deciso con sentenza del 26 febbraio 2019, una giudice lituana è stata ritenuta negligente nell’esercizio della funzione di giudice e non ha intrapreso tempestivamente alcune azioni procedurali. Il procedimento contestato mirava a stabilire se la ricorrente avesse o meno rispettato gli obblighi di legge nell’esercizio delle sue funzioni giudiziarie e se il suo comportamento fosse o meno da qualificare come illecito disciplinare. L’infrazione disciplinare di cui la ricorrente è stata accusata e giudicata colpevole non riguardava dichiarazioni od opinioni da lei espresse nel contesto di un dibattito pubblico o nei media. Alla luce di quanto sopra, la Corte ritiene che la severa ammonizione inflitta alla ricorrente riguardasse essenzialmente la sua capacità di esercitare correttamente le funzioni di giudice del tribunale distrettuale della città di Klaipėda e fosse motivata in particolare dal suo rifiuto di seguire i precedenti giudiziari, dalle sue azioni che avevano protratto i procedimenti giudiziari e dai suoi atteggiamenti personali nei confronti del tribunale regionale di Klaipėda, espressi pubblicamente alle parti del procedimento. Considerando la portata della misura in questione nel contesto dei fatti del caso e della legge pertinente, la Corte conclude che non vi è stata alcuna interferenza con l’esercizio del diritto della ricorrente alla libertà di espressione, come garantito dall’articolo 10.

Di conseguenza, questo ricorso è incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione ai sensi dell’art. 35, § 3 (a), e deve essere respinto in conformità con l’articolo 35, § 4.

La Corte ritiene dunque che, come poi anche nella causa Harabin c. Slovacchia (n. 58688/11, §§ 151-52, 20 novembre 2012), sia il comportamento professionale del ricorrente nel contesto dell’amministrazione della giustizia a rappresentare l’aspetto essenziale del caso e non, invece, le mere dichiarazioni rese. 

 

9. ... E la loro libertà di espressione (art. 10)

Molte sentenze della Corte Edu sono direttamente collegate all’applicazione delle garanzie dell’art. 10 in favore dei giudici. 

Il 28 ottobre 1999, nel caso Wille c. Liechtenstein (n. 28396/95), la Corte ha ritenuto che vi fosse stata una violazione dell’articolo 10.

Il ricorrente era presidente del Tribunale amministrativo del Liechtenstein a tempo determinato; aveva tenuto una conferenza pubblica presso un istituto di ricerca su «La natura e le funzioni della Corte costituzionale del Liechtenstein», esprimendo l’opinione che la Corte costituzionale fosse competente a decidere sull’«interpretazione della Costituzione in caso di disaccordo tra il Principe (Governo) e la Dieta». 

Il Principe non gradì, esprimendo in una lettera l’interdizione del giudice a ricoprire una carica pubblica, e in seguito, quando il candidato fu proposto dalla Dieta del Liechtenstein per un ulteriore mandato come presidente del Tribunale amministrativo, il Principe non lo nominò.

La Corte ha ritenuto che, sebbene i «doveri e le responsabilità» di cui all’art. 10, § 2, assumano un significato particolare – in quanto ci si può aspettare che i funzionari pubblici che prestano servizio nella magistratura mostrino moderazione nell’esercizio della libertà di espressione in tutti i casi in cui l’autorità e l’imparzialità della magistratura possono essere messe in discussione –, tuttavia la Corte ha riscontrato che vi è stata un’interferenza con la libertà di espressione di un giudice e che, sebbene sia prevista dalla legge e persegua uno scopo legittimo, è stata sproporzionata.

Nella sentenza Kayasu c. Turchia (n. 1), (n. 64119/00), del 13 novembre 2008, il caso riguardava la condanna penale e la rimozione dall’incarico di un pubblico ministero per abuso di autorità e oltraggio alle Forze armate in relazione a una denuncia penale, presentata come privato cittadino, contro ex-generali dell’esercito che erano stati i principali istigatori del colpo di Stato militare del 12 settembre 1980; in qualità di pm, inoltre, aveva redatto un atto di accusa contro Kenan Evren, ex-Capo di stato maggiore ed ex-Presidente della Turchia (che di quel colpo di Stato fu il principale istigatore), aveva distribuito copie dell’atto di accusa alla stampa e aveva rilasciato dichiarazioni ai giornalisti ricevuti a casa sua.

Mentre l’art. 15 transitorio della Costituzione prevedeva che gli istigatori del colpo di Stato del 1980 fossero immuni da azioni penali, il procuratore è stato condannato dalla Corte di cassazione per avere abusato della sua posizione e aver recato offesa alle Forze armate. È stato condannato a pene pecuniarie sospese; anche il ricorrente è stato sospeso dal suo incarico di pm e successivamente licenziato. 

La Corte Edu ha rilevato che il ricorrente aveva subito un’interferenza che era prevista dalla legge e perseguiva scopi legittimi ai fini del § 2 dell’art. 10: salvaguardare l’autorità e l’imparzialità della magistratura (per l’interferenza che implicava l’abuso di posizione) e proteggere la reputazione di altri (per quella che implicava l’insulto). Per quanto riguarda la necessità dell’ingerenza in una società democratica, vale la pena notare che il suo status speciale di pubblico ministero conferiva al ricorrente un ruolo essenziale nell’amministrazione della giustizia. La Corte ha già avuto modo di sottolineare che i funzionari pubblici in servizio presso la magistratura sono tenuti a dare prova di moderazione nell’esercizio della libertà di espressione in tutti i casi in cui l’autorità e l’imparzialità della magistratura possono essere messe in discussione. Qualsiasi interferenza con la libertà di espressione di un membro del servizio giuridico in una posizione come quella del ricorrente, tuttavia, richiedeva un attento esame da parte della Corte. Nel caso di specie, le dichiarazioni in questione erano state rese nel particolare contesto di un dibattito storico, politico e giuridico riguardante, tra l’altro, la possibilità di perseguire gli istigatori del colpo di Stato del 12 settembre 1980, e si trattava indubbiamente di una questione di interesse generale, alla quale il ricorrente aveva inteso partecipare sia come semplice cittadino che come pubblico ministero. Il contenuto dei documenti in questione era critico e accusatorio nei confronti degli istigatori del golpe. Tuttavia, pur essendo acri e a volte sarcastiche, le dichiarazioni non potevano certo essere definite “offensive”. 

