Il dilemma del giudice che non deve produrre diritto, ma che non può non produrlo: il costituzionalismo e le ragioni di Creonte
L’avvento dello Stato costituzionale di diritto ha comportato una trasformazione nel conflitto tra politica e magistratura? Che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» significa senz’altro che devono essere e apparire imparziali, ossia che non devono avere pre-giudizi. Tuttavia, il confine tra un pre-giudizio e un’idea politico-morale che (può) trova(re) qualche appiglio testuale in documenti costituzionali (nazionali, sovranazionali e internazionali) è, date le caratteristiche di questi ultimi e dei diritti in essi coinvolti, assai labile. E infatti qui sta il punto: anche il diritto costituzionale deve essere interpretato. Se non si prende sul serio questa ovvia constatazione non si può uscire dal campo di battaglia, perché da qui discendono tutte le altre questioni, più o meno sensazionali e clamorose, che riempiono le cronache quotidiane.
1. «I giuristi fanno i conti da due secoli con un dilemma: un problema abbastanza complicato e importante da poter essere chiamato (…) contraddizione fondamentale. In due parole, si tratta di questo: da un lato, molti giuristi condividono (qualche versione de) la dottrina della separazione dei poteri, e in particolare la tesi che al giudice spetti solo applicare il diritto creato dal legislatore; dall’altro, gli stessi giuristi, o almeno gran parte di essi, condividono anche (qualche versione de) la teoria giusrealista dell’interpretazione, e specialmente la tesi che anche il giudice più fedele alla legge non possa, in qualche senso, non creare diritto. La contraddizione fondamentale che alberga nel cuore della cultura giuridica contemporanea consiste appunto in questo: il giudice non deve creare diritto, eppure non può non crearlo»[1].
La questione del conflitto tra politica e magistratura si manifesta ciclicamente nel nostro Paese con sintomi diversi, a livelli diversi e con toni diversi. Di recente il conflitto si è riacceso in occasione della volontà, da parte della maggioranza in carica, di realizzare riforme preannunciate da tempo e accompagnate spesso da toni di revanscismo politico. Abuso d’ufficio, immigrazione, intercettazioni, custodia cautelare, separazione delle carriere, prescrizione, esternazioni… sono solo alcuni dei più recenti campi di battaglia.
Le parole pronunciate il 25 gennaio scorso dal Vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Fabio Pinelli, in occasione della cerimonia per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario[2] – dirette alla ricerca della «fonte di legittimazione della funzione giurisdizionale (…) in una moderna liberaldemocrazia del XXI secolo» attraverso «il superamento del principio della sottoposizione del giudice solo alla legge»[3] – rivelano ambiguità (dal punto di vista della politica) e ipocrisia (dal punto di vista del diritto). Rispetto a questo secondo profilo, sorprende che espressioni di questo genere – che non esiterei a definire sovversive – possano ora scandalizzare i giuristi, specie costituzionalisti, che hanno da decenni contribuito alle dilaganti tendenze autodistruttive del sistema[4] con atteggiamenti di vera e propria idolatria costituzionale, dove il riferimento alla Costituzione e al costituzionalismo, qualunque concetto possa veicolare oggi questa parola, si riduce spesso a un vago quanto logoro mantra che ci sta progressivamente allontanando da quel saggio timore che caratterizzava gli «antichi», i quali «preferirono celare la scienza della giustizia nelle favole, piuttosto che lasciarla esposta alle dispute»[5].
La giustizia, dunque. La positivizzazione di alcuni principi materiali di giustizia nei testi costituzionali non avrebbe dovuto necessariamente implicare – di per sé – ciò che invece è effettivamente accaduto, ossia «un mutamento del metodo della scienza giuridica», in Italia avviatosi tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, in non casuale coincidenza con la crisi del sistema politico. A partire da quel tornante storico «la razionalità politica che sino allora era stata assicurata dal confronto parlamentare tra partiti molto robusti e fortemente insediati va smarrendosi e si fa strada l’idea che si possa sostituirla con una razionalità costituzionale non intermediata dalla legge, ma direttamente attinta dall’interprete della Costituzione, specie importando i paradigmi della filosofia dei valori. Di qui, al di là delle soggettive intenzioni di chi ha aperto la strada, si dipartono le ancillari idee che le norme a fattispecie abbiano un’utilità limitata; che il loro testo si possa comunque torcere e distorcere a piacimento, quel tanto che è richiesto dal valore costituzionale di volta in volta da inverare; che la soluzione delle controversie giuridiche debba essere più “giusta” (corrispondente al valore) che “corretta” (corrispondente alla legge); che per perseguire questo obiettivo si debba seguire in forma estrema il canone dell’interpretazione conforme a Costituzione»[6]. Questi esiti non sarebbero stati tuttavia necessariamente obbligatori. Tutt’altro: «lo Stato costituzionale di diritto, pur non costituendone la “semplice” e “naturale” evoluzione, nasce pur sempre dallo Stato di diritto e ne eredita la maggior parte degli istituti e delle istituzioni. Più in particolare, la legalità costituzionale non si sostituisce, ma si sovrappone, alla legalità legale, con la quale deve dunque convivere»[7]. L’esausto ritornello che va ripetendo la denuncia della marginalizzazione dei Parlamenti rivela oggi un atteggiamento schizofrenico, specie da parte dei costituzionalisti: la crisi della legge, della rappresentanza, del Parlamento e della politica – di cui tanto soffriamo da decenni – sono anche la conseguenza di un non adeguato sostegno, da parte della dottrina, al loro difficilissimo dover essere. Decenni di retoriche favorevoli a una via tutta impolitica nella “amministrazione” dei diritti – una sorta di neoistituzionalismo per via per lo più giudiziaria – hanno alimentato l’idea che esiste una società di individui dotati di diritti pre-scritti nella cultura, nella coscienza diffusa, il cui soddisfacimento attraverso questa via non ha conseguenze sulla tenuta dell’intero sistema.
