Magistratura democratica

Una questione di fiducia

di Pietro Curzio

Il difficile equilibrio dell’imparzialità. Riflessioni sulla base dei principi costituzionali e assumendo il punto di vista di una persona che, per le vicende della vita, viene a trovarsi dinanzi a un giudice.

Alla richiesta di un’opinione sul tema “Magistrati: essere ed apparire imparziali”, il mio atteggiamento istintivo è duplice: quello di pormi nell’ottica di una persona che per le vicende della vita viene a trovarsi dinanzi a un giudice; quello di aprire la Costituzione e verificare cosa dice sul punto.

Partiamo dalla seconda prospettiva. La prima norma che tratta del tema non riguarda i magistrati specificamente, ma i cittadini che svolgono funzioni pubbliche. Ciò che colpisce, nell’art. 54, non è tanto il fatto che tali funzioni debbano essere esercitate con disciplina e onore (non potrebbe che essere così), quanto il verbo utilizzato nel cuore della frase: cittadini cui sono «affidate» funzioni pubbliche. “Affidare”, nella sua etimologia latina, significa “dare in custodia a qualcuno”, implica un rapporto di fiducia. Ai magistrati, come agli altri soggetti incaricati di funzioni pubbliche, si chiede di comportarsi in modo di poter riporre fiducia in loro.

Poi ci sono le norme sulla indipendenza e l’imparzialità. Il primo concetto è richiamato a proposito della magistratura come ordine «autonomo ed indipendente da ogni altro potere» (art. 104) e, a tal fine, sono previste prerogative speciali, in primo luogo la inamovibilità, ma anche doveri precisi: la soggezione soltanto alla legge, che ha due valenze: la soggezione dell’interprete alla legge, in un preciso rapporto di distinzione dei poteri, e soltanto alla legge, con esclusione di ogni forma di possibile soggezione a poteri privati o pubblici, esterni o interni alla magistratura. 

L’imparzialità è richiamata in relazione all’esercizio della giurisdizione: il processo deve svolgersi «nel contraddittorio delle parti, in condizione di parità, dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale» (art. 111).

Sono concetti tutti fortemente legati tra loro, ma non trascurerei l’indicazione sistemica che viene dalla diversa collocazione nella struttura della Costituzione.

Per il Costituente, quindi, una persona, cittadino o straniero, deve potersi fidare del giudice; la magistratura deve essere autonoma e indipendente; deve essere soggetta alla legge senza interferenze e condizionamenti di altra natura; il processo deve svolgersi dinanzi a un giudice terzo e imparziale.

L’imparzialità non è semplicemente un principio deontologico cui il giudice deve attenersi o una legittima aspettativa delle persone, ma è un diritto con un forte radicamento costituzionale, cui fa riscontro uno dei doveri fondamentali del giudice. Fondamentale perché un giudice che non è imparziale, non è un giudice.

Questo dovere si riflette sull’attività giurisdizionale in tutte le sue espressioni: gestione del processo, interpretazione della legge, decisione, motivazione. 

Sicuramente non è un dato acquisito, ma una meta a cui tendere. Quel dovere si rinnova di giorno in giorno. 

Non è neanche un comportamento sempre geometricamente simmetrico, perché a volte è la legge che impone forme di sostegno di una delle parti in condizione di debolezza, ad esempio prevedendo l’esercizio di poteri ufficiosi del giudicante nell’attività istruttoria. 

Sempre più complesso è poi divenuto il rapporto tra imparzialità e interpretazione, perché le disposizioni di legge devono essere lette alla luce dei principi costituzionali e tenendo conto di eventuali normative sovranazionali, spesso provenienti non da testi legislativi, ma dalle sentenze delle corti europee. Tutto ciò amplia gli spazi di discrezionalità insiti nell’attività interpretativa.

