L’imparzialità del giudice: un obiettivo raggiungibile
L’imparzialità non è “neutralità” (di pensiero), ma si avvale del raziocinio, della coscienza, con senso di responsabilità, di competenza e di umanità, per consentire al magistrato di analizzare il caso dell’altro: la consapevolezza di aver esaminato la questione (di fatto e di diritto) in tutte le sue complesse dimensioni senza arrestare il giudizio a una parte superficiale e preconcetta delle argomentazioni già costituisce un prezioso esercizio di imparzialità. La Costituzione e le leggi – assistite dalla capacità di interpretare le norme e la realtà nella quale si inseriscono – ne rappresentano l’ossatura; le testimonianze di vita di chi ci ha preceduto rappresentano l’esempio da seguire (il volto dell’imparzialità).
Nella società dei social media è fondamentale chiedersi se essa sia ancora un obiettivo raggiungibile e soprattutto se il magistrato, per essere e apparire imparziale, debba assumere tratti disumanizzati e neutri. Una giustizia robotizzata alimenterebbe false illusioni di imparzialità perché il giudizio non può prescindere dal carattere ontologicamente etico e responsabile della decisione umana.
1. Introduzione / 2. Imparzialità: un obiettivo raggiungibile? / 3. Il bio-diritto e l’imparzialità / 4. Imparzialità nei giudizi riguardanti altri magistrati / 5. Uno sguardo al futuro: l’IA decisionale e l’imparzialità / 6. Episodi di vita vissuta / 7. Conclusioni
1. Introduzione
« (…) gli uomini, creature troppo imperfette, non tutti si possono promettere una totale indifferenza (…)»[1].
La riflessione sulla imparzialità del magistrato, dote indispensabile per la buona pratica giudiziaria, è impegnativa e costringe a uscire dagli schemi collaudati e rassicuranti dei luoghi comuni. Spesso capita di imbattersi in analisi teoriche, accurate e ben costruite, sul tema della indipendenza e della imparzialità.
Si tratta di sequenze normative e giurisprudenziali che indicano la virtù laica dell’imparzialità del magistrato, la connotano e l’accostano al profilo dell’apparenza di imparzialità come fosse un’endiadi perfetta (imparzialità non è solo essere, ma anche apparire).
Le riflessioni su questo tema sono molto interessanti, per lo più teoriche, e nel dibattere sull’imparzialità vengono esaminate le norme (anche quelle deontologiche), si chiamano in causa i sacri principi della vita riservata e schiva, ma bisogna ammettere che è arduo descrivere il comportamento virtuoso (ammesso che un comportamento virtuoso esista in sé) nel quale si incarni il valore della imparzialità interiore (essere imparziale) ed esteriore (apparire imparziale).
Il mondo anglosassone esemplifica questo dualismo (essere/apparire) con una massima molto significativa: “justice should non only be done, but should manifestly and undoubtedly be seen to be done” (“La giustizia non solo deve essere fatta ma è altrettanto essenziale che si percepisca manifestamente e senza dubbio che sia stata effettuata”)[2].
Ma come definire l’imparzialità del magistrato? Come darle un volto?
E quale il comportamento virtuoso: quello che assicura l’inflessibile rigore della giustizia e che non guarda in faccia nessuno? Quello che sa bilanciare il rigore con l’umanità? Esiste una ricetta per tutte le occasioni?
Se volessimo procedere con ironia, dovremmo interrogarci a fondo su «quali son queste passioni, che possono ammaliare il cuore anche dei più venerandi vecchioni scelti per maneggiar le bilance della giustizia?»[3].
La riflessione, per quanto la si voglia stemperare con il velo dell’ironia, è seria ed è sempre vivo il problema di fondo: si torna e si ritorna a discutere animatamente sull’imparzialità della magistratura e sull’esigenza di essere e di apparire imparziali.
Non resta che chiedersi se l’obiettivo delineato nella Carta costituzionale (quello dell’imparzialità) è raggiungibile o se l’essere umano, per sua natura, è destinato a non indossare mai i panni di una perfetta imparzialità.
La scintilla nasce ora da un tweet, ora da una decisione, ora da una dichiarazione pubblica, ora da una fotografia, e si rianima la discussione antica sul tema dell’imparzialità dei magistrati e su quale sia il grado di intensità con cui gli stessi possono partecipare alla vita pubblica e sociale.
Questa breve introduzione costituisce l’occasione per anticipare una delle riflessioni centrali sul tema: imparzialità non è neutralità (di pensiero), non significa uscire da sé (trasformarsi in una specie di automa: il “giudice-macchina”), ma è appropriarsi del proprio raziocinio, della propria coscienza, con senso di responsabilità, di competenza e di umanità, per analizzare il caso dell’altro; la consapevolezza di avere esaminato la questione (di fatto e di diritto) in tutte le sue complesse dimensioni senza arrestare il giudizio a una parte superficiale e preconcetta delle argomentazioni già costituisce un prezioso esercizio di imparzialità.
