Magistratura democratica

Il giudice deve guardare il mondo con gli occhiali dell’imparzialità perché è attraverso l’imparzialità che il mondo guarda il giudice

di Francesco Petrelli

Il nesso fra la qualità di giudice e l’imparzialità è imprescindibile e su di esso si fondano la credibilità e la legittimazione della magistratura. L’imparzialità non può risolversi nella sola qualità del giudizio e della decisione. Non può, infatti, prescindersi da ciò che un giudice risulta essere all’interno della collettività nella quale esercita la propria funzione in virtù delle proprie azioni e manifestazioni di pensiero. L’imparzialità del giudice è, pertanto, soprattutto garanzia di indipendenza dell’intera giurisdizione.

1. Che il giudice debba essere imparziale sembra quasi un’ovvietà, proprio perché l’imparzialità finisce con il qualificare l’idea stessa di giudice[1]. La rappresentazione sociale del giudice e quella della sua imparzialità stanno e cadono insieme. Nessuno affiderebbe il giudizio a un magistrato che fosse in qualche modo coinvolto nei fatti[2]. È tuttavia possibile «che l’imparzialità venga intesa come una qualità non tanto dell’attività svolta dal soggetto per decidere la controversia, ma proprio come una qualità del soggetto stesso: per le sue origini, per le sue idee, ad esempio, per la sua formazione culturale o per la sua storia personale… »[3]. Non vi è dubbio, infatti, che l’equidistanza del giudice dall’oggetto della causa non esaurisca il requisito dell’imparzialità, potendosi dubitare della sussistenza di tale qualità in un giudice che, ad esempio, abbia pubblicamente espresso avversione per questa o quella ideologia politica o per la fede religiosa professata dall’imputato. 

Si risponde, tuttavia, a chi sostiene l’opportunità di assumere quale canone dell’imparzialità gli eventuali comportamenti pubblici posti in essere da parte dei giudici, che non importa, in fondo, che il giudice appaia esteriormente imparziale perché è la sua decisione a essere garanzia dell’imparzialità del giudizio. È infatti sull’esito corretto o meno di quest’ultimo che deve concentrarsi l’attenzione del pubblico e dei destinatari della decisione, non sui comportamenti e sugli atteggiamenti del giudice. 

Si dice, cioè, che sarebbe inutile e in qualche modo pericoloso concentrarsi sull’esteriorità del giudicante, sulla sua storia personale o sulla pubblica postura assunta in determinate occasioni, anziché sul prodotto della sua prestazione professionale, ovvero sui contenuti della sua decisione. Simili valutazioni potrebbero trasformarsi in insidiosi strumenti di controllo incidenti sull’indipendenza del magistrato.

Secondo questa prospettazione, l’imparzialità del giudice si dovrebbe pertanto risolvere più concretamente e più semplicemente nell’imparzialità della sentenza. Se la motivazione offre adeguata risposta e appare intrinsecamente giusta, inutile soffermarsi sui comportamenti pubblici, sul credo ideologico, religioso o sulle simpatie politiche del suo autore. Insomma, la questione dell’imparzialità viene trasferita interamente dal soggetto all’oggetto del giudizio. Ne conseguirebbe una sostanziale indifferenza per i comportamenti pubblici del giudice, il quale non sarebbe niente affatto tenuto a sorvegliare i propri comportamenti e le proprie esternazioni pubbliche. 

Sembra essere speculare a tale visione la recente giurisprudenza del Csm che tratta dell’utilizzo dei social network da parte di un magistrato, escludendo l’esistenza di ogni limite all’espressione del pensiero. Si è affermato, infatti, in sede disciplinare che i magistrati «non possono avere nessuna limitazione ulteriore rispetto a quelle valide per tutti gli altri consociati» e che neppure può pretendersi «un maggior livello di sobrietà nella manifestazione del pensiero» perché una simile pretesa collocherebbe il magistrato «in una posizione deteriore rispetto agli altri cittadini»[4]. Una pretesa che, secondo lo stesso Csm, consentirebbe di «passare da un controllo del comportamento del magistrato a un controllo del provvedimento giurisdizionale»[5]

 

2. La prospettiva del giudizio disciplinare sembra impermeabile a ogni declinazione deontologica che sia più aperta alla prudenza e alla sobrietà dell’agire pubblico del giudice. Si tratta di una prospettiva chiusa in se stessa che – condizionata dal profilo sanzionatorio – finisce con il rifiutare in maniera radicale ogni necessario rapporto con la percezione e il giudizio della comunità all’interno della quale la giurisdizione si esercita. In questo assetto, l’imparzialità finisce innaturalmente con l’essere intesa come un limite alla libertà di espressione e come un rischio per l’indipendenza della giurisdizione, piuttosto che una virtù del giudice e un indispensabile requisito della sua legittimazione esterna. 