Di conseguenza, la condanna del ricorrente per aver causato un reato non aveva soddisfatto alcuna «pressante esigenza sociale» in grado di giustificare tale restrizione. Inoltre, l’imposizione di una sanzione penale di tale natura a un funzionario del servizio giuridico nazionale avrebbe inevitabilmente, per sua stessa natura, un effetto inibitorio, non solo sul funzionario in questione ma sulla professione nel suo complesso. Affinché il pubblico abbia fiducia nell’amministrazione della giustizia, deve avere fiducia nella capacità di giudici e pubblici ministeri di sostenere efficacemente i principi dello Stato di diritto. Ne consegue che l’eventuale effetto di dissuasione è un fattore importante da considerare per trovare il giusto equilibrio tra il diritto alla libertà di espressione di un membro del servizio giuridico nazionale e qualsiasi altro legittimo interesse concorrente nel contesto della corretta amministrazione della giustizia.

L’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione del ricorrente, sotto forma di sanzione per aver arrecato offesa alle Forze armate, a seguito della quale era stato licenziato in modo permanente dal suo incarico di pubblico ministero e gli era stato vietato di esercitare la professione forense, era stata sproporzionata rispetto a qualsiasi scopo legittimo perseguito. Le conclusioni della Corte sono state dunque per un constat di violazione (all’unanimità).

Un caso emblematico in materia di whistleblowing è Guja c. Moldavia (n. 4277/04), del 12 febbraio 2008, in cui la Corte Edu ha avuto l’opportunità di chiarire che la libertà di espressione dei funzionari pubblici è limitata, in una società democratica, al fine di garantire la loro adesione ai doveri di lealtà, riservatezza e discrezione. Pertanto, se un dipendente pubblico divulga informazioni relative a comportamenti scorretti o illeciti nell’ambito della sua funzione pubblica, tale divulgazione sarà protetta dall’art. 10 della CEDU solo se il bilanciamento tra l’osservanza dei suoi doveri professionali e l’interesse del pubblico a essere informato delle accuse in questione propende per quest’ultimo. Nel trovare tale equilibrio, la Corte esamina una serie di fattori relativi a ciascun caso, in particolare: a) la denuncia deve essere comunicata in modo confidenziale a un superiore o a un’autorità competente, se tale autorità esiste e può garantire un’efficace gestione della condotta illecita in questione; b) la denuncia deve essere verificata per accertarne l’accuratezza e dev’essere il più possibile fondata, date le circostanze in questione; c) l’interesse pubblico a che la denuncia venga rivelata e, di conseguenza, esaminata deve essere superiore al “danno morale” che l’autorità pubblica subirà a seguito della divulgazione; d) la motivazione del whistleblower non dev’essere infondata, vale a dire derivare da un antagonismo, da una vendetta personale o dall’aspettativa di un guadagno pecuniario. Applicando questo principio di proporzionalità, la Corte ha ritenuto che una sanzione disciplinare nei confronti di un giudice per aver rivelato pubblicamente un’accusa specifica di cattiva condotta da parte del presidente della sua Corte costituisse una violazione dell’articolo 10. 

In sostanza, il dovere di discrezione dei giudici impone loro di astenersi dal divulgare informazioni e fare commenti online sul funzionamento interno dell’organo giudiziario, non solo per garantire il rispetto dei dati riservati, ma anche per evitare di esporre la magistratura a critiche in malafede, prive di motivazioni profonde. Eventuali commenti e accuse di questo tipo possono e devono essere discussi in modo riservato con altri colleghi, con i superiori e con gli organi competenti incaricati di gestire gli episodi di non conformità, o anche all’interno delle associazioni di giudici. Tuttavia, un giudice che desideri condividere in un forum appropriato sui social media un’accusa di cattiva condotta giudiziaria o istituzionale può e deve farlo, a condizione che: a) l’accusa non sia stata efficacemente affrontata a livello istituzionale interno; b) la sua accuratezza sia verificata al meglio delle sue conoscenze e capacità; c) l’importanza dell’accusa per l’interesse pubblico superi il danno causato dalla sua divulgazione alla fiducia del pubblico nell’organo giudiziario coinvolto; d) la motivazione alla base della divulgazione non sia censurabile.

Nel caso Kudeshkina c. Russia (n. 29492/05), del 29 febbraio 2009, la Corte ha ritenuto, con quattro voti contro tre, che vi fosse stata una violazione dell’art. 10, in quanto il licenziamento dalla magistratura della Sig.ra Kudeshkina era una sanzione sproporzionata per le dichiarazioni da lei rilasciate ai media (in interviste a giornali russi e a una stazione radio), nelle quali aveva criticato gli alti funzionari giudiziari per aver esercitato pressioni su di lei in relazione a un caso penale di alto profilo.

Avendo notato che la Sig.ra Kudeshkina aveva criticato pubblicamente la condotta di vari funzionari e aveva affermato che le pressioni sui giudici erano comuni, la Corte ha ritenuto che la ricorrente avesse indubbiamente sollevato una questione di interesse pubblico molto importante, che doveva essere aperta al libero dibattito in una società democratica. La Corte ha, inoltre, osservato che il modo in cui la sanzione disciplinare era stata inflitta alla Sig.ra Kudeshkina non aveva assicurato importanti garanzie procedurali. Infine, la Corte ha osservato che la sanzione inflitta (il licenziamento) alla ricorrente è stata in grado di produrre un “effetto dissuasivo” sui giudici che desiderano partecipare al dibattito pubblico sull’efficacia delle istituzioni giudiziarie. 

La Corte ha quindi ritenuto, pur con tre opinioni dissenzienti, che tale sanzione fosse sproporzionatamente severa, in violazione dell’articolo 10. 

Il Giudice di Strasburgo ha preso in considerazione non solo l’oggetto del discorso, ma anche le modalità, il contesto e la gravità della sanzione.

I criteri più rilevanti per bilanciare la libertà di espressione e l’autorità, l’indipendenza e l’imparzialità della magistratura sono: l’oggetto, il modo, il motivo e il contesto del discorso, il rango della carica giudiziaria e la gravità dell’interferenza.

Per quanto riguarda l’argomento, la Corte prende in considerazione se il contenuto del discorso è di interesse pubblico (cioè il discorso politico gode di una protezione speciale) e se rappresenta un commento corretto.

Per determinare se una sanzione sia proporzionata, la Corte considera anche se abbia l’effetto di scoraggiare altri giudici dal rilasciare in futuro dichiarazioni critiche nei confronti delle istituzioni o delle politiche pubbliche. Un tale effetto di dissuasione nei confronti di altri giudici che desiderano partecipare al dibattito pubblico andrebbe, invero, a scapito della società nel suo complesso.

I fattori rilevanti per valutare la proporzionalità di un’interferenza includono anche l’equità del procedimento che porta a una restrizione (ad esempio, un procedimento disciplinare), le garanzie procedurali offerte e la natura e la gravità delle sanzioni imposte.