Ed è tutt’altro che semplice.
Allora, non resta che interrogarci: L’imparzialità è un obiettivo facilmente raggiungibile?
2. Imparzialità: un obiettivo raggiungibile?
Il cammino umano e professionale mi ha spesso posto dinanzi al dilemma su quale fosse il comportamento più corretto nella gestione del complesso agire del magistrato: una continua tensione pervade questo mestiere e lo rende così bello perché, nel contatto con gli altri esseri umani, il giudizio (per essere realmente tale e per non trasformarsi in una superficiale esternazione) deve essere pesato, pensato, ripercorso logicamente e reso comprensibile nella sua esternazione logica.
Un cammino faticoso, che include l’imparzialità quale punto di partenza nella elaborazione delle idee.
La Carta costituzionale offre preziosi spunti di riflessione e individua le regole comportamentali: il magistrato che si attiene ai principi della Costituzione è già un magistrato che assicura un alto grado di imparzialità.
La regula juris è dettata dall’art. 111, comma 2 della Costituzione, secondo cui «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale».
Ancora, il d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109, all’art. 1, codifica il principio di imparzialità quale essenziale punto di partenza per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, affermando che il magistrato «esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità».
Il principio dell’imparzialità, poi, è stato inserito anche nel codice etico dell’Associazione nazionale magistrati (approvato il 13 novembre 2010): una importante petizione di principio che, all’art. 9, onera il magistrato di una condotta leale, scevra da pregiudizi, così da rendere effettivo il valore dell’imparzialità:
«Il magistrato rispetta la dignità di ogni persona, senza discriminazioni e pregiudizi di sesso, di cultura, di ideologia, di razza, di religione. Nell’esercizio delle funzioni opera per rendere effettivo il valore dell’imparzialità, agendo con lealtà e impegnandosi a superare i pregiudizi culturali che possono incidere sulla comprensione e valutazione dei fatti e sull’interpretazione ed applicazione delle norme. Assicura inoltre che nell’esercizio delle funzioni la sua immagine di imparzialità sia sempre pienamente garantita. A tal fine valuta con il massimo rigore la ricorrenza di situazioni di possibile astensione per gravi ragioni di opportunità».
Le sezioni unite della Corte di cassazione, in più occasioni, hanno evidenziato l’importanza del binomio essere imparziale/apparire imparziale e la stessa Corte costituzionale ha valorizzato, come fossero un solo corpo, i principi di indipendenza e di imparzialità che caratterizzano «la figura del magistrato in ogni aspetto della sua vita pubblica»[4].
È dunque evidente che l’imparzialità, oltre a costituire l’abito del magistrato (l’apparenza), deve rappresentare anche uno degli obiettivi primari del suo agire interiore (l’essere).
La nozione teorica dell’imparzialità è dunque facilmente estraibile dalle norme, dal codice deontologico e dalla giurisprudenza che, da sempre, accosta il dovere di imparzialità al pre-requisito dell’indipendenza.
La pratica rende il compito certamente più arduo perché in una società dove, rispetto al passato, prevale l’esternazione social occorre una buona dose di allenamento per essere e per apparire imparziali.
L’esercizio dell’imparzialità diviene fondamentale (ci si allena all’imparzialità, non si nasce imparziali) così come sono essenziali gli esempi di magistrati che hanno saputo rendere una preziosa testimonianza del loro essere imparziali.
Mi vengono in mente i molti magistrati che, pur di «non piegare la legge alle proprie convinzioni o ad estranee influenze», come diceva il giudice Livatino, hanno pagato a caro prezzo, sino al sacrificio della vita, la loro imparzialità e la loro indipendenza.
E così, la teorica dell’imparzialità passa dai codici alla pratica della vita vissuta e l’esempio di chi ci ha preceduto diventa una preziosa lezione di vita.
Guardando agli esempi, riesco a dare un volto all’imparzialità, a renderla concreta nella sua consistenza e a considerarla non solo un obiettivo raggiungibile, ma un requisito essenziale nella vita professionale del magistrato.
Con gli anni, si è radicata in me la convinzione che quella dell’imparzialità non è una strada priva di tracciato, ma un percorso costruito da molti tasselli, tutti intrecciati tra loro: la costituzione e le leggi rappresentano l’ossatura; le testimonianze di vita di chi mi ha preceduto rappresentano l’esempio da seguire (il volto concreto dell’imparzialità); la capacità di interpretare le norme e la realtà nella quale le stesse norme si inseriscono rappresenta un prezioso attributo del percorso logico correlato alla valutazione dei casi da esaminare.
Quest’ultima (la capacità interpretativa) non può essere svincolata dai canoni normativi ma, al tempo stesso, non deve fare a meno di un’adeguata ponderazione rispetto alle esigenze del caso concreto, facendo così un corretto uso dei criteri di interpretazione che la stessa legge ci indica.
