Magistratura democratica

L’imparzialità dei magistrati come principio etico. Riflessioni per un dibattito aperto

di Antonella Di Florio

Il contributo esamina alcuni aspetti dell’imparzialità dei magistrati – anche attraverso un’analisi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità che si è sinora formata – e costituisce un invito alla riflessione concreta su tale valore, strettamente connesso con quello dell’indipendenza, al fine di sollecitare la formazione di un’etica condivisa fra tutti i protagonisti del servizio giustizia.

1. Premessa / 2. L’imparzialità / 3. La contiguità fra l’imparzialità e l’indipendenza / 4. La neutralità politica e la neutralità culturale. La giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione / 5. La vita privata del magistrato e la sua immagine di imparzialità / 6. L’importanza della formazione professionale. L’imparzialità come dovere di tutti i giudici europei / 7. Conclusioni: un dibattito auspicabile

 

1. Premessa

La rilevanza dell’“etica” nella professione del giudice è un argomento che ritorna spesso al centro del dibattito sui temi della giurisdizione.

La questione – che appare astratta, “meramente” culturale e di prevalente valenza filosofica – ha assunto invece, nel corso degli anni, grande rilevanza concreta per le gravi ricadute che alcune condotte deprecabili hanno determinato sull’immagine dell’intera magistratura.

Che cos’è l’etica nella professione del giudice? E, soprattutto, come deve essere declinata?

Il problema è stato affrontato specificamente, a seguito di accesi dibattiti svoltisi all’interno e all’esterno della categoria, quando sono stati approvati il d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109 (che ha tipizzato gli illeciti disciplinari) e il nuovo codice etico dell’Anm del 2010, che descrivono entrambi, sia pure con effetti diversi, i tratti salienti che devono caratterizzare il comportamento del magistrato, sia nell’esercizio delle sue funzioni sia al di fuori di esse, e che dovrebbero far parte del patrimonio di conoscenze di ciascuno[1].

Il codice etico dell’Anm, introdotto per la prima volta nel 1994 (vds. anche la relativa delibera del Csm)[2], è stato successivamente integrato con regole più dettagliate nel 2010[3]: si tratta di disposizioni di soft law che, pertanto, assumono un valore del tutto differente da quello, normativamente cogente, del codice disciplinare[4], ma che disegnano i principi autonomamente adottati, a seguito di ampia riflessione, dalla comunità magistratuale per fissare i limiti di condotta entro i quali deve essere svolta l’attività professionale ed extraprofessionale di tutti i giudici iscritti all’Associazione nazionale magistrati.

 

2. L’imparzialità

Un valore etico fondamentale è rappresentato dall’ “imparzialità”.

Il principio – che contiene un espresso fondamento nell’art. 111, comma 2, Cost., a mente del quale «ogni processo si svolge nel contraddittorio fra le parti, in condizioni di parità e davanti ad un giudice terzo ed imparziale» – trova la sua regolamentazione in ambito disciplinare giudiziario e paradisciplinare associativo.

Infatti, oltre al richiamo contenuto nell’art. 1 d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109, fra i doveri dei magistrati[5], il valore dell’imparzialità è richiamato, nel «Codice etico» dell’Anm, nelle seguenti disposizioni:

- nell’art. 1, che prevede che «nello svolgimento delle sue funzioni, nell’esercizio di attività di autogoverno ed in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza, anche interna, e di imparzialità»;

- nell’art. 8, che prevede che «il magistrato garantisce e difende, all’esterno ed all’interno dell’ordine giudiziario, l’indipendente esercizio delle proprie funzioni e mantiene un’immagine di imparzialità ed indipendenza»; e che «il magistrato continua ad operare con spirito di indipendenza ed imparzialità nello svolgimento di funzioni amministrative»;

- nell’art. 9, che prevede che «nell’esercizio delle sue funzioni il magistrato opera per rendere effettivo il valore dell’imparzialità, agendo con lealtà ed impegnandosi a superare i pregiudizi culturali che possono incidere sulla comprensione e valutazione dei fatti e sull’interpretazione ed applicazione delle norme»; e che «il magistrato assicura, inoltre, che nell’esercizio delle funzioni la sua immagine di imparzialità sia sempre pienamente garantita. A tal fine, valuta con il massimo rigore la ricorrenza di situazioni di possibile astensione per gravi ragioni di opportunità».