Due casi emblematici si riferiscono a critiche espresse pubblicamente da un giudice, nella sua veste professionale, su questioni di interesse generale.

Il primo è la sentenza Baka c. Ungheria [GC] (n. 20261/12), del 23 giugno 2016. Il caso riguardava la cessazione prematura del mandato del presidente della Corte Suprema ungherese, a seguito delle sue critiche alle riforme legislative e dell’impossibilità di impugnare tale decisione davanti a un tribunale. Il suo mandato di sei anni è terminato, tre anni e mezzo prima della sua normale scadenza, con l’entrata in vigore della Legge fondamentale (la nuova Costituzione), che prevedeva la creazione della Kúria, la più alta corte ungherese, per succedere e sostituire la Corte Suprema. La Corte ha rilevato, in particolare, che il Sig. Baka non aveva goduto del diritto di accesso a un tribunale, poiché la cessazione del suo mandato derivava dalle misure transitorie della nuova Legge fondamentale, una normativa costituzionale non soggetta ad alcuna forma di controllo giurisdizionale. Secondo la Corte, questa mancanza di controllo giurisdizionale era il risultato di una legislazione la cui compatibilità con i requisiti dello Stato di diritto era dubbia. La Corte ha, inoltre, sottolineato l’importanza dell’intervento di un’autorità indipendente dal potere esecutivo e legislativo in merito a ogni decisione che riguardi la cessazione dall’incarico di un giudice. 

La Corte ha poi ritenuto che la cessazione prematura del mandato di Baka abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione, in quanto derivante dalle opinioni e dalle critiche che egli aveva espresso pubblicamente, nella sua veste professionale, su questioni di interesse generale. La Corte ha osservato che le dichiarazioni di Baka non andavano oltre la semplice critica da una prospettiva strettamente professionale, e riguardavano chiaramente un dibattito su questioni di interesse pubblico. Considerando la sequenza degli eventi nella loro interezza, la Corte ha ritenuto che vi fossero prove prima facie di un nesso causale tra l’esercizio della libertà di espressione di Baka e la cessazione del suo mandato.

Infine, la fine prematura del mandato di Baka ha indubbiamente avuto un effetto dissuasivo e deve aver scoraggiato non solo lo stesso Baka, ma anche altri giudici e presidenti di tribunale a partecipare in futuro al dibattito pubblico sulle riforme legislative che riguardano il sistema giudiziario e sulle questioni relative all’indipendenza della magistratura. 

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che vi fosse stata una violazione dell’articolo 6, § 1 (diritto di accesso a un tribunale) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e una violazione dell’articolo 10 (libertà di espressione). 

Vale la pena ricordare i principi generali sulla libertà di espressione dei giudici espressi nella sentenza Baka ai §§. 164-167:

«164. La Corte ha riconosciuto che ci si può aspettare che i funzionari pubblici in servizio presso la magistratura mostrino moderazione nell’esercizio della libertà di espressione in tutti i casi in cui l’autorità e l’imparzialità della magistratura possono essere messe in discussione (cfr. Wille, sopra citata, § 64; Kayasu, sopra citata, § 92; Kudeshkina, sopra citata, § 86; e Di Giovanni, sopra citata, § 71). La diffusione di informazioni anche accurate deve avvenire con moderazione e correttezza (cfr. Kudeshkina, sopra citata, § 93). La Corte ha più volte sottolineato il ruolo speciale nella società del potere giudiziario che, in quanto garante della giustizia, valore fondamentale in uno Stato di diritto, deve godere della fiducia dell’opinione pubblica per poter svolgere con successo le proprie funzioni (ibidem, § 86, e Morice, sopra citata, § 128). È per questo motivo che le autorità giudiziarie, per quanto riguarda l’esercizio della loro funzione giurisdizionale, sono tenute a esercitare la massima discrezione in merito ai casi di cui si occupano, al fine di preservare la loro immagine di giudici imparziali (cfr. Olujić, sopra citato, § 59).

165. Allo stesso tempo, la Corte ha anche sottolineato che, considerando in particolare la crescente importanza attribuita alla separazione dei poteri e l’importanza di salvaguardare l’indipendenza della magistratura, qualsiasi interferenza con la libertà di espressione di un giudice in una posizione come quella del ricorrente richiede un attento esame da parte della Corte (si veda Harabin (dec.) 2004, sopra citato; si veda anche Wille, sopra citato, § 64). Inoltre, le questioni relative al funzionamento del sistema giudiziario rientrano nell’interesse pubblico, il cui dibattito gode generalmente di un elevato grado di protezione ai sensi dell’articolo 10 (cfr. Kudeshkina, § 86, e Morice, § 128, entrambi citati sopra). Anche se una questione oggetto di dibattito ha implicazioni politiche, ciò non è di per sé sufficiente a impedire a un giudice di rilasciare una dichiarazione in merito (cfr. Wille, sopra citata, § 67). Le questioni relative alla separazione dei poteri possono riguardare questioni molto importanti in una società democratica, sulle quali il pubblico ha un interesse legittimo a essere informato e che rientrano nell’ambito del dibattito politico (cfr. Guja, sopra citata, § 88).

166. Nel contesto dell’articolo 10 della Convenzione, la Corte deve tenere conto delle circostanze e del contesto generale in cui sono state rese le dichiarazioni in questione (si veda, mutatis mutandis, Morice, § 162). Essa deve esaminare l’ingerenza impugnata alla luce del caso nel suo complesso (cfr. Wille, § 63, e Albayrak, § 40, entrambi citati in precedenza), attribuendo particolare importanza alla carica ricoperta dal ricorrente, alle sue dichiarazioni e al contesto in cui sono state rese.

167. Infine, la Corte ribadisce l’”effetto inibitorio” che il timore di sanzioni ha sull’esercizio della libertà di espressione, in particolare su altri giudici che desiderano partecipare al dibattito pubblico su questioni relative all’amministrazione della giustizia e al sistema giudiziario (cfr. Kudeshkina, sopra citata, §§ 99-100). Questo effetto, che va a scapito della società nel suo complesso, è anche un fattore che riguarda la proporzionalità della sanzione o della misura punitiva imposta (ibidem, § 99)».

Il secondo caso è stato Kövesi c. Romania (n. 3594/19), del 5 agosto 2020, che riguardava la rimozione della ricorrente come procuratore capo della Direzione nazionale anticorruzione prima della fine del suo secondo mandato, a seguito delle sue critiche alle riforme legislative in materia di corruzione.