Il percorso umano e professionale, poi, mi ha dimostrato che l’imparzialità non può e non deve essere confusa con il dogma dell’oggettività e del formalismo giuridico portati alle estreme conseguenze.
Spesso mi sono interrogata, e continuo a interrogarmi, sul ruolo delle emozioni e sul reale significato (anche umano) dell’imparzialità.
Essere imparziali significa non provare alcuna emozione nel giudizio?
Se così fosse, allora l’imparzialità diventerebbe davvero un obiettivo non facilmente raggiungibile per gli essere umani. L’emotività è stata spesso abbinata alla soggettività di chi giudica e dunque è stata considerata impropriamente come un elemento che compromette gravemente la logicità del ragionamento giuridico.
Ma si può davvero sostenere che l’emotività sia nemica della ragione e, ancor prima, nemica del diritto?
Il magistrato, nella valutazione dei casi sottoposti al suo esame, deve realizzare una sorta di operazione algoritmica meccanica e inumana mediante un rigoroso sillogismo che conduce dal fatto alla norma senza tentennamenti ed esitazioni?
Gli interrogativi sul dovere di imparzialità si moltiplicano quando, dai manuali, si passa alla vita vissuta e alla pratica costante del diritto; ci si chiede se sia giusto considerare il magistrato (imparziale) come un essere privo di emozioni, distaccato dal reale e persino privo della capacità di interloquire nella società attraverso le proprie convinzioni ideali.
Penso sia evidente che l’essere umano, anche nel meccanismo decisionale, non possa e non debba liberarsi da sé ma, al contrario, ha bisogno della propria ricca umanità per esprimere un giudizio che non sia il risultato freddo di ragionamenti ingabbiati nella dimensione post-umana della macchina.
3. Il bio-diritto e l’imparzialità
Un tema che mi ha sempre affascinata e con il quale è molto interessante confrontare l’imparzialità del magistrato è quello del bio-diritto. Questo settore attinge la casistica direttamente dalla bio-etica e rappresenta il crocevia di approcci interdisciplinari (etici, scientifici, filosofici e giuridici), coinvolgendo la persona nelle varie fasi della vita: dalla nascita alla morte.
Si tratta di un settore che, più di altri, esalta la conflittualità del pensiero perché chiama in campo la dimensione antropologica.
Il dibattito pubblico su questi temi non è mai neutrale perché entrano in gioco le diverse posizioni etiche di riferimento.
Lo scontro, talvolta anche molto acceso, si verifica principalmente tra la concezione etica cd. personalista, che trae le sue origini nella filosofia tomistica e che esprime profonda attenzione per la vita considerata come valore in sé e su cui fondare la dignità della persona, e la diversa impostazione che fa leva sul tipo qualitativo di esistenza, nella quale la misura del valore della vita è data dalla sua capacità di esprimere una condizione dignitosa per chi la vive.
La prospettiva personalistica si incentra sulla tesi della dignità (intrinseca) di ogni persona umana in ogni istante della vita, dal concepimento alla morte naturale.
In particolare, dal personalismo ontologico (che rimarca il valore oggettivo di ogni persona, quale unità inscindibile di corpo e spirito, unica e indisponibile, dotata di una dignità intrinseca, propria della natura umana) derivano il principio della difesa della vita fisica, in quanto intangibile e indisponibile; il principio terapeutico, per il quale ogni intervento sulla persona si giustifica solo se ha il fine di guarire o curare il soggetto malato; il principio di libertà e di responsabilità, secondo il quale la libertà personale incontra un limite oggettivo nel rispetto della vita e della libertà dell’altro; il principio di socialità e sussidiarietà, che si propone il raggiungimento del bene comune attraverso il bene del singolo e la solidarietà verso chi ha più bisogno.
L’“etica della qualità della vita”, al contrario, non stabilisce a priori quale sia il criterio qualitativo di una buona vita, ma lo considera invece nella dimensione personale e concreta del singolo.
Secondo tale concezione, non è possibile imporre al singolo una visione del mondo preordinata in nome della sacralità della vita, cosicché solo il diretto interessato, in relazione alla propria condizione esistenziale, può giudicare il grado di qualità della sua esistenza, risolvendosi la dignità stessa in null’altro se non nella possibilità personale di scegliere in autonomia[5].
Una simile impostazione, oltre ad essere criticata dal pensiero cattolico per una apertura indiscriminata all’individualismo ed al relativismo, è fonte di alcune critiche che utilizzano l’argomento del “pendio scivoloso”[6].
È evidente che in tali ambiti, contrapposti tra loro, non esistono motivazioni giuridiche completamente sganciate da un sottofondo (etico) di riferimento, né la partenza da una prospettiva cd. “laica” assicura la trattazione neutrale e asettica del tema.
Il tema è complesso e stimola riflessioni sull’imparzialità e sull’esercizio della politica delle idee da parte del magistrato.