Perché ora dovrebbero scandalizzare le parole del vicepresidente del Csm quando fonda la legittimazione del magistrato sul «rapporto di fiducia con i cittadini perché la legittimazione della funzione (…) non risiede nell’attribuzione formale di essa, bensì nella rispondenza della funzione alle aspettative collettive»[8]? Non è forse questo il compito assegnato alla giurisdizione, specie costituzionale (ma non solo), di farsi interprete della “coscienza sociale”, e dunque di svolgere un compito sostanzialmente rappresentativo, e dunque di esercitare la funzione di indirizzo politico[9]? E tutti i discorsi in merito alle esigenze del caso concreto dei (neo)costituzionalisti[10] non hanno offerto teorie al «magistrato consapevole del potere che esercita, capace di ascoltare, sensibile alle ricadute della vicenda giudiziaria sulla vita delle persone», che non deve essere «magistrato burocrate [di cui il] cittadino diffida perché ne avverte l’assenza di cura»[11]?
Il riferimento al processo di costituzionalizzazione di alcuni principi materiali di giustizia (ma anche di internazionalizzazione/globalizzazione – laddove spesso i due fenomeni si sovrappongono e si intrecciano attraverso approcci di global constitutionalism, di multilevel constitutionalism e di constitutional pluralism[12]) conduce alla provocatoria questione se il costituzionalismo abbia contribuito a questo cambiamento di paradigma o se ne sia stato anch’esso vittima. Insomma: il costituzionalismo serba necessariamente in sé una serpe?
L’indebolimento dell’efficacia del comando sovrano – che si è realizzato attraverso diverse modalità, e spesso attraverso pretesi argomenti tecnico/giuridici ricondotti poi alla Costituzione e al costituzionalismo – contiene un rischio micidiale: fino a che punto l’obbligazione politica è in grado di reggere in quanto tale? Nel campo dell’ingegneria strutturale si parla di tensione ammissibile quando ci si riferisce al punto massimo di sforzo a cui si può sottoporre un edificio prima che crolli[13]. Ecco, la tensione ammissibile dell’edificio costituzionale non può essere determinata sulla base di sofisticati calcoli di ingegneria strutturale, ma deve essere oggetto di saggezza politica, di quella φρόνησις aristotelica che deve guidare le scelte di coloro che hanno responsabilità pubbliche e intorno alla quale è indispensabile ricostruire fiducia nell’interesse del sistema complessivo. La storia, antica e moderna, dimostra che i periodi di autoritarismo hanno fatto sempre seguito ai periodi di incertezza, di disordine, di debolezza.
Cosa significa allora che lo Stato costituzionale di diritto non può sbarazzarsi con leggerezza degli istituti e delle istituzioni dello Stato di diritto, e che questi devono essere oggetto di massima cura da parte di tutti, nell’interesse del sistema complessivo? Significa «che l’intero ordinamento deve funzionare come macchina generatrice di certezza; che la realizzazione delle esigenze (soggettivamente valutate) di giustizia materiale connesse al singolo rapporto giuridico non può valere il sacrificio della legalità e della certezza; che tanto l’attuazione quanto l’applicazione dei princìpi costituzionali devono avvenire senza sacrificio di certezza o almeno assicurando degli interventi remediali adeguati quando questo non è possibile»[14].
Mai come oggi torna utile l’insegnamento hobbesiano, che non può in alcun modo considerarsi solo legato alla stagione dell’assolutismo: «Raccontano infatti che Issione, invitato a banchetto da Giove, si invaghì di Giunone e cercò di sedurla. Ma al posto della dea, gli si offrì una nuvola che aveva ricevuto il suo aspetto; e ne nacquero i centauri, di natura in parte umana ed in parte equina, una stirpe inquieta e pugnace. Mutati i nomi, è come se avessero detto che i privati, chiamati a consiglio sulle supreme questioni della repubblica, desiderarono sottomettere al loro giudizio la giustizia, sorella e sposa del potere supremo, ma, abbracciando una sua immagine, falsa e vuota, come se fosse una nuvola, hanno generato i dogmi biformi dei filosofi morali, in parte retti e belli, in parte stolti e brutali, causa di ogni lotta e di ogni strage. Poiché simili opinioni nascono ogni giorno, se qualcuno disperdesse quelle nubi, e mostrasse, in base a ragioni fermissime, che non vi sono dottrine autentiche del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, eccetto le leggi istituite in ciascuno Stato; e che nessuno deve ricercare se un’azione sarà giusta o ingiusta, buona o cattiva, eccetto chi ha ricevuto dallo Stato l’incarico di interpretare le sue leggi; costui non solo indicherebbe la via regia della pace, ma anche i sentieri oscuri e tenebrosi della sedizione. E non si può immaginare nulla di più utile»[15].
2. Che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» (art. 101, comma 2, Cost.) significa senz’altro che i giudici devono essere e apparire imparziali, ossia che non devono avere pre-giudizi, nel senso “maturo” di cui è stato detto[16]. Tuttavia, porre la questione in termini di giudici con o senza «pre-giudizi» non mi sembra sempre risolutivo: in fondo, il confine tra un pre-giudizio e un’idea politico-morale che (può) trova(re) qualche appiglio testuale in documenti costituzionali (nazionali e sovranazionali e internazionali) è assai labile, perché – date le caratteristiche di tali documenti – è assai labile il confine tra argomentazioni di carattere sostanzialmente politico-morale e argomentazioni propriamente giuridiche, specie quando sono coinvolti i diritti. E infatti qui sta il punto, ovviamente: il diritto, anche il diritto costituzionale, deve essere interpretato. Se non si prende sul serio questa ovvia constatazione non si può uscire dal campo di battaglia, perché da questo dato discendono tutte le altre questioni, più o meno sensazionali e clamorose, che riempiono le cronache quotidiane.