La Corte Edu ha ritenuto, all’unanimità, che vi fosse stata una violazione dell’art. 10. Il diritto alla libertà di espressione della ricorrente era stato violato perché era stata licenziata per le critiche che aveva espresso, nell’esercizio delle sue funzioni, su una questione di grande interesse pubblico. 

La Corte non ha accettato che l’interferenza avesse perseguito uno scopo legittimo. Tuttavia, ha deciso di valutare se l’interferenza fosse necessaria in una società democratica. 

La Corte ha ritenuto che la posizione e le dichiarazioni della ricorrente, che si inserivano chiaramente nel contesto di un dibattito su questioni di grande interesse pubblico, richiedessero un alto grado di protezione della sua libertà di espressione e un esame rigoroso di qualsiasi interferenza da parte dello Stato convenuto. Lo Stato, a sua volta, aveva solo un limitato margine di discrezionalità («uno stretto margine di apprezzamento») per quanto riguarda tali interferenze. La Corte ha rilevato che l’allontanamento della ricorrente e le ragioni che lo giustificavano difficilmente potevano essere conciliate con la particolare considerazione da dare alla natura della funzione giudiziaria come ramo indipendente del potere statale e al principio dell’indipendenza dei pubblici ministeri, che – secondo il Consiglio d’Europa e altri strumenti internazionali – era un elemento chiave per il mantenimento dell’indipendenza giudiziaria. Sembrava quindi che la sua rimozione prematura avesse vanificato lo scopo stesso di mantenere l’indipendenza della magistratura. La severità della misura deve aver avuto anche un “effetto dissuasivo”, scoraggiando non solo lei, ma anche altri procuratori e giudici dal partecipare al dibattito pubblico sulle riforme legislative che riguardano la magistratura e, più in generale, sulle questioni relative all’indipendenza della magistratura. 

Nel caso Panioglu c. Romania (33794/14), dell’8 dicembre 2020, la Corte Edu ha invece ritenuto, all’unanimità, che non vi fosse stata alcuna violazione dell’articolo 10. Il caso riguardava le sanzioni professionali subite da un giudice, in particolare per quanto riguarda la promozione, per un articolo che aveva scritto sulla stampa. L’articolo aveva criticato aspramente le attività del presidente della Corte di cassazione come procuratore sotto il regime comunista repressivo. La Corte ha rilevato che le autorità nazionali avevano correttamente bilanciato i diritti della ricorrente alla libertà di parola con i diritti del giudice e la protezione della magistratura. In particolare, la Corte ha notato che lo scopo dell’articolo del ricorrente era stato quello di sollevare questioni sull’opportunità che una persona, che aveva agito come pubblico ministero nel regime comunista, fosse incaricata di guidare e riformare il sistema giudiziario. Il richiedente si era anche concentrato sulla vita professionale del presidente. La Corte ha affermato che i funzionari del tribunale, nel loro ruolo, possono essere soggetti a maggiori critiche rispetto a un comune cittadino. Tuttavia, ha ribadito che i funzionari del tribunale sono tenuti a mostrare la massima discrezione per mantenere la fiducia del pubblico nella magistratura. Alla luce di ciò, la Corte non ha messo in discussione la valutazione delle autorità nazionali, secondo cui l’articolo era stato lesivo della reputazione del sistema giudiziario e aveva danneggiato la magistratura, ed era stato presentato senza prove. La Corte ha ritenuto che le autorità nazionali avessero bilanciato i diritti concorrenti del giudice ricorrente e del presidente accusato.

Infine, la Corte ha ritenuto che le sanzioni imposte non fossero state eccessivamente severe, date le circostanze. 

Nella causa Guz c. Polonia (n. 965/12), del 15 ottobre 2020, ricorrente è un giudice di nazionalità polacca giudicato colpevole in un procedimento disciplinare di aver minato la dignità dell’ufficio di giudice, a seguito delle critiche mosse a un rapporto sul suo operato da parte di un altro giudice più anziano. All’inizio del 2009, il ricorrente, giudice di tribunale distrettuale, ha presentato domanda per il posto di giudice presso il Tribunale regionale di Gliwice. Nell’ambito della procedura di promozione, un ispettore giudiziario ha redatto una relazione sull’operato del ricorrente, in cui si affermava, tra l’altro, che egli aveva un rapporto difficile con i suoi superiori in quanto non rispettava le loro istruzioni. Scrivendo al presidente del Tribunale regionale di Gliwice, il ricorrente ha risposto alla valutazione del suo lavoro, sostenendo che fosse «superficiale, ingiusta e tendenziosa». Ha mantenuto queste osservazioni durante una riunione dell’assemblea generale dei giudici del Tribunale regionale, che ha votato contro la promozione del ricorrente. Ha criticato nuovamente la relazione in occasione del ricorso contro la successiva decisione del Consiglio nazionale della magistratura di non trasmettere la sua candidatura al Presidente della Repubblica. La Corte Suprema ha respinto il ricorso nel novembre 2009. Il ricorrente è stato quindi sottoposto a un procedimento disciplinare e, nel marzo 2011, è stato giudicato colpevole di aver leso la dignità dell’ufficio di giudice e ammonito. Il suo appello contro questa decisione e il successivo ricorso costituzionale sono stati tutti infruttuosi. I tribunali hanno sostanzialmente ritenuto che le critiche del ricorrente avessero violato gli standard di decenza giudiziaria, minando non solo la reputazione del giudice ispettore, ma anche l’amministrazione della giustizia nel suo complesso. Facendo leva sull’articolo 10 (libertà di espressione), il ricorrente ha lamentato che la sua condanna per un’infrazione disciplinare aveva violato il suo diritto di esprimere la propria opinione su una relazione sul suo lavoro che aveva considerato inesatta. In particolare, il ricorrente ha sostenuto che i suoi commenti non erano stati offensivi, erano stati sollevati solo internamente e che era nell’interesse pubblico difendere le norme sulla promozione dei giudici. La Corte ha riscontrato una violazione dell’articolo 10 e ha concesso un ristoro pecuniario di 6.000 euro (a titolo di danno non patrimoniale).

Nella causa Brisc c. Romania (n. 26238/10), dell’11 marzo 2019, il caso riguardava la violazione dei diritti del procuratore capo, licenziato per aver rilasciato dichiarazioni alla stampa su un’indagine penale in corso sulla corruzione di magistrati da parte di detenuti; egli era stato quindi rimosso dalla sua posizione di procuratore capo. La Corte ha riscontrato una violazione dell’art. 10; ha osservato, in particolare, che l’interferenza con i suoi diritti aveva inoltre perseguito lo scopo legittimo di proteggere la reputazione altrui e di mantenere l’autorità e l’imparzialità della magistratura; tuttavia, l’unico scopo del comunicato stampa e dell’intervista del ricorrente era stato quello di informare la stampa su un’indagine penale in corso di evidente interesse per il pubblico, e non affatto di accusare i magistrati di un reato. 