Si pensi, ad esempio, al tema del fine vita, dove la questione bioetica rimane sempre al centro, protagonista assoluta del dibattito, e le regole giuridiche subiscono una diretta influenza dal profilo etico che dibatte e si interroga sull’accettazione o meno di un fenomeno in cui la morte sia procurata e non evitata.
Il punto di partenza non è univoco, poiché dalle diverse concezioni sulla vita e sulla morte deriva la differenza delle soluzioni, anche quella giuridica, sui casi di fine vita.
In questo ambito, si può distinguere il fronte di chi nega la legittimità degli interventi di interruzione volontaria della propria vita da quello che, invece, rimarca l’esistenza di un diritto dell’individuo, inteso in senso giuridico, nelle diverse forme dell’eutanasia o del rifiuto di cure.
Senza voler entrare nella complessità del dibattito etico e sociale, è evidente che non si può negare al magistrato, al pari degli altri consociati, la libertà delle idee e la possibilità di partecipare al dibattito pubblico che si svolge sui temi etici, anche se – giova rimarcarlo – su questi temi il dibattito non è mai connotato da neutralità perché nessuna opzione etica di partenza è imparziale ma, al contrario, si basa su idee ben strutturate e collegate a concezioni filosofiche di fondo.
Allora è lecito chiedersi se, in questo ambito, l’imparzialità sia un obiettivo raggiungibile. Fino a che punto è possibile intervenire nel dibattito politico in corso e non compromettere la propria capacità di trattare le questioni specifiche?
L’imparzialità, ne sono convinta, è un obiettivo raggiungibile in ogni ambito del diritto (anche nei settori di maggiore conflittualità etico-sociale) e non può essere confusa con l’impossibilità per il magistrato di esternare quella che viene definita la “politica delle idee”: non si può privilegiare il modello di un magistrato muto, una sorta di giudice in panchina, che consapevolmente debba rinunciare a fornire il proprio contributo di idee alla società.
Un giudice che sia completamente estraneo ai temi dibattuti nella società non risponde al modello costituzionale e non incarna nemmeno un modello auspicabile, perché senza passione civica, prima ancora che buoni giudici, non si ha nemmeno titolo per essere inseriti nella vita sociale e per essere definiti buoni cittadini.
Occorre, però, una particolare misura, una buona dose di equilibrio e tanta capacità di saper cogliere tutte le sfumature: se è consentita una partecipazione del magistrato nell’ambito del dibattito pubblico, con serietà e con la cognizione attenta delle problematiche trattate, altrettanto non è consentito nell’ambito del giudizio dove, fatta salva la capacità di interpretazione sistematica, il limite è pur sempre costituito dalla necessità di non adottare decisioni che vadano palesemente contro la legge o la creino volutamente e arbitrariamente, in assenza di punti certi di riferimento normativo, così sconfinando nell’esercizio della volontà di determinazione politica in ambito giudiziario.
4. Imparzialità nei giudizi riguardanti altri magistrati
Un altro tema che mi ha sempre incuriosita, non fosse altro che per scandagliarne gli importanti profili psicologici, è quello dell’imparzialità del magistrato quando si trova a dover maneggiare i giudizi riguardanti altri magistrati.
A molti di noi è capitato di sperimentare il funzionamento della giustizia dall’angolo visuale dell’utente e, talvolta, è capitato di imbattersi in magistrati che, per apparire imparziali, sconfinano nell’eccesso opposto.
Si tratta di un eccesso di imparzialità che, per un sottile meccanismo psicologico, sconfina nella tendenza ad assumere un atteggiamento ben più rigoroso nei confronti del magistrato che chiede giustizia, tanto da lambire una sorta di parzialità contro il povero malcapitato.
«Allora insensibilmente, e senza avvedersene, chi dee esser giudice, comincia a diventar avvocato dell’altra parte. Allora anche le ragioni deboli prendono aria di vigorose in un intelletto, che a cagione della mal conosciuta passione non si trova nell’equilibrio, in chi dovrebbe essere. Anzi va egli cercando nel magazzino del suo sapere altre ragioni, altri amminicoli, per poter pure con bastevole fondamento determinarsi per quella parte».
L’argomento esula dalla teorica dei manuali, si accosta alla psicologia e allo studio dei bias, ma non merita affatto di essere trascurato perché la riflessione sulla imparzialità, come prerogativa indispensabile dell’agire del magistrato, si nutre anche delle imperfezioni umane che vanno colte e meditate per poterle correggere.
Nessuno di noi ha frequentato una scuola di imparzialità e a mio avviso non è sconveniente parlare dei meccanismi psicologici che, talora, possono innestarsi sul tema dell’imparzialità. Spesso, con l’intento di apparire troppo imparziali, si finisce, per un singolare meccanismo psicologico, relegati in una sorta di baldanzosa indipendenza che diviene perniciosa per il giudizio e, prima ancora, per la serenità di chi è chiamato a rendere giustizia.
Ecco allora che, per apprendere l’imparzialità, occorre passare dalla teorica dei manuali alla vita vissuta e far tesoro degli esempi di chi ci ha preceduto, mostrandoci la via di un equilibrio consapevole e maturo che deve essere costruito, giorno dopo giorno, nel percorso umano e professionale.