Attraverso il codice etico (soprattutto, attraverso la più recente versione di esso), dunque, l’imparzialità – al di là delle contigue fattispecie disciplinari giudiziarie – assume sembianze concrete, in quanto viene declinata con riferimento sia alle condotte poste in essere nel quotidiano esercizio della giurisdizione, sia al di fuori di essa, e con uno stretto collegamento al valore dell’indipendenza: entrambe (imparzialità e indipendenza) rappresentano principi cardine per ottenere la fiducia dei cittadini nell’istituzione giudiziaria e per difenderla, in tal modo, da eventuali improprie “incursioni” degli altri poteri dello Stato.

 

3. La contiguità fra l’imparzialità e l’indipendenza

Il codice etico richiama costantemente il valore dell’imparzialità, in stretto collegamento con quello dell’indipendenza.

Come ha affermato la Corte costituzionale, «il principio dell’indipendenza, enunciato dell’art. 101 Cost., comma 2 (…) esprime l’esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l’indicazione delle regole da applicare nel giudizio e che nessun’altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto. Sarebbe perciò certamente illegittima una legge la quale condizionasse inderogabilmente la pronuncia del giudice a una scelta o anche soltanto ad un accertamento compiuto, pel caso singolo, in veste autoritativa da un organo non giurisdizionale (v. sentenza n. 70 del 1961)» (Corte cost., 13 maggio 1964, n. 40)[6]

La terzietà del magistrato nel momento del giudizio e, quindi, il trattamento paritetico da riservare alle parti contendenti (nel giudizio civile ) e all’accusa e alla difesa (nel processo penale) è strettamente connessa all’assenza di condizionamenti mentali che possano indurre il giudicante a deviazioni del percorso logico decisionale, la più grave delle quali è rappresentata da pressioni esterne.

Nell’ambito di una completa riflessione sul valore etico dell’imparzialità è indispensabile, quindi, esaminare la rilevanza dei due valori in modo speculare.

Da una parte, infatti, è necessario interrogarsi sulla consapevolezza che di essa hanno i magistrati e sulle modalità con la quale la “vivono” nell’esercizio quotidiano della giurisdizione; inoltre, sulla possibilità che in qualche caso possano essere condizionati, sia pur inconsapevolmente, da pressioni esterne o da esperienze personali vissute. 

Dall’altra, è indispensabile riflettere sulla percezione che di tale valore ha il cittadino nel momento in cui si trova, per qualsiasi ragione, a essere parte di un processo (sia civile che penale); e, al di fuori di tali momenti (che possono essere eventuali), sugli aspetti che i cittadini percepiscono come rilevanti per ritenere che l’imparzialità sia stata rispettata o violata. 

Il dovere di imparzialità condiziona, infatti, sia il momento più strettamente funzionale che quello extra-funzionale dell’essere magistrato, intrecciandosi con l’esercizio di diritti e libertà fondamentali, di cui anch’egli, così come qualsiasi altro cittadino, è titolare: ciò crea un intreccio di valutazioni alle quali non sempre è semplice dare risposta. 

Essere imparziale vuol dire giudicare il caso sottoposto con obiettività e senza preconcetti, seguendo soltanto la propria coscienza nell’applicazione della norma giuridica; vuol dire non lasciarsi influenzare da simpatie, interessi personali, forze e interessi esterni di qualsiasi genere; vuol dire giudicare senza aspettative di vantaggi e senza timori di pregiudizi (sine spe, sine metu).