Il caso Eminağaoğlu c. Turchia (n. 76521/12), del 9 marzo 2021, riguardava l’imposizione a un funzionario giudiziario di una sanzione disciplinare (trasferimento), decisa dal Consiglio dei giudici e dei pubblici ministeri, a causa delle dichiarazioni e delle critiche che aveva rivolto ai media su alcuni casi giudiziari di alto profilo. All’epoca dei fatti, il ricorrente era membro dell’ufficio del pubblico ministero presso la Corte di cassazione e anche presidente dello Yarsav, un’associazione di giudici e procuratori. Questo status specifico gli conferiva un ruolo centrale all’interno delle professioni giudiziarie nell’amministrazione della giustizia.

A questo proposito, la Corte aveva già ammesso che quando una ong richiama l’attenzione su questioni di interesse pubblico, esercita un ruolo di controllo pubblico di importanza simile a quello della stampa, e può quindi essere considerata un “cane da guardia” sociale che merita una protezione analoga a quella garantita dalla Convenzione alla stampa. Di conseguenza, Eminağaoğlu aveva non solo il diritto ma anche il dovere, in quanto presidente di questa associazione legalmente costituita, che continuava a svolgere liberamente le sue attività, di esprimere un’opinione su questioni riguardanti il funzionamento del sistema giudiziario. Anche se tali questioni avevano implicazioni politiche, ciò non era di per sé sufficiente a impedire a un giudice di fare una dichiarazione in merito. 

Tali dichiarazioni facevano chiaramente parte di un dibattito su questioni di interesse generale e richiedevano un alto livello di protezione della libertà di espressione del richiedente. 

La Corte non ha trovato nella decisione impugnata motivi sufficienti per giustificare la conclusione che, con le sue dichiarazioni, il ricorrente avesse minato la dignità e l’onore delle professioni giudiziarie. 

Vi è stata, quindi, una violazione dell’articolo 10 della Convenzione. 

Il 19 ottobre 2021 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha emesso una sentenza nel caso Miroslava Todorova c. Bulgaria (n. 40072/13), ritenendo che vi sia stata una violazione dell’art. 10 della Convenzione. Il caso riguardava due serie di procedimenti disciplinari contro la ricorrente, che all’epoca era una giudice e presidente dell’Unione bulgara dei giudici (BUJ), la principale associazione professionale di categoria nel Paese. In qualità di presidente della BUJ, la ricorrente aveva fatto diverse dichiarazioni pubbliche denunciando i commenti fatti alla stampa dall’allora Ministro dell’interno. Un ispettore generale è stato inviato nel suo ufficio. È stato rilevato che la Sig.ra Todorova ha ritardato la consegna delle decisioni giudiziarie o la motivazione in 57 casi. Il Consiglio giudiziario supremo (Csm) ha ordinato una riduzione dello stipendio, seguita dal suo licenziamento per i ritardi nella trattazione dei casi (pubblicati oltre tre mesi dopo la loro consegna). Dopo alterni ricorsi giudiziari, la sanzione è stata sostituita da una retrocessione per due anni. 

Basandosi sull’articolo 10, la Sig.ra Todorova ha presentato un ricorso alla Corte Edu, sostenendo che i procedimenti disciplinari nei suoi confronti erano stati una sanzione mascherata per le sue opinioni espresse pubblicamente, che criticavano il lavoro del Csm e il ripetuto intervento dell’esecutivo nei casi pendenti; basandosi sull’articolo 18 (limitazione dell’uso delle restrizioni ai diritti), ha affermato che i procedimenti disciplinari avevano perseguito un secondo fine. 

Tenendo presente l’importanza fondamentale della libertà di espressione su questioni di interesse pubblico come il funzionamento del sistema giudiziario e la necessità di tutelare l’indipendenza della magistratura, la Corte ha ritenuto che il procedimento disciplinare nei confronti della ricorrente e le sanzioni che le sono state inflitte abbiano costituito un’ingerenza nell’esercizio del suo diritto alla libertà di espressione che non era «necessaria in una società democratica» per perseguire gli obiettivi legittimi di cui all’art. 10 CEDU. Considerati tutti i fatti del caso, la Corte ha concluso che l’obiettivo principale dei procedimenti disciplinari contro la ricorrente e delle sanzioni inflittele dal Csm non era stato quello di garantire il rispetto dei termini per la conclusione dei casi, ma di penalizzarla e intimidirla a causa delle sue critiche al Csm e all’esecutivo.

La Corte ha ritenuto che la destituzione ordinata dal Csm e l’immediata esecuzione di tale sanzione abbiano avuto un effetto inibitorio sulla ricorrente e anche su altri giudici, dissuadendoli dall’esprimere opinioni critiche sull’operato del Csm o, più in generale, su questioni relative all’indipendenza della magistratura. 

La Corte ha ritenuto che le autorità nazionali non avessero accompagnato le loro decisioni con motivazioni pertinenti e sufficienti a spiegare perché i procedimenti disciplinari e le sanzioni imposte alla ricorrente fossero necessari e proporzionati agli obiettivi legittimi perseguiti nel caso in questione, in altri termini «necessari in una società democratica.

Nel caso in esame, la Corte ha riscontrato una violazione dell’articolo 10 della Convenzione. 

Per quanto riguarda il reclamo presentato dalla ricorrente ai sensi dell’articolo 18 CEDU, la Corte ha innanzitutto osservato di ritenere che esso riguardasse un aspetto fondamentale del caso in esame. L’art. 18 della Convenzione («Limitazione dell’uso delle restrizioni ai diritti») stabilisce che «le restrizioni consentite dalla Convenzione ai suddetti diritti e libertà non possono essere applicate per scopi diversi da quelli per cui sono state prescritte». La Corte aveva già notato che le misure disciplinari imposte alla ricorrente erano direttamente collegate alle sue dichiarazioni pubbliche. La Corte ha, inoltre, osservato che vi erano state controversie tra l’associazione dei giudici della ricorrente e l’esecutivo. In particolare, il Ministro dell’interno aveva rilasciato alla stampa dichiarazioni che prendevano personalmente di mira la ricorrente e criticavano il suo lavoro di giudice. La Corte ha ritenuto tali fatti sufficienti per concludere che il procedimento disciplinare e le sanzioni inflitte dal Csm alla ricorrente avevano perseguito anche un obiettivo non contemplato dalla Convenzione: punirla per le sue dichiarazioni in qualità di presidente della citata associazione professionale. La Corte ha osservato che il Csm è stato particolarmente duro con la ricorrente, in particolare ordinando inizialmente il suo licenziamento. L’eccezionale severità e la natura sproporzionata di tale sanzione erano state notate da ampi settori della comunità legale e giudiziaria in Bulgaria, dallo stesso Ministro della giustizia, dai media, dalle ong e anche dalle organizzazioni internazionali. 