L’ascolto, declinato nella regola del contraddittorio, diviene antidoto alla baldanzosa indipendenza, costituisce una prerogativa di imparzialità, e mette in fuga le paure, anche quelle legate alla difficoltà di gestire i procedimenti che riguardano altri magistrati.
In questo contesto, non mi sembra superfluo richiamare (anche a me stessa) la preziosa regola dell’ascolto perché costituisce una garanzia di equilibrio:
«Il giudice (…) nell’esercizio delle sue funzioni ascolta le altrui opinioni, in modo da sottoporre a continua verifica le proprie convinzioni e da trarre dalla dialettica occasioni di arricchimento professionale e personale» (art. 12 codice etico dell’Amn).
Di ascolto e di studio si nutre l’imparzialità, la quale, a sua volta, diviene una inscindibile alleata dell’indipendenza e così il magistrato può affrontare le sfide più impegnative senza il timore di diventare una macchina fredda e senza colorazioni umane.
5. Uno sguardo al futuro: l’IA decisionale e l’imparzialità
Quale sarà giustizia del futuro?
Le nuove realtà di intelligenza artificiale (IA) saranno in grado di consentire la realizzazione della perfetta imparzialità e la realizzazione di un diritto finalmente calcolabile e computabile?
E il giudice?
Impostato così, il tema assume dei contorni inquietanti perché i tribunali “on line” evocano un mondo disumanizzato, nel quale persino il delinquente più incallito si smarrisce perché ha la necessità di incarnare il suo giudice in un volto da scrutare e in uno sguardo da incrociare.
E che dire della lite, surrogato psicologico di molte inquietudini del genere umano?
Quante persone sarebbero disposte a rinunciare all’agone della giustizia dei tribunali per affidare la sorte del giudizio a un computer (imparziale?) che non consente scambi verbali, confronti, esternazioni?
Della giustizia, ars boni et aequi, può esistere una versione da tradurre in equazioni logiche?
Non si può che partire da una serie di domande che si affastellano, una dopo l’altra, in una sequenza ritmica, per riflettere su un tema nuovo, di fondamentale importanza per il genere umano: fare a meno di un volto e di un’anima che possa dare contenuto vitale ai principi giuridici per la realizzazione della perfetta neutralità (attributo che maggiormente si addice alla macchina).
Nel mondo del diritto già si ragiona sulla possibilità che la (oramai) tradizionale informatica giuridica possa evolversi con il passaggio da uno stadio meccanico-funzionale a uno evolutivo-creativo, affidando la decisione a un sistema di intelligenza artificiale: da qui prende le mosse quello che idealmente può essere raffigurato come un “corpo a corpo” tra la tecnologia e l’umanità.
Nel 1666, Gottfried Wilhelm Leibniz, nella «Dissertatio de arte combinatoria», ebbe a dire: «Le parti un giorno, di fronte ad una disputa, potranno sedersi e procedere ad un calcolo».
Leibniz rievoca il momento iniziale del proprio pensiero filosofico, quando gli studi di matematica lo avevano spinto alla ricerca di una lingua come “caratteristica universale” del pensiero umano, cioè di un metodo e di una scienza in grado di operare un calcolo logico di tutti i pensieri e di trasporli in equazioni logiche.
Il filosofo individua nell’arte combinatoria lo strumento per costruire il calcolo dei pensieri: i pensieri degli uomini sono costruiti su idee semplici, le quali, come le lettere dell’alfabeto e i numeri primi, possono essere abilmente combinate tra loro secondo regole determinate.
Tali pensieri filosofici troveranno sfogo nell’opera, scritta intorno al 1690, dal titolo «Della sintesi e dell’analisi universale», nella quale l’interrogativo è il seguente:
«quando, ragazzo, imparavo la logica, e solevo, già allora, andare un po’ più a fondo nelle ragioni di quanto mi si insegnava, obiettavo ai maestri: perché come vi sono categorie dei termini non complessi, con cui si ordinano le nozioni, non si fanno categorie dei termini complessi, con le quali ordinare le verità?».
Leibniz, a ben leggere i suoi scritti, faceva riferimento a un calcolo derivante dalla combinazione di concetti ordinati in sequenza logica («potranno sedersi e procedere ad un calcolo») con una serie di categorie di termini complessi con cui ordinare verità, vale a dire utilizzando il sistema della logica sequenziale o combinatoria del ragionamento.
Il mondo del diritto può essere ordinato razionalmente (e per procedimenti sequenziali) con un’abile combinazione del sistema normativo da adattare alla fattispecie?
La risposta non può che essere positiva, perché il giudizio non sfugge alla logica razionale: è necessaria un’accurata ricostruzione delle norme e una combinazione tra le norme e il fatto da cui origina il giudizio.
Un accostamento apparentemente semplice, ma che risente di un procedimento logico intriso di numerose variabili.