 

4. La neutralità politica e la neutralità culturale. La giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione

Il dibattito più recente ha posto al centro della discussione soprattutto l’immagine di imparzialità, e cioè la “neutralità dell’apparenza” come garanzia per chi deve essere giudicato, i cui connotati sono tratteggiati dal codice etico dell’Anm, con specifico riferimento all’ambito funzionale attraverso le norme già richiamate (cfr. supra, par. 2), e dal codice disciplinare in alcune previsioni inerenti agli illeciti extra-disciplinari, previsti dall’art. 3, comma 1, lett. h, d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109[7].

I temi attuali di maggior rilievo sono quelli che riguardano la “neutralità politica del magistrato”, e quelli che attengono alla confinante sfera della “neutralità culturale”.

Sotto il primo profilo (neutralità politica), va tenuto presente che l’art. 3, comma 1, lett. h del decreto n. 109 prevede espressamente, tra gli illeciti disciplinari extra-funzionali, due fattispecie: 1) l’iscrizione a un partito politico; 2) la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici.

Al riguardo, sono intervenute sia la Corte costituzionale sia la Corte di cassazione. 

La prima (20 luglio 2018, n. 170) ha, infatti, dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale – sollevata dalla sez. disciplinare del Consiglio superiore della magistratura in riferimento agli artt. 2, 3, 18, 49 e 98 Cost. – dell’art. 3, comma 1, lett. h, d.lgs n. 109/2006, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 3, lett. d, n. 2 della l. n. 269/2006, ribadendo che la previsione, quale illecito disciplinare, dell’iscrizione o della partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici anche per i magistrati fuori del ruolo organico perché collocati in aspettativa «per motivi elettorali», esprime il bilanciamento – demandato dalla Costituzione al legislatore – tra la libertà dei magistrati di associarsi in partiti e l’esigenza di assicurarne l’indipendenza e l’imparzialità, anche davanti all’opinione pubblica, al fine di impedire i condizionamenti all’attività giudiziaria che potrebbero derivare dal legame stabile che i magistrati contrarrebbero iscrivendosi a un partito o partecipando in misura significativa alla sua attività.

La Corte ha aggiunto che non è irragionevole – tanto più in un contesto normativo che consente ai magistrati di tornare all’esercizio della giurisdizione – mantenere separata la fattispecie disciplinare censurata dall’altra ipotesi, che la legge a determinate condizioni consente, di accesso dei magistrati alle cariche elettive e agli uffici pubblici di natura politica. Il magistrato, come qualunque cittadino, ben può infatti svolgere una campagna elettorale o compiere atti tipici del suo mandato o incarico politico senza necessariamente assumere, al contempo, tutti quei vincoli (a partire dallo stabile schieramento che l’iscrizione testimonia) che normalmente discendono dalla partecipazione organica alla vita di un partito politico. 

La Corte afferma, inoltre, che «in linea generale, se i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino, le funzioni esercitate e la qualifica che rivestono non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale, al fine di stabilire i limiti che possono essere opposti all’esercizio di quei diritti, che sono giustificati sia dalla particolare qualità e delicatezza delle funzioni giudiziarie, sia dai principi costituzionali di indipendenza e imparzialità (artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, e 108, secondo comma, Cost.) che le caratterizzano, e che vanno tutelati non solo con specifico riferimento all’esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche quali criteri ispiratori di regole deontologiche da osservarsi in ogni comportamento di rilievo pubblico, al fine di evitare che i cittadini possano fondatamente dubitare della loro indipendenza ed imparzialità».

In conclusione, la Corte costituzionale, nel ritenere infondata la questione di costituzionalità esaminata, ha colto l’occasione per affermare che il cittadino-magistrato gode certamente dei diritti fondamentali di cui agli artt. 17, 18 e 21 Cost., il cui esercizio gli consente di manifestare legittimamente le proprie idee, anche di natura politica, a condizione però che ciò avvenga con l’equilibrio e la misura che non possono non caratterizzare ogni suo comportamento di rilevanza pubblica. 