Il bilanciamento fra i diversi diritti tutelati dalla Costituzione, che è stato sviluppato sul piano disciplinare, non deve infatti necessariamente proiettarsi sul piano processuale, nell’ambito del quale il valore costituzionale dell’imparzialità illumina la scena non solo in senso soggettivo, quale tutela dell’imputato, ma soprattutto come valore dotato di una rilevanza oggettiva, quale requisito intrinseco della giurisdizione. Colta in questa luce, l’imparzialità impone un bilanciamento diverso nel quale le manifestazioni esteriori del giudice non possono non subire una diversa declinazione.

D’altronde, è quella stessa decisione della Corte costituzionale citata dal Csm in quel provvedimento (la sentenza n. 100/1981) a ricordarci che, sebbene «i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino (…) deve del pari ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica da essi rivestita non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale». Ricorda, in proposito, la Corte che i magistrati «debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità». E ciò proprio perché il prestigio della magistratura «si concreta nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa».

Occorre dunque ricordare che il giudice deve guardare il mondo con gli occhiali dell’imparzialità e della terzietà perché è attraverso tali occhiali che il mondo guarda il giudice. Il mondo, infatti, non valuta il giudice solo per via delle sue decisioni, ma anche per le modalità con le quali esercita la propria giurisdizione e, ovviamente, anche attraverso la sua complessiva postura all’interno della collettività nella quale opera. 

L’esito di un giudizio, la decisione, non può considerarsi come un prodotto astratto, non associato necessariamente a tutti i fattori umani di cui è il risultato. Se ci convinciamo della parzialità di un giudice per il modo in cui ha in passato manifestato il suo pensiero politico o un suo credo religioso, o per il modo in cui ha condotto un dibattimento, non ci rassicura il fatto che la sua decisione sia stata confermata dal giudice in appello. Resteremo dell’idea che non si sia voluto smentire o meno un giudice discusso. Insomma, il dubbio della parzialità inficia l’intera catena delle legittimazioni. Diviene un pericolo per l’immagine stessa della giurisdizione.

 

3. Il discorso, a questo punto, non può tuttavia che spostarsi sul giudizio. È infatti nel giudizio che l’imparzialità del giudice e la parità delle parti risultano inevitabilmente legati fra di loro. È proprio l’imparzialità del giudice a essere difatti posta a tutela del delicato equilibrio della parità dell’accusa e della difesa. D’altronde, le parole “parte” e “parità” hanno una medesima antica radice, “paris”: pari è il numero che può essere diviso in parti uguali e “pari” erano detti gli individui che avevano eguale dignità. Se il giudice, quindi, non è imparziale, le parti soffrono di una dannosa disuguaglianza. Il giudizio penderà in maniera asimmetrica a favore di una delle due parti. Ecco, allora, che la questione diviene più complessa perché fra il giudice e la decisione c’è sempre di mezzo un giudizio. Ed è per questo che anche sull’agire del giudice all’interno di quel giudizio si deve ancora appuntare la nostra attenzione. Perché, evidentemente, è nel modo in cui il giudice ammette una prova, interviene nell’assunzione di un testimone, commenta una richiesta della parte che si disvela il suo atteggiamento mentale, che si può cogliere una sua prevenzione o un suo pregiudizio. Essendo il giudizio questione complessa ed essendovi un nesso tanto profondo quanto evidente fra metodo e risultato, non ci si può illudere che la decisione finale sia l’unico specchio dell’imparzialità. E ciò è tanto più vero se si considera come l’imparzialità debba essere considerata come «una caratteristica della funzione giurisdizionale obiettivamente intesa, la quale viene così a manifestarsi, prima ancora che come un diritto delle parti, come un modo di essere della giurisdizione»[6].

 

4. Si pone, allora, un’ulteriore e differente prospettiva nella quale l’imparzialità deve appartenere tanto al giudice che al processo, quali garanti dell’imparzialità della decisione. Nessun giudizio è infatti frutto di un’operazione matematica e siamo portati tanto più ad accettare l’esito del giudizio quanto più l’autore sia apparso imparziale nel corso del processo, quanto più abbia correttamente applicato le regole del contraddittorio e si sia mostrato equo ed equilibrato nei confronti delle richieste delle parti. Risulta ovvio, tuttavia, che se il giudice deve essere e apparire imparziale nel giudizio, lo debba essere anche al di fuori di esso, nella sua vita di relazione esterna, nel suo agire pubblico, nella vita associativa e nei suoi rapporti con la politica, nel manifestare pubblicamente le proprie opinioni. Sarebbe piuttosto impensabile che un giudice, dopo essersi manifestato di parte fuori dell’aula, possa divenire o possa apparire imparziale una volta indossata la toga, anche laddove il suo aplomb processuale risulti formalmente inappuntabile. L’identità del soggetto pubblico non è, infatti, soltanto una funzione e un ruolo, ma una somma di relazioni e il riflesso del suo inevitabile, molteplice agire nel mondo. 