Innanzitutto, è necessario effettuare un’accurata e fedele ricostruzione del fatto; curare la ricostruzione del panorama normativo applicabile al fatto; selezionare l’opzione interpretativa che maggiormente si confà al fatto e valutare se vi siano elementi di giudizio peculiari quali l’analogia, l’applicabilità di clausole generali da riempire di contenuti in relazione al giudizio di fatto, l’esistenza di precedenti e il grado della loro resistenza nel tempo.
Questo intrecciarsi di procedimenti logici è tipico del giudizio umano, dove la facoltà cognitiva è intrisa di razionalità e di umanità; si tratta di elementi tipici del giudizio, che non appaiono facilmente scindibili se non al prezzo di privare il giudizio o dell’uno o dell’altro elemento.
Il giudice-robot deciderebbe secondo un procedimento sequenziale e algoritmico che, impostato in un certo modo, si rinnoverebbe solo al suo interno con adattamenti auto-generatisi dall’automaticità sistematica della macchina, portando con sé i pregiudizi (bias) di coloro che hanno avviato il meccanismo.
L’intelligenza artificiale, infatti, “impara” e al contempo genera le inferenze che ampliano le impostazioni originarie: un’autonomia decisionale che si evolve come auto-apprendimento dal sistema originariamente impostato.
Questo meccanismo di IA generativa in ambito decisionale garantirebbe una maggiore imparzialità?
Nell’affrontare questo tema di sempre maggiore attualità – come sempre accade al genere umano nei ragionamenti legati alle questioni che lo riguardano – occorre dotarsi di una buona dose di saggezza, di razionalità e di equilibrio, doti tutte umane, poiché se non è concepibile una chiusura assoluta a forme di ausilio tecnologico alla giustizia, non è altrettanto concepibile un’apertura indiscriminata a forme di giustizia che affidino il loro responso a una macchina.
Papa Francesco, nel «Messaggio per la Giornata mondiale della pace» del 2024, ha approfondito il tema dell’IA, invitando alla riflessione su quali possano essere le condizioni affinché si faccia un uso responsabile delle nuove tecnologie al servizio della pace e della fraternità[7].
Il Messaggio evidenzia che «le forme di intelligenza artificiale sembrano in grado di influenzare le decisioni degli individui attraverso opzioni predeterminate associate a stimoli e dissuasioni, oppure mediante sistemi di regolazione delle scelte personali basate sull’organizzazione delle informazioni» (ivi, p. 5).
L’IA rischia di divenire uno strumento nel quale i pregiudizi siano insiti nel sistema del nuovo paradigma tecnocratico e la promessa di autonomia e di libertà di queste nuove forme di progresso rischia di alimentare il germe dell’imparzialità e di essere assai limitata rispetto alle aspettative.
Sradicare i pregiudizi dal sistema, poi, diventerebbe operazione ardua perché i programmi di IA portano con sé una doppia categoria di pregiudizi: i pregiudizi di chi li ha programmati e i pregiudizi degli esseri umani con i quali interagiscono.
Esemplare è il caso Loomis.
Eric Loomis, cittadino statunitense, fu arrestato per due reati che in Italia potremmo rubricare come ricettazione di un’automobile e resistenza a pubblico ufficiale. Fu condannato, nell’ormai lontano 2013, alla pena di sei anni di reclusione sulla base di un alto punteggio (score) risultante a suo carico da “Correctional Offender Management Profiling for Alternative Sanctions” (COMPAS: un algoritmo predittivo di valutazione del rischio di recidiva).
La Corte suprema del Wisconsin, nel pronunciarsi sul ricorso di Loomis, dichiarava all’unanimità la legittimità dell’uso giudiziario degli algoritmi che misurano il rischio di recidiva, avendo solo cura di specificare che lo strumento non può essere l’unico elemento su cui si fonda la pronuncia di condanna.
Negli Stati Uniti, nel settore penale, gli algoritmi predittivi sono utilizzati per stabilire il rischio di recidiva nella fase preliminare al giudizio per la determinazione della cauzione, nella fase decisionale per la valutazione della possibile eventuale definizione del giudizio di probation (una specie di messa alla prova) e nella fase esecutiva per la valutazione della concessione della parole (una sorta di liberazione condizionale). Il dibattito sull’utilizzazione di questi strumenti è ancora vivo e non manca chi esalta il sistema delle piattaforme predittive, assicurando che gli strumenti informatici di valutazione del rischio possono frenare il razzismo e la discriminazione.
Certo, per il Loomis la piattaforma predittiva si rivelò un giudice non imparziale, dal momento che gli venne attribuito il punteggio più alto.
Il giudice del caso Loomis, tale Scott L. Horne, in corsa per essere rieletto, volle mettersi al riparo da errori di giudizio. Per questo decise che la relazione sul rischio di recidiva fosse accompagnata da un report predisposto dal software COMPAS[8].