Dunque il tema è l’interpretazione. Tema affrontato ormai in modo così sofisticato da studiosi di filosofia analitica, di semiotica, di teorie del significato… che il povero giurista non è in grado di padroneggiare, né tanto meno è in grado di sostenere con estrema certezza se la sua specifica attività abbia caratteristiche peculiari date dall’oggetto che le è proprio[17]. E tuttavia il riconoscimento e la consapevolezza di un dato non controverso sarebbero già utili per fissare qualche punto fermo rispetto al conflitto che ci interroga. Il dato è che l’interpretazione del diritto (scritto) è una indefettibile attività intellettuale che consiste nel passaggio da un enunciato contenuto in un documento normativo al (rectius, a un) suo significato. Dal significante a (un suo) significato. A questo passaggio fa riferimento l’art. 12 delle «Disposizioni sulla legge in generale» quando si riferisce all’attività dell’«attribuire senso» alla legge. Non se ne può fare a meno: chiunque abbia a che fare con regole deve svolgere questa attività.
E questa attività intellettuale di attribuzione di senso a testi normativi è diversamente concepita dalle teorie (o dottrine) che l’hanno descritta (o prescritta), sulla base delle rispettive concezioni attraverso le quali ciascuna, a sua volta, affronta le presupposte controversie epistemologiche: l’interpretazione è attività di conoscenza o di decisione? Esiste una sola interpretazione vera o corretta, o ne esistono (solo) alcune, o ne esistono infinite? È evidente che le risposte a queste domande hanno ripercussioni formidabili sul ruolo dell’interprete all’interno di un ordinamento, e del giudice in particolare. La tesi della non biunivocità nella relazione tra disposizione e norma, tra significante e significato – per la quale da una disposizione si possono ricavare più significati “veri” tra loro alternativi attraverso il ricorso a diversi argomenti interpretativi – è considerata ormai un dato acquisito, sebbene esistano essenziali differenze a seconda che si riconosca che questa pluralità di significati alternativi sia contenuta in numero limitato – la cornice dei possibili significati tollerati dal testo dell’enunciato – o sia da considerarsi in numero illimitato[18].
In quest’ultimo caso, il diritto scritto non avrebbe alcuna efficacia vincolante e tutto il diritto si ridurrebbe a ciò che si dice nei tribunali. Tale esito è evidentemente inaccettabile, almeno negli ordinamenti a diritto scritto, appunto. La scrittura è lo strumento attraverso il quale storicamente i gruppi esclusi hanno preteso di fissare le conquiste ottenute, spesso a seguito di cruenti eventi rivoluzionari, come sintomo di diffidenza nei confronti delle caste aristocratiche tradizionalmente depositarie del sapere (tramandato, per lo più, per via orale). C’è dunque un drammatico equivoco oggi: è il rispetto della legge scritta – è Creonte, non Antigone! – a rappresentare le esigenze progressiste di emancipazione dei deboli. Le leggi scritte, «le leggi dell’eteroregolazione, nelle quali dovrebbe tradursi il principio di autorità, costituiscono in realtà lo strumento della progettazione e dell’emancipazione individuale e politico-sociale. Le leggi non scritte, le leggi dell’autoregolazione, nelle quali dovrebbe tradursi il principio di libertà, costituiscono in realtà lo strumento della conservazione e del predominio degli interessi consolidati: “se la legge scritta è democratica, la tradizione non scritta è aristocratica” (J. De Romilly)»[19].
Se la legge scritta è un vincolo per l’interprete, è evidente che più i segni linguistici “chiudono” le possibilità interpretative, minore sarà lo spazio dell’interprete. Se è vero infatti che ogni tentativo di limitare l’attività interpretativa come attività intellettuale attraverso divieti legislativi è destinato a tradursi in non auspicabili strumenti esterni di disciplinamento, è altresì vero che una “manutenzione del libro delle leggi” ridurrebbe le velleità azzeccagarbugliesche dell’interprete e si porrebbe al servizio del bene della certezza del diritto, intesa soprattutto come prevedibilità[20]. L’espressione «“manutenzione del libro delle leggi” (…) è capace di suscitare una veramente degna e salutare emozione politico-morale nei confronti di un’attività che potrebbe apparire specialistica e arida: il “libro delle leggi” evoca infatti la trascendenza della Legge, con la quale le leggi della città non possono non misurarsi. Questa espressione (…) combina il richiamo al diritto come a una scrittura da custodirsi come preziosa (perché costitutiva della polis) con il termine “manutenzione” (…): un termine che richiama non i libri sacri, ma la civiltà delle macchine nelle cui fabbriche la cura e l’aggiustamento degli impianti erano compito di un’aristocrazia operaia. L’espressione, nel suo insieme, fa dunque riferimento ad un’attività nobile per l’oggetto, ma insieme “umile”, nella misura in cui evoca più l’operosità del servitore che la sontuosità del sovrano»[21].