Questi spazi non devono essere utilizzati per sostituirsi al legislatore, alterando il principio della divisione dei poteri. Un magistrato ha, come ogni persona, idee e orientamenti culturali e politici; se afferma di non averne, non è onesto intellettualmente. Ma quando giudica deve mettere da parte le sue propensioni personali e ricercare la soluzione nel più attento rispetto del quadro normativo. È un percorso difficile, ma è la sola via che gli è concessa se vuole essere un giudice.

Si aggiunge, poi, un altro problema relativo alla vita extraprofessionale del giudice. Egli, come cittadino, oltre ad avere necessariamente convinzioni e propensioni personali, spesso avrà anche occasioni per esternarle secondo una variegata molteplicità di comportamenti: la partecipazione a convegni, la redazione di saggi su riviste scientifiche o di articoli sui quotidiani, il rilascio di interviste, la partecipazione a manifestazioni, la sottoscrizione di appelli, la presenza in trasmissioni televisive o sui social e tante altre forme di partecipazione alla vita sociale e politica.

Qual è la scriminante fra ciò che gli è concesso e ciò che non gli è concesso, al di là del pieno e ovvio rispetto della disciplina codicistica in materia di dovere di astensione e della normativa disciplinare? 

Credo che il criterio da seguire sia quello di mettersi nei panni di un cittadino e chiedersi se, a fronte di tali esternazioni, si sentirebbe garantito in ordine all’imparzialità di quel giudice. Molte di queste attività, anche in tale prospettiva, sono sicuramente consentite, alcune persino richieste. 

Francesco De Sanctis, in una famosa prolusione tenuta a Zurigo durante l’esilio, sostenne che il giudice ha «l’obbligo morale di educare la mente e il cuore» e che un magistrato che abbia studiato solo i codici ha una capacità di giudicare limitata, «con conseguenze devastanti per l’intera comunità». Educare la mente e il cuore significa porsi questioni e approfondire temi che vanno oltre il diritto, ed essere consapevoli e partecipi dei problemi e dei drammi che vive una società, oggi più che mai e in una dimensione sempre più estesa. 

Questo dovere di andare oltre una visione ristretta e arida del proprio lavoro trova, però, un limite: non può portare il giudice a comportamenti che inducano a dubitare della sua imparzialità e a privare le parti della serenità che è alla base della fiducia che ripongono nel loro giudice.

Egli, magari, sarà in grado di scindere le scelte insite in tali comportamenti da quelle che compirà in sede processuale, ma non si può chiedere a un cittadino di confidare sulla capacità di effettuare tale scissione, spesso ardua. 

Questo credo fosse il senso dell’affermazione del Presidente Sandro Pertini quando chiedeva ai giudici di non essere solo imparziali, ma di porsi anche il problema di apparire imparziali.

Non è un suggerimento ipocrita. Ipocrita è pretendere di sostenere che possa esservi un magistrato senza sentimenti e idee. Spetta però al giudice porsi il problema di raggiungere un equilibrio ragionevole e corretto tra tali idee e le sue scelte in sede di applicazione della legge, modellando il suo modo di essere e di agire al fine di garantire alle parti il diritto di fare affidamento sulla sua imparzialità.

È indubbiamente un limite che può condizionare l’esercizio di alcune libertà e influire sulla vita di relazione, ma ogni professione presenta un prisma di vantaggi e oneri funzionali alla specifica attività.

Il magistrato, a garanzia dell’indipendenza e terzietà, gode di alcuni vantaggi, come l’inamovibilità, sconosciuta a molte altre categorie di lavoratori privati e pubblici. Ha però, al tempo stesso, alcuni doveri specifici o che, con riferimento al suo ruolo, richiedono una particolare attenzione.

La sobrietà e la discrezione sono parte essenziale di tale equilibrio, ed in realtà, a pensarci bene, non sono oneri particolarmente pesanti, anche perché dovrebbero essere congeniali a chi ha scelto questa professione delicata, impegnativa e bellissima.