Il giudice, acquisito il report di COMPAS[9], si rivolse a Loomis informandolo del responso dell’algoritmo: «Lei è stato identificato attraverso il COMPAS assessment come un individuo che rappresenta un alto rischio per la società».
Fu così che Loomis subì una condanna esemplare, e non solo per ciò che aveva commesso, ma anche per i reati che avrebbe potuto commettere in futuro.
Fu una decisione imparziale? Nel 2016, un’accurata indagine svolta da una società americana mise in luce il pregiudizio del sistema nei confronti delle persone facenti parte della comunità afroamericana. L’analisi evidenziò come l’algoritmo stimava il “rischio di recidiva” in modo assai più alto per la popolazione di colore laddove, al contrario, l’indice era stimato al ribasso per gli imputati bianchi.
In conclusione, sono certa che l’imparzialità umana – per quanto fallace – costituisce una ineliminabile garanzia del processo.
L’imparzialità, e con questa l’indipendenza, meritano dunque di essere preservate con cura proprio dagli stessi magistrati, i quali non possono affatto rinunciare al compito di dimostrare – attraverso la competenza, la professionalità e l’umanità – che il giudizio è e deve essere imparziale e che il giudizio non può prescindere dal carattere ontologicamente etico e responsabile della decisione umana.
6. Episodi di vita vissuta
La mia personale concezione dell’imparzialità non esclude l’umanità, ma – anzi – la ingloba nello stile di vita professionale.
Ho avuto il privilegio di apprendere da magistrati a me molto cari che l’imparzialità non deve mai oscurare il lato umano, perché solo tenendo attive le corde dell’anima si può valutare il caso dell’altro con competenza, con sensibilità e anche con il giusto distacco.
Sembra un controsenso ma non lo è: l’imparzialità e l’umanità devono procedere di pari passo, senza l’umanità l’imparzialità è ben poca cosa, diventa una sterile neutralità e tanto vale affidare alla macchina il compito di giudicare o di imbastire una requisitoria perché, senz’anima, tutto diviene scolorito e non più a misura d’uomo.
Nel lontano 1991, il presidente della commissione concorsuale mi rivolse un insegnamento che ancora custodisco gelosamente.
Era appena uscito nelle sale cinematografiche un bellissimo film drammatico dal titolo «Un medico, un uomo». Il film racconta la storia professionale e umana di un giovane chirurgo di grande notorietà. Jack McKee, medico brillante e al tempo stesso spregiudicato, tratta i pazienti con baldanzosa arroganza, non risparmiando loro battute di inusitato sarcasmo, ma ben presto si ammala di un cancro alla gola e la prospettiva cambia di colpo; muta la scena di vita e Jack prende cognizione delle proprie fragilità esistenziali e si trova a dover fare i conti con una professionalità costruita su presupposti fallaci e non adeguati per l’importante ruolo che svolge. Il medico, nel giro di un attimo, sperimenta il faticoso ruolo del paziente e, a sua volta, si trova a dover subire l’arroganza e la supponenza degli altri medici, scivolando dolorosamente nel tunnel della malattia che, però, gli consente di scoprire i valori umani e la solidarietà; ben presto conosce la giovane June Ellis, che, non avendo potuto effettuare un esame molto costoso, lotta contro un tumore cerebrale diagnosticato in ritardo. Questo drastico cambio di prospettiva consente a Jack McKee di sperimentare un altro punto di vista, di guardare tutto da un’altra dimensione e di comprendere come agire nella propria attività di medico: il distacco emotivo dai casi umani che tratta non può essere tale da rinunciare alla propria umanità, ed è questa la magnifica ricchezza di noi esseri umani.
Il film è molto bello, con un attore del calibro di William Hurt nel ruolo di Jack. L’insegnamento che se ne può trarre è prezioso anche per noi magistrati e dovrebbe costituire la base per costruire ogni tipo di professionalità ma, in specie, quelle professionalità che vedono l’uomo come protagonista indiscusso a contatto con altri uomini.
L’esempio del film veniva proposto, all’indomani del concorso, come monito per non dimenticare che un ruolo importante, quale quello del magistrato, non deve stimolare l’onnipotenza, ma deve essere sempre svolto con grande umanità e umiltà: le uniche vere basi su cui innestare l’imparzialità e l’indipendenza.
Sono notazioni che forse potranno apparire poco tecniche, ma sono convinta che il tecnicismo dell’imparzialità sia importante ma non del tutto adeguato a contenere un concetto così ampio (quello dell’imparzialità del giudice), dai contorni spesso sfumati e contaminati da profili filosofici, psicologici e anche storici.
Per questo le esperienze di vita contano.
7. Conclusioni
Il lavoro del magistrato, in conclusione, può e deve essere svolto dimostrando sul campo che non bisogna cedere allo scetticismo sulla reale possibilità di interpretare una ricostruzione dei fatti che sia oggettiva e univoca.
L’essere imparziali, oltre che l’apparire tali, richiede un grande cammino umano e professionale.