Che molta strada debba essere ancora percorsa sotto questo profilo prima di realizzare l’obiettivo di fare della produzione legislativa l’attività di trasformazione della politica in «articoli di legge, comprensibili ed esatti come assiomi di aritmetica elementare»[22], è esperienza quotidiana di tutti coloro che hanno a che fare con regole. La Corte costituzionale, ancora nella sentenza n. 110 del 2023, ha dichiarato incostituzionale per violazione dell’art. 3 Cost. una disposizione legislativa regionale ritenuta «radicalmente oscura», poiché impediva all’interprete d’identificare financo un nucleo centrale di ipotesi riconducibili, con ragionevole certezza, alla fattispecie normativa astratta. L’argomentazione della Corte è particolarmente illuminante:
«deve (…) ritenersi che disposizioni irrimediabilmente oscure, e pertanto foriere di intollerabile incertezza nella loro applicazione concreta, si pongano in contrasto con il canone di ragionevolezza della legge di cui all’art. 3 Cost. L’esigenza di rispetto di standard minimi di intelligibilità del significato delle proposizioni normative, e conseguentemente di ragionevole prevedibilità della loro applicazione, va certo assicurata con particolare rigore nella materia penale, dove è in gioco la libertà personale del consociato, nonché più in generale allorché la legge conferisca all’autorità pubblica il potere di limitare i suoi diritti fondamentali, come nella materia delle misure di prevenzione. Ma sarebbe errato ritenere che tale esigenza non sussista affatto rispetto alle norme che regolano la generalità dei rapporti tra la pubblica amministrazione e i cittadini, ovvero i rapporti reciproci tra questi ultimi. Anche in questi ambiti, ciascun consociato ha un’ovvia aspettativa a che la legge definisca ex ante, e in maniera ragionevolmente affidabile, i limiti entro i quali i suoi diritti e interessi legittimi potranno trovare tutela, sì da poter compiere su quelle basi le proprie libere scelte d’azione. Una norma radicalmente oscura, d’altra parte, vincola in maniera soltanto apparente il potere amministrativo e giudiziario, in violazione del principio di legalità e della stessa separazione dei poteri; e crea inevitabilmente le condizioni per un’applicazione diseguale della legge, in violazione di quel principio di parità di trattamento tra i consociati, che costituisce il cuore della garanzia consacrata nell’art. 3 Cost.».
E tuttavia, nonostante queste innegabili difficoltà, l’interprete deve esercitare la sua funzione nella consapevolezza che la sua prestazione di giustizia nei confronti del singolo caso ha ripercussioni sul sistema complessivo: questo è il punto. Sebbene infatti la teoria cognitiva (come teoria descrittiva dell’interpretazione) sia considerata ormai «un cane morto»[23], dal momento che sono venute meno le sue premesse epistemologiche, essa può continuare a considerarsi come dottrina morale, in forza della quale «l’interprete deve comportarsi “come se” un’interpretazione esatta, così definibile in quanto si dimostri inattaccabile da tutte le altre ipotizzabili, possa essere raggiunta; e dunque non deve arrestarsi, nell’ascrivere significati agli enunciati, finché non si sia convinto che non esiste interpretazione migliore di quella che ritiene di dover pronunciare»[24]. La stessa Corte, nella sentenza sopra citata, riconosce che «ogni enunciato normativo, beninteso, presenta margini più o meno ampi di incertezza circa il suo ambito di applicazione, senza che ciò comporti la sua illegittimità costituzionale». E tuttavia afferma che «compito essenziale della giurisprudenza è quello di dipanare gradualmente, attraverso gli strumenti dell’esegesi normativa, i dubbi interpretativi che ciascuna disposizione inevitabilmente solleva, nel costante confronto con la concretezza dei casi in cui essa è suscettibile di trovare applicazione; ciò che contribuisce a rendere più uniforme e prevedibile la legge per i consociati». Questa «lotta con l’angelo»[25] fonda la legittimazione stessa della funzione giurisdizionale perché è funzionale alla sopravvivenza di un sistema in cui vige la «pretesa di configurare la decisione giudiziaria sempre e solo come applicazione di una volontà altrui (della volontà del rappresentante), e non come manifestazione della volontà del “piccolo uomo”, che fisicamente la pronuncia. Qui sta il nodo. È la pretesa di de-soggettivizzare l’applicazione del diritto che non può essere aggirata»[26]. Questo significa, in ultima analisi, la disposizione costituzionale di cui all’art. 101, comma 1, della Costituzione: «La giustizia è amministrata in nome del popolo», il quale, a sua volta, esercita il suo potere sovrano attraverso la forma rappresentativa (art. 1, comma 2).
3. Certo, come anticipato, queste conclusioni si complicano quando gli enunciati da interpretare sono documenti costituzionali: questi hanno amplificato il dilemma dei giuristi, a causa degli enunciati indeterminati o altamente sottodeterminati che li caratterizzano, sia a livello statale, ma oggi, per la sempre maggiore rilevanza che hanno in sede giurisdizionale, anche a livello sovranazionale e internazionale. È dunque comprensibile (sebbene non condivisibile) che (a maggior ragione) nell’interpretazione costituzionale si siano diffuse dottrine (normative) che sono state ricondotte al giusliberismo, sebbene i suoi sostenitori tendano a rifiutare un tale accostamento[27].
Con l’avvento delle costituzioni novecentesche si sarebbe cioè verificata una trasformazione qualitativa: il passaggio dallo Stato di diritto allo Stato costituzionale avrebbe comportato la possibilità di agganciare sempre a qualche appiglio testuale (e, talvolta, neppure a questo) la pretesa di giustizia del caso concreto. Il costituzionalismo (o un certo modo d’intenderlo) avrebbe liberato ogni potenzialità espansiva del valore della giustizia nel suo conflitto con la legalità. La necessità di adeguare l’ordinamento a valori considerati suoi fondativi è alla base di un profondo processo di trasformazione[28], nel quale la iurisdictio ha assunto il ruolo di protagonista[29].
La caratteristica delle costituzioni pluralistiche e conflittuali postbelliche è quella di essere ricche di enunciati indeterminati. L’ammonimento di Kelsen, coerente con la sua dottrina del primato del Parlamento, non è stato dunque seguito[30]. Ne comprendiamo le ragioni: «La esperienza storica dimostra come, a volte, la possibilità della nascita e le garanzie di vitalità di molte costituzioni sono affidate precisamente alla decisione di lasciare in sospeso la disciplina di punti intorno ai quali non riesce possibile raggiungere un accordo, o di adoperare formule imprecise, suscettibili di interpretazioni diverse, con l’intesa di lasciare ai successivi spostamenti delle forze ed alle evoluzioni delle idee politiche il compito di definire ciò che rimase incompiuto o di far valere uno fra i vari significati attribuibili ad una stessa disposizione»[31]. La vaghezza è, dunque, per le costituzioni pluralistico-conflittuali, una condizione di nascita e al contempo una garanzia di vitalità.