La Corte di cassazione (sez. unite, 14 maggio 2020, n. 8906), successivamente intervenuta, ha dato seguito all’interpretazione della Corte costituzionale e ha pronunciato alcuni principi di diritto che si attestano sul medesimo percorso argomentativo, e che vengono di seguito riportati:

1) in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, l’art. 3, comma 1, lett. h, d.lgs n. 109/2006 configura come illecito disciplinare due distinte fattispecie, alternative tra loro, costituite dalla «iscrizione a partiti politici» e dalla «partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici», entrambe lesive dell’immagine pubblica di imparzialità del magistrato e dell’indipendenza e del prestigio dell’ordine giudiziario.

Ai fini della configurabilità dell’illecito disciplinare, mentre la condotta della iscrizione, per la sua valenza di atto formale, che rivela di per sé una stabile e continuativa adesione del magistrato a un determinato partito politico, lo integra indipendentemente dal ricorso di particolari circostanze, la condotta della partecipazione a partiti politici costituisce, invece, illecito solo quando sia qualificabile secondo i parametri di cui alle clausole generali della “sistematicità” e della “continuatività”; con riguardo a tale fattispecie, è pertanto escluso ogni automatismo sanzionatorio, dovendo il Consiglio superiore della magistratura di volta in volta valutare se la partecipazione del magistrato a un partito politico assuma i caratteri richiesti dalla legge;

2) il divieto per i magistrati di iscrizione ai partiti politici, che si ricava dall’art. 3, comma 1, lett. h del citato decreto, vale indistintamente per tutti, sia che svolgano funzioni giudiziarie sia che siano collocati in aspettativa e fuori dal ruolo organico della magistratura per qualunque ragione, ivi compreso lo svolgimento di un mandato elettorale e/o amministrativo;

3) il divieto di iscrizione ai partiti politici non è contraddetto dalla possibilità, per il magistrato eletto al Parlamento, di iscriversi ai “gruppi parlamentari”, diversa essendo la natura giuridica di questi ultimi rispetto a quella dei partiti, atteso che, mentre i partiti politici sono associazioni private non riconosciute, i gruppi parlamentari hanno natura istituzionale, costituendo organi dell’istituzione elettiva necessari al suo funzionamento, tanto che l’iscrizione a uno di essi (eventualmente, al cd. “gruppo misto”) è obbligatoria in base ai regolamenti interni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica e prescinde dall’iscrizione del parlamentare a un determinato partito politico.

Sotto il secondo profilo (neutralità culturale), la Corte di cassazione, nella medesima pronuncia, ha affrontato il tema giungendo a un ragionevole bilanciamento dei valori che tiene conto dell’evoluzione che l’esercizio della giurisdizione e, conseguentemente, la posizione dei suoi attori hanno subito nel corso del tempo.

Pur premettendo che l’iscrizione a un partito o la partecipazione organica alla vita dello stesso contrasta col dovere del magistrato di assicurare la propria «immagine pubblica di imparzialità», col suo dovere non solo di essere, ma anche di apparire portatore e difensore dei soli valori incarnati nelle norme giuridiche di cui è chiamato a fare applicazione, è stato, tuttavia, affermato che è «incomprimibile il diritto dei magistrati a partecipare alla vita politica della società ed è pura illusione immaginare la loro indifferenza ai valori, come la loro neutralità culturale». 

La Corte ha precisato che occorre, tuttavia, tener distinta la «politica delle idee» – che, come tale, non contrasta con il dovere di imparzialità del magistrato ed è, perciò, ad esso consentita, sia pure col necessario equilibrio e la dovuta moderazione – dalla «politica partitica», dalla lotta tra gruppi contrapposti, alla quale il magistrato, per la particolare collocazione costituzionale dell’ordine giudiziario cui appartiene, deve astenersi dal partecipare, a tutela di quella «immagine pubblica di imparzialità» che è coessenziale all’esercizio della funzione giurisdizionale che gli è demandata.