Questo obiettivo (quello dell’imparzialità), però, non deve portare ad assimilare il giudice a un automa (una macchina senz’anima) perché l’umanità è la base su cui poggia la vera imparzialità, lo studio diviene il vero banco di prova di imparzialità e indipendenza, e l’esempio di chi ci ha preceduto un’importante scuola di apprendimento da non dimenticare.
In questo cammino rileva anche il dialogo tra le diverse esperienze professionali: la continuità professionale tra la magistratura giudicante e quella requirente non impoverisce l’imparzialità, ma la rafforza perché delinea un tratto comune, in conformità ai valori costituzionali, dell’intero ordine giudiziario.
Un cammino non facile, anche tortuoso, quello dell’imparzialità come pre-requisito fondamentale dell’essere magistrato, ma non per questo impossibile: il percorso deve essere accompagnato dalla costante consapevolezza di poter sbagliare, come accade a tutti gli esseri umani, e dalla certezza di poter trarre dagli errori gli stimoli per crescere nella professionalità.
Ecco, allora, che torna utile la riflessione sulla imparzialità come approfondimento pensato, come esplorazione in profondità della casistica, come giudizio che non deve arrestarsi alla parte superficiale e preconcetta, come un esercizio consapevole del proprio raziocinio, della propria coscienza, per analizzare il caso dell’altro con la competenza e con la consapevolezza di averlo esplorato in tutte le dimensioni.
In conclusione, ritengo che la magistratura debba sempre lottare per la propria imparzialità e per la propria indipendenza senza perdere il prezioso volto umano della riflessione giuridica e senza cedere al fascino dei giudizi meccanizzati, che scoloriscono il volto di chi è chiamato a rendere giustizia sino a renderlo volto anonimo e pericolosamente imperscrutabile.
1. L.A. Muratori, Dei difetti della giurisprudenza, presso G. Pasquali, Venezia, 1742 (I ed.), cap. XII («Dell’indifferenza richiesta ne’ giudici», pp. 90 ss.); vds. altresì il cap. VII («De i Giudici, e de i lor difetti», pp. 49 ss.).
2. F. De Franchis, Dizionario giuridico Inglese-Italiano, Giuffrè, Milano, 1984, p. 385 (voce: “Bias”, “pregiudizio”).
3. L.A. Muratori, Dei difetti, op. cit., cap. XII.
4. Corte cost., 20 luglio 2018, n. 170.
5. G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in AIC, 14 marzo 2008: «La dignità della persona deve sempre riferirsi alla persona umana concreta, quale essa è e non quale dovrebbe essere secondo punti di vista religiosi, filosofici o ideologici» (www.associazionedeicostituzionalisti.it/old_sites/sito_AIC_2003-2010/dottrina/libertadiritti/silvestri.html).
6. P. Veronesi, Il corpo e la Costituzione. Concretezza dei “casi” e astrattezza della norma, Giuffrè, Milano, 2007, p. 283.
7. G. Riggio, L’intelligenza artificiale: una risorsa al servizio della libertà e della pace?, in Aggiornamenti sociali, gennaio 2024, pp. 3-6 (Editoriale – www.aggiornamentisociali.it/articoli/lintelligenza-artificiale-una-risorsa-al-servizio-della-liberta-e-della-pace/).
8. G. Scorza, Processi al futuro. Quando la tecnologia ha incrociato il diritto, Egea, Milano, 2020, dove si analizza a fondo il caso Loomis e si afferma che COMPAS è progettato, sviluppato e gestito dalla Northpointe Inc. oggi Equivant, una società privata con sede nella Suite 101, a Canton, in Ohio. Il nuovo sito della Equivant è interamente dedicato a software e sistemi di IA dedicati al pianeta giustizia e il payoff che campeggia in home page chiarisce le ambizioni della società: «Tu prendi decisioni che contano. Noi realizziamo software per supportarle». Ancora, nel sito, si legge: «Costruiamo il supporto decisionale in tutto ciò che facciamo perché ha senso. I nostri strumenti sono utilizzati a livello nazionale per prendere decisioni basate su prove, contribuendo a rimuovere i pregiudizi, fornendo ai professionisti della giustizia la ricerca e la motivazione di cui hanno bisogno per prendere decisioni informate e difendibili» (c.vo aggiunto).
9. Da G. Scorza, op. ult. cit., testualmente:
«Il report elaborato da COMPAS nel caso di Loomis occupa un paio di fogli: una manciata di caratteri, qualche grafico a torta colorato, di quelli che generalmente popolano le analisi di mercato, e poi tre “barre” – anch’esse in perfetto stile business – con un punteggio da uno a dieci per sintetizzare tre giudizi sul rischio che l’imputato torni a commettere reati prima della sentenza definitiva, torni a commettere reati dopo la sentenza e torni a usare la violenza. E le tre barre, nel caso di Eric L. Loomis, sono colorate fino al numero dieci, ovvero rischio elevato in relazione a tutti e tre i fattori».