 

5. Molto si è detto a proposito dell’apparire imparziale del giudice, nel giudizio e fuori dal giudizio, e si è anche affermato che il giudice che non manifesta le proprie idee sarebbe più pericoloso di quello che non le nasconde, in quanto dissimulerebbe la propria parzialità. D’altronde, occorre riconoscere che la famosa moglie di Cesare, che doveva apparire illibata, non lo era affatto. Ma il discorso posto in questi termini risulta davvero fuorviante perché ovviamente vi è una distinzione fra l’apparire e il sembrare. L’apparire consiste infatti nella manifestazione esterna del proprio autentico essere. Il sembrare, al contrario, significa il rappresentare all’esterno ciò che non si è: il dissimulare dunque la propria parzialità con un comportamento apparentemente imparziale. Si tratta di accedere a un livello comportamentale e psicologico della questione che si sottrae a qualsivoglia sindacato e che sposta il discorso verso una evidente fallacia naturalistica, dove il dover essere si va a confondere con l’essere. 

Dobbiamo invece fermarci a osservare il livello dei comportamenti deontologicamente corretti che soddisfino le esigenze della giustizia, sia come fatto relativo al singolo giudizio che come dispositivo collettivo che rinsalda la convivenza civile ed evita pericolose disgregazioni all’interno delle istituzioni. Non è dunque pensabile che il magistrato non sia chiamato, dato il livello della sua responsabilità, né a sorvegliare la propria comunicazione esterna né a limitare i propri comportamenti esteriori. Il potere diffuso dei giudici è di tale rilievo da doversi circondare di ovvie cautele in merito alle quali a nulla vale invocare il diritto di eguaglianza rispetto a ogni altro comune cittadino, in quanto il giudice non è tale.

 

6. L’imparzialità, dunque, non può essere trasferita dall’agire del giudice, così come si dispiega fuori e dentro le aule, al prodotto del suo lavoro. Il sospetto di parzialità, indotto dall’agire esterno del giudice, introduce infatti un vulnus nella giurisdizione stessa e finisce con l’inficiare la percezione della correttezza della decisione e dell’intero sistema che la sostiene. Non si può arbitrariamente dissolvere il legame che tiene unito il giudice e il suo agire esterno al processo e alla decisione. Insomma, a ben vedere, l’imparzialità è una chiave di volta della giurisdizione dalla cui tenuta dipende non solo la legittimazione del giudice e del suo giudizio, ma anche la sua stessa indipendenza[7].

 

 

1. N. Bobbio, Quale giustizia, quale legge, quale giudice, in Quale giustizia, n. 8/1971, p. 268 (ripubblicato in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 1/2004); P. Gaeta, Poteri e garanzie (la magistratura), in Enc. dir., voce “Potere e Costituzione”, Giuffrè, Milano, 2023, p. 843, dove in particolare si sottolinea come l’imparzialità, nel corso dei lavori preparatori della Costituzione, «non fu esaminata come garanzia del processo e della correlativa decisione, ma come “connotato” di status di ogni singolo magistrato».

2. Diverso il tema della terzietà del giudice, che pure ha fondamento, come l’imparzialità, nell’art. 111 Cost.; ma, mentre l’imparzialità è inerente alla posizione del giudice rispetto all’oggetto del processo, la terzietà riguarda la sua collocazione “sul piano ordinamentale”; cfr. P. Ferrua, Il giusto processo, Zanichelli, Bologna, 2005, p. 51. 

3. Si tratterebbe della cd. imparzialità “soggettiva”, da contrapporsi alla cd. imparzialità “oggettiva”; cfr. sul punto F. Biondi e N. Zanon, Il sistema costituzionale della magistratura, Zanichelli, Bologna, 2019 (V ed.), cap. 4 – «L’imparzialità del giudice», pp. 191-220.

4. Regole differenti sono, ad esempio, imposte nei confronti di speciali categorie di cittadini: lo stesso avvocato, ai sensi dell’art. 9 del codice deontologico forense, «anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense»; «equilibrio e misura» sono richiesti al difensore nei rapporti con gli organi di informazione dall’art. 18 dello stesso codice; analoghi criteri sono previsti dall’art. 6 del codice etico di Anm, mentre mancano del tutto linee-guida che limitino o, almeno, orientino l’uso dei social da parte dei magistrati. 

5. Csm, sez. disciplinare, sent. n. 6/2026 (proc. n. 78/2021 RG).

6. F. Biondi e N. Zanon, Il sistema costituzionale, op. cit.; cfr. Corte cost., nn. 155/1996 e 283/2000. 

7. «D’altronde, a sua volta, l’imparzialità può concepirsi concettualmente solo se riferita, ante omnia, ad un giusdicente, sciolto da ogni vincolo di dipendenza; e l’indipendenza del (singolo) giudice, a sua volta, presuppone concettualmente la sua appartenenza ad un potere capace di autoregolamentarsi, cioè autonomo, a sua volta assoggettato soltanto alla legge»: P. Gaeta, Poteri e garanzie, op. cit., p. 851.