La ragione che spiega la vaghezza e la genericità degli enunciati costituzionali risiede dunque nel fatto che i costituenti hanno differito e lasciato aperte molte questioni: infatti il compromesso tra le parti costituenti si è potuto realizzare, in quanto compromesso, solo su alcuni generici – e pur sempre fondamentali – contenuti: «le costituzioni pluraliste, esito di compromessi nel senso più alto e nobile della parola (…) [sono] (o comunque [devono] essere intese come) costituzioni “parziali”. Parziali perché compromissorie. Parziali perché in un compromesso entra solo ciò che le parti costituenti possono compromettere. Proprio i principi etico-politici più propri, più identitari, più proiettati sul futuro, e nel lungo periodo, delle singole parti costituenti è possibile, e molto probabile, che non entrino a far parte del compromesso complessivo. Se valesse il contrario, vorrebbe dire che la costituzione non è propriamente un compromesso, ma un atto (complessivamente unilaterale) che instaura una democrazia “protetta”, che pretende delle abiure, delle sconfessioni, che identifica l’orizzonte della politica con quello della sua attuazione: un orizzonte chiuso e omologato. Così non è»[32].
Alla luce di questa considerazione essenziale, si deve riconoscere che molti contenuti materiali sono rimasti fuori del compromesso: o perché non furono neanche presi in considerazione dalle parti che in quel momento storico addivennero al compromesso, o perché – benché presi in considerazione – non vi entrarono, perché non vi poterono entrare, o vi entrarono solo parzialmente, pena l’impossibilità di addivenire a un compromesso[33]. Rispetto a questi contenuti, che oggi costituiscono oggetto di forti tensioni politiche, proprio perché sono “senza Costituzione”, vige «la norma di chiusura delle costituzioni», ossia «il divieto di evocare contro la costituzione ciò che è rimasto fuori del compromesso costituente. L’area del “non decidibile”, per usare l’espressione di Luigi Ferrajoli, è in realtà doppia: quella risultante dai divieti costituzionali espliciti e quella risultante dai principi politici soggettivi (delle parti costituenti) che sono rimasti estranei al compromesso costituente, e che è vietato porre a base di decisioni (ad opera dei loro portatori o dei loro avversari) volte a rinnegare e a rovesciare il compromesso medesimo». Questo significa che ciò che è rimasto fuori deve restare nell’area del “non decidibile”? No, ma significa che «quei principi – che per brevità chiameremo identitari – restano obiettivi praticabili nelle forme e nei limiti della costituzione, come obiettivi politici che, se perseguiti con metodo democratico, possono portare fino alla revisione della costituzione stessa. Limite oltre il quale sta la possibilità di un nuovo esercizio di potere costituente: potere illegittimo dal punto di vista della costituzione vigente, e in nome di questa da contrastare con tutti i mezzi giuridici e politici che essa consente. Un potere, dal punto di vista del diritto costituzionale, contemplabile solo come ipotesi storico-politica (fatto salvo il diritto di resistenza)». Da qui deriva ancora l’imprescindibile insegnamento kelseniano: «la povera legge, esito di un procedimento che si conclude con un nudo voto, che non deve essere motivata, che non è valida in virtù di alcun principio materiale, di alcun argomento, ma solo di una conta, di un semplice numero, è ancora lo strumento irrinunciabile per risolvere i conflitti politici, e particolarmente quelli che nella (parte materiale della) costituzione non hanno trovato composizione»[34].
Se dunque le «formule imprecise» richiedono ulteriori attività di concretizzazione/svolgimento/determinazione/ponderazione, tale attività deve essere guidata da un «principio metagiuridico» che Mortati, a proposito dell’atteggiamento che le forze politiche in conflitto devono adottare durante la fase costituente, definisce come il principio che assume la funzione di contenere l’azione delle forze politiche, impedendo ad essa di trascendere fino al punto di incidere sui valori assunti quali supremi e assoluti. Questo principio metagiuridico – che impone alle parti di mettere in campo ogni sforzo per non rompere l’armistizio – non può che valere anche man mano che ci si allontana dal momento costituente: le costituzioni conflittuali non possono che presupporre la validità di una norma implicita che impone alle parti, sia in sede di attuazione sia in sede di interpretazione delle disposizioni costituzionali, di comportarsi come se fossero fratelli (proprio perché nella realtà non lo sono)[35]. È proprio qui che entra in gioco il principio di fraternità nello Stato costituzionale per principi, un principio di fraternità che presuppone il conflitto e che si presenta come strumento di pacificazione, come norma strutturale per far convivere gli altri principi, al loro servizio. In questa prospettiva, il principio di fraternità è il principio che serve al fine di presumere, ma di non rendere distruttivo, il conflitto e, dunque, al fine di realizzare oggi quegli armistizi che costituiscono altrettante risposte alle domande che vengono continuamente rivolte alla costituzione.