La Corte ha sottolineato che la ricorrente, nello svolgere le sue attività all’interno della BUJ, aveva esercitato il suo diritto di associazione e la sua libertà di espressione, e che nulla faceva pensare che tali attività fossero illegali o incompatibili con il codice etico giudiziario. Alla luce di queste considerazioni, era allarmante notare un’apparente intenzione di utilizzare la procedura disciplinare per ritorcere contro la ricorrente le sue opinioni. In conclusione, considerati tutti i fatti del caso, la Corte ha ritenuto che, a prescindere dal fatto che il licenziamento della ricorrente fosse stato infine annullato dal Tribunale amministrativo supremo, l’obiettivo principale del procedimento disciplinare contro la ricorrente e delle sanzioni inflittele dal Csm era stato non quello di garantire il rispetto dei termini per la conclusione dei casi, ma di penalizzarla e intimidirla a causa delle sue critiche al Csm e all’esecutivo. Vi è stata, pertanto, una violazione dell’art. 18 della Convenzione in combinato disposto con l’art. 10. 

 

10. Sito web e blog, collegamento ipertestuale, like

Nella parte finale della relazione, vorrei richiamare tre casi che non riguardano direttamente la libertà di espressione dei magistrati, ma in generale l’articolo 10 nella società di Internet, e ciò perché affermano principi rilevanti anche per la libertà di espressione dei giudici (ad esempio, per un giudice che gestisce un sito web o un blog, o per i giudici che pubblicano un link ad altri siti web o, infine, per i giudici che mettono un “like”).

Il primo caso, Delfi c. Estonia, riguarda la responsabilità di un operatore Internet

Delfi era una società proprietaria di un portale di notizie su Internet che pubblicava notizie, articoli e, alla fine, commenti aggiunti da terzi (anche anonimi). I commenti venivano caricati automaticamente e non venivano modificati o censurati dalla società ricorrente, ma esisteva un sistema di notifica e rimozione, e qualsiasi lettore poteva contrassegnare un commento come “flame” e il commento sarebbe stato rimosso rapidamente.

La società, la cui responsabilità era stata affermata dai procedimenti nazionali, ha presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando una violazione della sua libertà di espressione, tutelata dall’art. 10 della Convenzione. La Camera della prima sezione della Corte europea ha emesso una sentenza sul caso il 20 ottobre 2003: la Corte ha ritenuto che non vi fosse stata alcuna violazione dell’art. 10 CEDU. 

La Camera ha, inoltre, ritenuto che la restrizione della libertà di espressione della società ricorrente perseguisse l’obiettivo legittimo di proteggere la reputazione e i diritti altrui. 

Per quanto riguarda la proporzionalità dell’ingerenza, la Corte ha ritenuto che la società ricorrente, pubblicando l’articolo in questione, poteva rendersi conto che avrebbe potuto provocare reazioni negative, e che vi era un rischio superiore alla media che i commenti negativi potessero oltrepassare i confini della critica accettabile e raggiungere il livello dell’insulto gratuito o del discorso di odio. Pertanto, la Corte ha concluso che la società ricorrente avrebbe dovuto esercitare una certa cautela nelle circostanze del caso per evitare di essere ritenuta responsabile di una violazione della reputazione di altre persone. 

Per quanto riguarda il sistema di notifica e rimozione utilizzato dalla società, sebbene non sia stato contestato il fatto che i commenti diffamatori fossero stati rimossi dalla società ricorrente senza indugio dopo il ricevimento della notifica, a quel punto i commenti erano già accessibili al pubblico da un lungo periodo (sei settimane), cosicché il precedente sistema di filtraggio automatico e di notifica e rimozione utilizzato dalla società ricorrente non aveva garantito una protezione sufficiente dei diritti dei terzi. 

Il tribunale ha infine respinto l’argomentazione della società ricorrente, secondo cui la persona interessata avrebbe potuto intentare una causa contro gli autori dei commenti, ritenendo che, ai fini di una causa civile, sia molto difficile per un individuo stabilire l’identità delle persone da citare in giudizio. 

Per tutti questi motivi, la restrizione alla sua libertà di espressione è stata ritenuta dalla Camera semplice della Corte giustificata e proporzionata. 

Il caso è stato quindi rimesso alla Grande Camera, che ha emesso la sua sentenza sul caso il 16 giugno 2015, sostanzialmente confermando la sentenza della Camera. 

La Corte ha ricordato che un fornitore di servizi può anche consentire un ampio grado di anonimato per i suoi utenti, nel qual caso gli utenti non sono tenuti a identificarsi affatto e possono essere rintracciabili – in misura limitata – solo attraverso le informazioni conservate dai fornitori di accesso a Internet, cosicché la divulgazione di tali informazioni richiederebbe di solito un’ingiunzione da parte delle autorità investigative o giudiziarie e sarebbe soggetta a condizioni restrittive. 

La Corte ha ritenuto, però, che l’incerta efficacia delle misure che consentono di stabilire l’identità degli autori dei commenti, insieme alla mancanza di strumenti messi in atto dalla società ricorrente per lo stesso scopo, al fine di rendere possibile a una vittima di discorsi d’odio di intentare effettivamente un’azione legale contro gli autori dei commenti, fossero fattori che sostenevano la conclusione che il tribunale nazionale aveva basato la sua sentenza su motivi pertinenti e sufficienti. 

La soluzione data dalla Grande Camera non è stata unanime. Due giudici hanno espresso il loro dissenso, sottolineando che l’ammissione di responsabilità degli intermediari avrebbe portato a un’ulteriore autocensura da parte degli operatori, proprio per paura di questa potenziale responsabilità. 

In punto di diritto, i giudici dissenzienti hanno criticato la soluzione adottata dalla Corte, ritenendo non prevedibile l’applicazione del sistema di responsabilità del codice civile estone, e la responsabilità prevista per gli editori, invece di quella prevista dall’Information Society Services Act, basata sulla responsabilità degli intermediari solo se a conoscenza dei dati illecitamente ospitati (sistema cd. del “notice and take down”). 