 

5. La vita privata del magistrato e la sua immagine di imparzialità

Nel perimetro del presente contributo, l’incidenza della vita privata dei magistrati sul valore dell’imparzialità assume uno specifico rilievo.

L’argomento è particolarmente delicato, in quanto è condizionato anche dal livello di riservatezza e di prudenza che ciascuno ritiene di mantenere negli ambiti esterni all’attività professionale.

La questione – connessa in modo peculiare all’immagine di imparzialità che deve essere sempre garantita, secondo quanto previsto dall’art. 8 del codice etico dell’Anm, dall’art. 3 del d.lgs n. 109/2006 (nelle varie fattispecie tipizzate riconducibili a tale valore), dall’art. 2 della Magna Carta dei giudici europei[8] – è stata oggetto di riflessione, ad esempio, in relazione all’opportunità (o meno) della presenza dei magistrati sui social media nelle comunicazioni quotidiane personali e, per contro, in relazione alle incursioni nella loro vita privata attraverso discutibili manovre giornalistiche.

La domanda che si pone riguarda, da una parte, il livello di esposizione pubblica (mediatica e non) consentita a chi svolge la professione del giudice e, dall’altra, la soglia che deve essere consentita per evitare un eccessivo sacrificio rispetto al diritto di condurre la propria vita privata esercitando gli stessi diritti fondamentali di cui godono tutti gli altri cittadini (come la riservatezza, la vita affettiva, la partecipazione al dibattito pubblico).

Al riguardo, la Corte costituzionale, pur dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18 rd.lgs 31 maggio 1946, n. 511 (nella parte in cui sottoponeva a sanzione disciplinare il magistrato che avesse tenuto in ufficio o fuori una condotta tale da renderlo immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o da compromettere il prestigio dell’ordine giudiziario), sollevate dalla sezione disciplinare del Csm, ha affermato in via interpretativa che «la necessità di un equilibrato bilanciamento con altri interessi costituzionalmente tutelati non può comprimere i diritti di libertà del magistrato costituzionalmente previsti, ma ne vieta solo l’esercizio anomalo e cioè l’abuso, che si configura quando risultino lesi gli altri valori di rilievo costituzionale» (Corte cost., 7 maggio 1981, n. 100)[9].

La peculiarità dei casi concreti esaminati per fatti di cui i magistrati si sono resi protagonisti mentre non erano nell’esercizio delle loro funzioni, impediscono, in questa sede, di affrontare tutte le problematiche che si sono poste, rispetto alle quali è stato ritenuto necessario affermare, nella sostanza, il principio di “ragionevolezza”, spesso declinato attraverso la «scarsa rilevanza del fatto» prevista dell’art. 3-bis d.lgs n. 109/2006[10].

Diverso orientamento, invece, è stato mostrato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nei casi in cui, in sede disciplinare, si è occupata del problema delle frequentazioni dei magistrati con persone coinvolte in fatti di rilevanza penale, trattati direttamente o indirettamente dall’incolpato, tanto da poter risultare appannata la sua immagine di correttezza e imparzialità.

In particolare, è stato affermato che «l’immagine stessa del magistrato evoca un modello ideale, rispettoso dell’insieme dei doveri che ne definiscono gli schemi comportamentali (e riempiono di contenuto il modello stesso) ed affidatario della tutela dei diritti di ogni consociato; pertanto, i magistrati – più di ogni altra categoria di funzionari pubblici – sono tenuti a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, ma anche ad apparire indipendenti ed imparziali (evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni), con la conseguenza che l’esimente della scarsa rilevanza della violazione del dovere di astensione va esclusa se la condotta dell’incolpato è idonea a compromettere l’immagine del magistrato in relazione ai predetti profili»[11]

C’è da chiedersi, tuttavia, se la costruzione (o la ricostruzione) dell’etica dell’imparzialità possa realizzarsi efficacemente attraverso un sistema sanzionatorio, disciplinare giudiziario o paradisciplinare etico: i risultati sinora raggiunti attraverso gli strumenti a disposizione non sono affatto soddisfacenti perché incidono soltanto sui singoli casi e, anche in ragione della tutela della riservatezza che deve essere garantita agli incolpati, non hanno la potenzialità di diffondere una diversa cultura etica. 