Se così è, da tale principio non possono non discendere i seguenti corollari: 1. la necessità che siano le concrete parti politiche protagoniste dei conflitti – e di cui gli organi politico-rappresentativi sono i massimi arbitri – e non soggetti terzi, quali sono invece gli organi giurisdizionali, ivi comprese le corti costituzionali, nazionali e sovranazionali, a realizzare gli armistizi – eventualmente attraverso il ricorso alla categoria delle «leggi permissive» o «praeter constitutionem», nell’ipotesi di domande rivolte alla costituzione in riferimento alle quali i costituenti non decisero alcunché[36] –, ossia soluzioni a maggioranza semplice, per essere sempre reversibili[37]; 1.a. la necessità che le concrete parti politiche protagoniste dei conflitti realizzino gli armistizi rispettando il principio secondo il quale coloro che detengono provvisoriamente la maggioranza non possono pretendere maggiori vantaggi – che il mero peso politico assicurerebbe loro – se una soluzione più vantaggiosa per la controparte li soddisferebbe comunque (adattamento del secondo principio di giustizia di Rawls)[38]; 2. la necessità che gli organi giurisdizionali, ivi comprese le corti costituzionali, che non sono nell’arena politica, consentano ai soggetti del conflitto di realizzare la fraternità conflittuale per addivenire all’armistizio, e ricorrano, a tal fine, agli strumenti a ciò deputati (tra i quali, in primo luogo, si vuole indicare in questa sede la preferenza che dovrebbe essere accordata al ricorso agli argomenti letterale e originalista nell’interpretazione della Costituzione, per lasciare al legislatore le decisioni sulle scelte politiche fondamentali che sono rimaste fuori dal compromesso del 1947: il che è come dire che le corti devono consentire che esistano materie da disciplinare «praeter constitutionem»[39]); 2.a. gli organi giurisdizionali, in sede di controllo di costituzionalità delle leggi che realizzano gli armistizi, devono limitarsi a verificare il rispetto, da parte dei protagonisti politici, del dovere di comprendere le ragioni dell’Altro nel senso indicato sub 1.a.: ciò comporta che, in sede di controllo della ragionevolezza del bilanciamento compiuto dalle parti politiche, le corti devono verificare che lo svantaggio subito dalle minoranze sia accettabile, in quanto il legislatore ha fatto ricorso al “mezzo più mite” per limitare i diritti bilanciandoli con altri interessi di rilievo costituzionale[40].
1. M. Barberis, Separazione dei poteri e teoria giusrealista dell’interpretazione, relazione al Convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti su «Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale» (Padova, 22-23 ottobre 2004), 1° gennaio 2005, p. 1 (www.associazionedeicostituzionalisti.it/old_sites/sito_AIC_2003-2010/materiali/convegni/aic200410/barberis.pdf).
2. Intervento all’assemblea generale della Corte di cassazione, 25 gennaio 2024 (www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/Intervento_Pinelli_inaugurazione_anno_giudiziario_2024.pdf).
3. Ivi, p. 2.
4. Sia consentito il rinvio a I. Massa Pinto, Il costituzionalismo è vittima o carnefice delle attuali tendenze autodistruttive del sistema? Primi pensieri intorno all’eclissi del dualismo tra principio di causalità e principio d’imputazione, in Costituzionalismo, n. 3/2021, pp. 1-15 (www.costituzionalismo.it/wp-content/uploads/Fasc3-2021-1.-Massa-Pinto.pdf).
5. T. Hobbes, De Cive. Elementi filosofici sul cittadino (1646), Prefazione ai lettori, Editori Riuniti, Roma, 2012, p. 15. Questa citazione dell’opera di Hobbes, e le altre che seguono nel testo, non possono in alcun modo essere considerate come legate esclusivamente alla stagione dell’assolutismo: tutt’altro. Come è stato magistralmente illustrato da tempo, la grandezza epocale di Hobbes sta «nell’assoluta e per certi versi disarmante radicalità con cui egli si colloca nel Moderno, inaugurandolo col suo gesto filosofico-politico»: C. Galli, Ordine e contingenza. Linee di lettura del «Leviatano», in Aa.Vv., Percorsi della libertà. Scritti in onore di Nicola Matteucci, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 81-106, ora in C. Galli, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 38-71 (citazione: p. 39). Vds. anche, dello stesso A.: Modernità. Categorie e profili critici, Il Mulino, Bologna, 1988; e La «macchina» della modernità. Metafisica e contingenza nel moderno pensiero politico, in Id. (a cura di), Logiche e crisi della modernità, Il Mulino, Bologna, 1991, pp. 83-141; Sovranità, Il Mulino, Bologna, 2019. Proprio in merito alle riflessioni che seguono nel testo, sarebbe dunque indispensabile per il costituzionalismo contemporaneo rileggere Hobbes non come il teorico dello Stato assoluto, ma come il teorico «della forma assoluta della sovranità», di cui anche il costituzionalismo contemporaneo non può fare a meno – così M.L. Lanzillo, La politica della paura all’ombra del Leviatano, in Id. e R. Laudani (a cura di), Figure del potere. Saggi in onore di Carlo Galli, Il Mulino, Bologna, 2021, p. 106. Sull’attualità delle categorie hobbesiane, oltre la stagione dell’assolutismo, cfr. M. Dogliani, L’idea di rappresentanza, in Aa.Vv., Studi in onore di Leopoldo Elia, tomo I, Giuffrè, Milano, 1999, pp. 537-572, part. p. 543; M. Luciani, Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico, in Giur. cost., n. 2/2006, pp. 1643-1668, part. p. 1653; Id., Ogni cosa al suo posto, Giuffrè, Milano, 2023, pp. 36-38; O. Chessa, Dentro il Leviatano. Stato, sovranità e rappresentanza, Mimesis, Milano-Udine, 2019, che si prefigge proprio di «mostrare perché il diritto pubblico contemporaneo, e specialmente il diritto costituzionale, presuppongono ancora oggi il Leviatano statale, con la gran parte dei corollari che già furono messi bene in luce nell’opera hobbesiana» (p. 11). E sia consentito da ultimo anche il rinvio a I. Massa Pinto, Volete la libertà? Eccola, in Questione giustizia online, 3 agosto 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/volete-la-liberta-eccola).
6. M. Luciani, Ogni cosa, op. cit., pp. 107-108.
7. Ivi, p. 109.
8. Intervento del vicepresidente del Csm, cit. (nota 2), p. 5.
9. Rispetto al ruolo della Corte costituzionale segnarono una svolta decisiva nella direzione indicata nel testo i lavori di A. Barbera, Commento all’art. 2, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli, Bologna, 1975, e quelli pubblicati in N. Occhiocupo (a cura di), La corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, Il Mulino, Bologna, 1978, e in P. Barile - E. Cheli - S. Grassi (a cura di), Corte Costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, Il Mulino, Bologna, 1982. Critico nei confronti della Corte quale interprete della coscienza sociale, N. Zanon, Corte costituzionale, evoluzione della “coscienza sociale”, interpretazione della Costituzione e diritti fondamentali: questioni e interrogativi a partire da un caso paradigmatico, in Rivista AIC, n. 4/2017 (www.rivistaaic.it/images/rivista/pdf/4_2017_Zanon.pdf).
10. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992, p. 183: «Le esigenze dei casi valgono di più della volontà legislativa e possono invalidarla».
11. Intervento del vicepresidente del Csm, cit., p. 6.
12. In argomento, la letteratura è assai ampia. Con posizioni differenti, cfr. almeno: G.F. Ferrari, I diritti nel costituzionalismo globale: luci e ombre, Mucchi, Modena, 2023; G. De Burca e J.H.H. Weiler (a cura di), The worlds of European Constitutionalism, Cambridge University Press, Cambridge, 2012; Associazione italiana dei costituzionalisti (a cura di), Costituzionalismo e globalizzazione, atti del XXVII Convegno annuale dell’AIC (Salerno, 22-24 novembre 2012), Jovene, Napoli, 2014; G. Halmai, Perspectives on Global Constitutionalism. The Use of Foreign and International Law, Eleven, L’Aia, 2014; A. O’Donoghue, Constitutionalism in global constitutionalisation, Cambridge University Press, Cambridge, 2014; A. Somek, The Cosmopolitan Constitution, Oxford University Press, Oxford, 2014; G. Bongiovanni, Global Constitutionalism and Theory of Law: A Preliminary Analysis, in Soft Power (Revista euro-americana de teoría e historia de la política y del derecho), n. 2/2014, pp. 171-192; I. Pernice, Multilevel Constitutionalism and the Crisis of Democracy in Europe, in European Constitutional Law Review, vol. 11, n. 3/2015, pp. 541-562; N. Walker, Constitutional Pluralism Revisited, in European Law Journal, vol. 22, n. 3/2016, pp. 333-355; L. Ferrajoli, Costituzionalismo oltre lo Stato, Mucchi, Modena, 2017; Id., Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli, Milano, 2022; M. La Torre, Miseria del costituzionalismo globale, in Materiali per una storia della cultura giuridica, n. 1/2017, pp. 31-44.
13. Lo spiegano molto bene M. Levy e M. Salvadori, Perché gli edifici cadono, Bompiani, Milano, 1997, dove si racconta l’aneddoto dell’Empire State Building che, nel 1945, resistette al crollo sebbene colpito per errore da un aereo statunitense.
14. M. Luciani, Ogni cosa, op. cit., pp. 58-59.
15. T. Hobbes, De Cive (Prefazione ai lettori), op. cit., p. 16.
16. N. Rossi, Il caso Apostolico: essere e apparire imparziali nell’epoca dell’emergenza migratoria, in Questione giustizia online, 10 ottobre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-apostolico-essere-e-apparire-imparziali-nell-epoca-dell-emergenza-migratoria), ora in questo fascicolo. Anche il Ministro della giustizia (cfr., ad esempio, C. Cerasa, “L’opposizione giudiziaria esiste”. Intervista a Carlo Nordio, Il Foglio, 20 dicembre 2023 – www.ilfoglio.it/politica/2023/12/20/news/-l-opposizione-giudiziaria-esiste-intervista-a-carlo-nordio-6031113/) auspica, del resto, giudici senza pre-giudizi.
17. Per tutti i riferimenti, cfr. R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, in A. Cicu - F. Messineo - L. Mengoni, cont. da P. Schlesinger (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 1-368.
18. Che il cognitivismo, come teoria (descrittiva) dell’interpretazione, abbia già da tempo rivelato la sua fallacia è stato dimostrato dagli studi fondamentali di A. Ross, On Law and Justice (1952), trad. it.: Diritto e giustizia, Einaudi, Torino, 1965, da H. Kelsen, Reine Rechtlehre (1960), trad. it.: La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1966, e da H.L.A. Hart, The Concept of Law (1961), trad. it.: Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 2002.
19. M. Luciani, Ogni cosa, op. cit., p. 64.
20. Ha insistito su questo punto, da ultimo M. Luciani, op. ult. cit., pp. 19 ss., part. pp. 53-54: «Ogni colpo inferto alla certezza e all’affidamento deve essere (…) inteso come una violazione – oltre che dei princìpi dello Stato di diritto – dello stesso patto fondativo che ha dato vita allo Stato quale forma giuridico-politica di una comunità di esseri umani, patto radicato nella volontà di unirsi per costituire un sovrano (di qui l’idea del pactum unionis) o quantomeno per assoggettarvisi (di qui l’apparentemente alternativa idea del pactum subiectionis). Se questo è vero, la certezza non può essere trattata (al modo della dottrina e della giurisprudenza prevalenti) come uno dei tanti valori (princìpi) che nello Stato costituzionale di diritto si contendono il campo, ora tra loro armonizzandosi, ora tra loro confliggendo, così destinandosi al reciproco bilanciamento. Si tratta, semmai, della prospettiva dalla quale il giuoco dei valori sociali, tradottisi in princìpi costituzionali, dovrebbe essere sempre riguardato, in ragione di quel raccordo pace-sicurezza-statualità del quale il principio di certezza è manifestazione giuridica».
21. M. Dogliani, L’ordinamento giuridico strapazzato (Introduzione), in Id. (a cura di), Il libro delle leggi strapazzato e la sua manutenzione, Giappichelli, Torino, 2012, p. 1.
22. P. Calamandrei, Introduzione a F. Ruffini, Diritti di libertà (1926), La Nuova Italia, Firenze, 1946 (II ed.), p. XI.
23. M. Barberis, Separazione, op. cit., nota 25.
24. M. Dogliani, Interpretazione, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, vol. IV, Giuffrè, Milano, 2006, p. 3187.