Sul tema in questione, si vedano anche:

- Magyar TartalomszolgáltatókEgyesülete e Index.hu Zrt c. Ungheria, del 2 febbraio 2016. Il caso riguardava la responsabilità di un organismo di autoregolamentazione dei fornitori di contenuti Internet e di un portale di notizie su Internet per i commenti online volgari e offensivi pubblicati sui loro siti web a seguito della pubblicazione di un parere che criticava le pratiche commerciali ingannevoli di due siti web immobiliari. I ricorrenti si sono lamentati delle sentenze dei tribunali ungheresi nei loro confronti, che li avevano di fatto obbligati a moderare il contenuto dei commenti dei lettori sui loro siti web, sostenendo che ciò era contrario all’essenza della libera espressione su Internet. La Corte ha ritenuto che vi fosse stata una violazione dell’articolo 10 (libertà di espressione) della Convenzione. Ha ribadito in particolare che, pur non essendo editori di commenti in senso tradizionale, i portali di notizie su Internet devono, in linea di principio, assumersi doveri e responsabilità. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che i tribunali ungheresi, nel decidere sulla nozione di responsabilità nel caso dei ricorrenti, non avessero effettuato un’adeguata ponderazione tra i diritti concorrenti in gioco, vale a dire tra il diritto dei ricorrenti alla libertà di espressione e il diritto del sito web immobiliare al rispetto della sua reputazione commerciale. In particolare, le autorità ungheresi hanno accettato a priori che i commenti fossero illegali in quanto lesivi della reputazione dei siti web immobiliari;

- Pihl c. Svezia, del 7 febbraio 2017. Decisione sull’ammissibilità: il ricorrente era stato oggetto di un commento diffamatorio online, pubblicato in forma anonima su un blog. Ha presentato una richiesta di risarcimento civile contro la piccola associazione senza scopo di lucro che gestiva il blog, sostenendo che doveva essere ritenuta responsabile per il commento di terzi. La richiesta è stata respinta dai tribunali svedesi e dal Cancelliere della giustizia. Il ricorrente ha denunciato alla Corte che, non ritenendo l’associazione responsabile, le autorità non avevano protetto la sua reputazione e avevano violato il suo diritto al rispetto della vita privata. La Corte ha dichiarato il ricorso irricevibile in quanto manifestamente infondato. Ha osservato in particolare che, in casi come questo, è necessario trovare un equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla libertà di espressione.

Un’altra questione esaminata dalla Corte Edu riguarda la responsabilità derivante dalla pubblicazione di un collegamento ipertestuale (o hyperlink).

Nella causa Magyar Jeti Zrt c. Ungheria, la società ricorrente era stata ritenuta responsabile per aver inserito un link a un’intervista su YouTube, successivamente ritenuta di contenuto diffamatorio. I collegamenti ipertestuali, in quanto tecnica di comunicazione, sono essenzialmente diversi dagli atti di pubblicazione tradizionali perché, di norma, si limitano a indirizzare gli utenti verso contenuti disponibili altrove su Internet. Non presentano al pubblico le dichiarazioni collegate né comunicano il loro contenuto, ma servono solo a richiamare l’attenzione dei lettori sull’esistenza di materiale su un altro sito web. L’ulteriore caratteristica che contraddistingue i collegamenti ipertestuali, rispetto agli atti di diffusione di informazioni, è che la persona che rimanda alle informazioni attraverso un collegamento ipertestuale non esercita alcun controllo sul contenuto del sito web a cui un collegamento ipertestuale consente di accedere, e che potrebbe essere modificato dopo la creazione del collegamento. 

La Corte ha affermato che l’equiparazione della pubblicazione di un collegamento ipertestuale alla diffusione di dichiarazioni diffamatorie richiede che i tribunali nazionali effettuino una valutazione individuale in ciascun caso e che ritengano responsabile il creatore del collegamento ipertestuale solo in presenza di motivi pertinenti e sufficienti. A questo proposito, ha elencato, nel caso in esame, diverse questioni rilevanti che i tribunali nazionali non avevano esaminato quando hanno condannato la società ricorrente: (i) se la società ricorrente avesse avallato il contenuto contestato; (ii) se avesse ripetuto il contenuto contestato (senza avallarlo); (iii) se avesse semplicemente inserito un collegamento ipertestuale al contenuto contestato (senza avallarlo o ripeterlo); (iv) se sapesse o potesse ragionevolmente sapere che il contenuto contestato era diffamatorio o comunque illegale; (v) se avesse agito in buona fede, se avesse rispettato l’etica del giornalismo e se avesse usato la dovuta diligenza che ci si aspetta da un giornalismo responsabile. 

Nelle circostanze del caso in oggetto, la Corte ha osservato che, nel diritto nazionale, il collegamento ipertestuale equivaleva alla diffusione di informazioni e comportava una responsabilità oggettiva per la persona che lo inseriva, il che poteva avere conseguenze negative sul flusso di informazioni su Internet, spingendo gli autori di articoli e gli editori ad astenersi completamente dal collegamento ipertestuale a materiale sul cui contenuto modificabile non avevano alcun controllo. Ciò potrebbe quindi avere, direttamente o indirettamente, un effetto frenante sulla libertà di espressione in Internet.

In un altro caso, Melike c. Turchia (n. 35786/19), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto, all’unanimità, che vi fosse stata una violazione dell’articolo 10. Il caso riguardava il licenziamento della Sig.ra Melike, dipendente a contratto del Ministero dell’educazione nazionale, per aver cliccato “mi piace” su vari articoli di Facebook (pubblicati sul sito di social network da una terza parte). La Corte ha osservato che i contenuti in questione consistevano in critiche politiche virulente alle presunte pratiche repressive delle autorità, inviti e incoraggiamenti a manifestare per protestare contro tali pratiche, espressioni di indignazione per l’omicidio del presidente di un ordine degli avvocati, denunce di presunti abusi sugli alunni in istituti controllati dalle autorità e una reazione piccata a una dichiarazione, percepita come sessista, fatta da una nota figura religiosa. La Corte ha ritenuto che si trattasse essenzialmente e indiscutibilmente di questioni di interesse generale. Ha ribadito che, ai sensi dell’articolo 10, § 2 della Convenzione, le restrizioni alla libertà di espressione sono limitate a due ambiti: il discorso politico e le questioni di interesse pubblico. 

Ha osservato che l’atto di aggiungere un “like” a un contenuto non può essere considerato dello stesso peso della condivisione di contenuti sui social network, in quanto un “like” esprime semplicemente simpatia per il contenuto pubblicato, e non un desiderio attivo di diffonderlo. 

In ogni caso, le autorità nazionali non avevano specificato nelle loro decisioni se, durante il periodo intercorso tra la pubblicazione del contenuto contestato e l’avvio del procedimento disciplinare, che era stato di circa sei/nove mesi a seconda dei post in questione, i “mi piace” espressi dalla ricorrente in relazione al contenuto contestato fossero stati notati o lamentati da alunni, genitori, insegnanti o altri dipendenti del suo posto di lavoro, e se tali “mi piace” avessero dato luogo a incidenti di natura tale da mettere a repentaglio l’ordine e la pace sul posto di lavoro. Ha, inoltre, osservato che la commissione disciplinare e i giudici nazionali non avevano preso in considerazione tutti i fatti e i fattori pertinenti per giungere alla conclusione che le azioni della ricorrente erano tali da turbare la pace e la tranquillità del suo posto di lavoro. Di conseguenza, le ragioni addotte nel caso di specie per giustificare il licenziamento della ricorrente non potevano essere considerate pertinenti e sufficienti. La Corte ha inoltre ritenuto che la sanzione inflitta alla Sig.ra Melike (risoluzione immediata del suo contratto di lavoro senza diritto a un’indennità) fosse estremamente severa, soprattutto in considerazione dell’anzianità di servizio della ricorrente e della sua età. 

Il caso è importante anche per i giudici che postano dei “like” in rete. Tuttavia, vale anche la pena di notare che, nel caso, era rilevante il dovere di lealtà e di riserbo richiesto ai membri della funzione pubblica, ma non anche il dovere di imparzialità, che è invece richiesto ai giudici in via aggiuntiva rispetto al primo coesistente dovere.

 

11. Alcune conclusioni

Nella giurisprudenza della Corte Edu sono stati affermati molti principi a tutela della libertà di espressione dei giudici. Essi si collocano sulla stessa lunghezza d’onda dello standard generale di protezione assicurato dalle fonti di diritto internazionale.

L’articolo 10 della CEDU stabilisce senza dubbio che i giudici hanno il diritto di esprimersi e di sviluppare la propria vita personale e le proprie comunicazioni, utilizzando i social media per pubblicare commenti, foto e altri dati relativi alla propria vita personale e familiare, anche rivelando preferenze personali sensibili (come le opinioni religiose e le preferenze sessuali). 

Tuttavia, i giudici devono essere consapevoli dell’esposizione e della visibilità più rilevanti che le tecnologie informatiche e telematiche comportano per la loro vita, e la libertà di espressione dei giudici è limitata da speciali doveri etici, volti a garantire la fiducia del pubblico nell’imparzialità, neutralità e ragionevolezza della giustizia, ciò che può avere un impatto sulla vita privata. I giudici devono sempre preservare la dignità ed esercitare grande cautela nel divulgare informazioni personali su questioni controverse.

In applicazione dei principi di democrazia e pluralismo, i giudici o i gruppi di giudici possono, in qualità di esperti legali, esprimere riserve o critiche sulle proposte legislative del governo, senza che ciò pregiudichi l’equità dei procedimenti giudiziari a cui tali proposte potrebbero applicarsi. Una tale posizione, solo se espressa in modo appropriato, non getta infatti discredito sull’autorità della magistratura né ne compromette l’imparzialità[1].

 

 

*  Relazione all’incontro «Justice et liberté d’expression – La liberté d’expression des magistrats et ses évolutions récentes sur les réseaux sociaux», organizzato dall’École nationale de la magistrature (Enm) e dal Conseil supérieur de la magistrature (Csm), con il sostegno dell’Unione europea, 12 e 13 maggio 2022, Issy-les-Moulineaux, Francia (testo originale in francese e inglese).

1. Seguono riferimenti per una bibliografia essenziale sul tema, nei limiti del presente contributo.

A. Schoeller-Schletter (a cura di), Impartiality of judges and social media, Approaches, Regulations and Results, Fondazione Konrad Adenauer, atti del Seminario tenuto a Cadenabbia (Co), 10-13 marzo 2019, 2020 (www.kas.de/documents/265308/265357/Impartiality+of+Judges+and+Social+Media.pdf/eb313aed-88ca-c677-4231-d84c02ee914c?version=1.0&t=1591861554477); A. Seibert-Fohr, The Independence of Judges and their Freedom of Expression: An Ambivalent Relationship, research paper, 7 maggio 2019 (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3375038); J.G. Browning, Ethical Risks in Judicial Use of Social Media, American Bar Association, 11 febbraio 2022 (www.americanbar.org/groups/gpsolo/publications/gp_solo/2022/january-february/ethical-risks-judicial-use-social-media/), estratto da The Judges’ Journal, n. 4/2021, p. 28; Id., Why Can’t We Be Friends? Judges’ Use of Social Media, in University of Miami Law Review, vol. 68, n. 2/2014, pp. 487-533; F. Buffa, Freedom of expression in the Internet society, Key, Milano, 2016; A. Casadevall - I. Roa - M. Rubio, The use of social media by judges and how their impartiality may be affected, research paper, European Judicial Training Network, 2019 (https://portal.ejtn.eu/PageFiles/17916/TEAM%20SPAIN%20TH%202019%20D.PDF); CEELI Institute (Praga), Practical guidelines on use of social media by judges: central and eastern European context, report, novembre 2019 (https://ceeliinstitute.org/assets/resources/ceeli_some_guidelines_eng_upd2021.pdf); Centre for Law and Democracy, Training Manual for Judges on International Standards on Freedom of Opinion and Expression, dicembre 2021 (www.law-democracy.org/live/wp-content/uploads/2022/02/English-Judges-Toolkit.online.pdf); B. Clarke, The Global Judicial Integrity Network: Judges’ Use of Social Media, UNODC, Global Judicial Integrity Network podcast series, 2018, www.youtube.com/watch?v=tSH1wYKpi_g; M. Codeanne, Judges’ Presence on Social Media: Dangers of Posting, Liking, and Sharing, in Jorunal of High Technology Law (Suffolk University Law School), 10 ottobre 2022, (https://sites.suffolk.edu/jhtl/2022/10/10/judges-presence-on-social-media-dangers-of-posting-liking-and-sharing/); Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE), parere n. 24/2022, Freedom of expression of judges and the judicial duty of independence (La liberté d’expression des juges et le devoir d’indépendance des juges) – risposte al questionario per la preparazione del parere n. 25/2022; D.J. Crothers, Social media do’s and don’ts, in National judicial College, 21 febbraio 2018, (www.judges.org/news-and-info/social-media-dos-donts/); M. Crowell, Judicial ethics and social media, UNC School of Government, in Administration of Justice Bulletin, School of Government - University of North Carolina, n. 9/2015, pp. 1-17 (www.sog.unc.edu/sites/default/files/reports/aojb1509.pdf); D. Blitsa - I. Papathanasiou - M. 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