25. Ivi, p. 3188.
26. Ivi, p. 3187.
27. M. Barberis, Separazione, op. cit., nota 29, riconduce al giusliberismo A. Baldassarre, Costituzione e teoria dei valori, in Politica del diritto, n. 4/1991, pp. 639-658, e G. Zagrebelsky, Il diritto mite, op. cit.
28. Cfr. M. Fioravanti, Stato costituzionale in trasformazione, Mucchi, Modena, 2021.
29. In Italia, un passaggio cruciale in questo processo fu segnato dalla mozione finale del Congresso dell’Anm tenuto a Gardone nel 1965, nella quale si stabiliva che il giudice ordinario avrebbe dovuto: «1. Applicare direttamente le norme della Costituzione quando ciò sia tecnicamente possibile in relazione al fatto controverso. 2. Rinviare all’esame della Corte costituzionale, anche d’ufficio, le leggi che non si prestino a essere ricondotte, nel momento interpretativo, al dettato costituzionale. 3. Interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione, che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale» (Anm, XII Congresso nazionale Brescia-Gardone, 25-28 settembre 1965, Atti e commenti, Arti grafiche Jasillo, Roma, 1966, pp. 309-310). Da ultimo, ricostruisce questo percorso di trasformazione G. Bisogni, Della geometria giuridica ovvero del “posto” dei giudici nello «Stato costituzionale del presente», in M. Gregorio e B. Sordi (a cura di), Lo Stato costituzionale. Radici e prospettive. Atti della giornata di studi in memoria di Maurizio Fioravanti – Firenze, 10 marzo 2023, Giuffrè, Milano, 2023, pp. 189 ss., commentando M. Fioravanti, Il cerchio e l’ellisse. Il fondamento dello Stato costituzionale, Laterza, Bari-Roma, 2020.
30. «[L]a costituzione deve, specie quando crea un tribunale costituzionale, astenersi da questa fraseologia e, se intende porre principi relativi al contenuto delle leggi, li deve formulare nel modo più preciso possibile» – H. Kelsen, La giustizia costituzionale (1928), Giuffrè, Milano, 1981, p. 190.
31. C. Mortati, La Costituente (1945), in Id., Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello Stato. Raccolta di scritti, vol. I, Giuffrè, Milano, 1972, pp. 304-305 («Esempi di disposizioni lacunose, di formule dilatorie, di commistioni di sistemi diversi sono facilmente rinvenibili nelle costituzioni moderne»).
32. M. Dogliani, Introduzione, in M. Cavino e C. Tripodina (a cura di), La tutela dei diritti fondamentali tra diritto politico e diritto giurisprudenziale: “casi difficili” alla prova, Giuffrè, Milano, 2012, p. 1.
33. Cfr. C. Mortati, voce “Costituzione (dottrine generali)”, in Enc. dir., vol. XI, Giuffrè, Milano, 1962, p. 147: «È da riconoscere che effettivamente nelle costituzioni le quali si formano nei periodi di passaggio da un tipo di Stato ad un altro, come risultato di compromessi tra forze politiche eterogenee e fra loro contrastanti, perché portatrici di valori irriducibili l’uno all’altro nei loro nuclei fondamentali, si realizza un equilibrio instabile che toglie alla costituzione la possibilità di raccogliere sotto di sé, in modo anche solo relativamente unitario, tutto l’insieme dei rapporti sociali. L’esame delle costituzioni appartenenti a siffatto tipo “compromissorio” mostra come in esse, o viene omessa la disciplina di quei rapporti sociali in ordine ai quali non si è raggiunto alcun accordo, o se ne dà una solo apparente, ricorrendosi a forme di compromesso che lo Schmitt ha chiamato “dilatorie”, oppure si accolgono (senza poterle armonizzare, ma solo giustapponendole) disposizioni fra loro eterogenee, corrispondenti alle ideologie di uno o dell’altro dei gruppi che hanno partecipato alla loro formazione. È chiaro come tali costituzioni riescano a realizzare un ordine in sé non equilibrato, esposto com’è al giuoco delle forze contrastanti, tendente a rompersi in favore di quelle fra esse che, di volta in volta, riescano a prevalere, così che le divergenze fra i loro precetti e la concreta loro attuazione, fra costituzione “formale” e costituzione “reale”, divengono frequenti e gravi».
34. M. Dogliani, Introduzione, cit., pp. 2-3.
35. Ho approfondito tale questione in Costituzione e Fraternità. Una teoria della fraternità conflittuale: “come se” fossimo fratelli, Jovene, Napoli, 2011, pp. 129 ss.
36. Approfondimenti sul punto in I. Massa Pinto, Leggi «permissive» e leggi «accanto» nella lezione di Leopoldo Elia: l’intervento normativo nelle materie eticamente sensibili, in M. Dogliani (a cura di), La lezione di Leopoldo Elia, ESI, Napoli, 2011, pp. 265 ss.
37. In questa prospettiva – di recupero di un ruolo centrale della politica e dei Parlamenti – avrebbe dovuto essere letta anche la recente giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nei casi Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, No. 19-1392, Vol. 597 U.S._(2022) e New York State Rifle & Pistol Association, Inc. v. Bruen, No. 20-843, Vol. 597 U.S._(2022).
38. J. Rawls, A Theory of Justice (1971), trad. it.: Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1997, pp. 101-102.
39. Sul punto vds., in particolare, C. Tripodina, L’argomento originalista nella giurisprudenza costituzionale in materia di diritti fondamentali, in F. Giuffrè e I. Nicotra (a cura di), Lavori preparatori ed original intent del legislatore nella giurisprudenza costituzionale. Atti del seminario svoltosi a Catania il 5 ottobre 2007, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 229 ss.
40. Per maggiori approfondimenti sul punto, si rinvia ancora al mio Costituzione e fraternità, op. cit., pp. 162 ss.; sul punto, cfr. altresì le interessanti considerazioni di F. Viola, Ragionevolezza, cooperazione e regola d’oro, in Ars Interpretandi, 2002, p. 115.