A ciò deve aggiungersi che il panorama normativo e giurisprudenziale che riguarda la materia è, per molti magistrati, del tutto sconosciuto, così come nel concreto gli obbligatori limiti di condotta e, per contro, i campi aperti a interventi, anche auspicabili, per dare vigore all’immagine della funzione giurisdizionale di fronte al cittadino.

Su questo tema, dunque, un ruolo fondamentale va attribuito alla formazione professionale che deve contenere sia momenti di riflessione fra i magistrati rispetto alla “percezione dell’essere imparziali” (includendo un attento esame anche delle possibili derive narcisistiche nello sviluppo della carriera), sia momenti di confronto fra i giudici e la collettività che consentano ai primi di comprendere la percezione che i cittadini hanno della loro funzione e del loro servizio. 

 

6. L’importanza della formazione professionale. L’imparzialità come dovere di tutti i giudici europei

È stato affermato che «costituisce talvolta un luogo comune che l’etica professionale non si insegna, e a sostegno di questo assunto si evidenzia il fatto che l’etica – interessantissima, coinvolgente, divisiva quando si affrontano i singoli casi concreti e le questioni controverse – rischia di risultare banale quando si enunciano in astratto principi e regole di comportamento, senza esplorarne la genesi storica e senza discuterne le contaminazioni con la realtà»[12]

Ed è stato a lungo ritenuto che l’etica professionale si acquisisce, innanzitutto, con l’esempio, affidando in tal modo, silenziosamente, tale compito ai magistrati affidatari dei mot e ai dirigenti degli uffici. 

Tuttavia, ciò si è rivelato non sufficiente: infatti, i numerosi casi affrontati recentemente, in sede sia disciplinare sia paradisciplinare, inducono a ritenere che è necessario istituzionalizzare un’attività di formazione sull’etica, così come è stato sollecitato anche dal Presidente della Repubblica nel suo intervento di saluto alla ricorrenza del decennale della Scuola superiore della magistratura, con il quale ha rivolto l’invito al Comitato direttivo della Ssm a dedicare sessioni specifiche formative all’etica dei comportamenti[13].

La Scuola ha dedicato, da circa due anni, specifiche sessioni all’etica giudiziaria sia nei corsi dedicati ai magistrati in tirocinio sia nella formazione permanente, anche della magistratura onoraria: è stato, dunque, dimostrato che è possibile realizzare questa formazione, coniugando la riflessione sui principi e le regole dell’etica dei comportamenti con la dimensione applicativa. 

Il taglio delle sessioni formative è di carattere pratico ed è stata elaborata una raccolta sistematica di questioni etiche con cui ciascun magistrato si può confrontare all’interno e al di fuori dell’ufficio. Le questioni sono state poste in forma interrogativa, al fine di consentire a ciascun partecipante alla sessione di proporre delle soluzioni. Esse spaziano dai rapporti con i colleghi, il personale amministrativo, le parti, all’uso dei social network, ai rapporti con la stampa, alle frequentazioni, alla spendita del nome, etc.[14].

Inoltre, per ampliare ulteriormente la formazione sull’etica, il Comitato direttivo della Ssm, ha invitato tutte le formazioni decentrate a realizzare, in ciascun distretto, corsi di formazione sull’etica del magistrato secondo un format condiviso, iniziativa che è stata attuata con successo in moltissime sedi. 

L’etica del magistrato, così come declinata nel relativo codice etico dell’Anm, discende dalla Costituzione quale fonte primaria delle regole del “dover essere” dei magistrati: un costante aggiornamento su tali principi costituisce un indispensabile contributo per la formazione di una cultura europea dell’imparzialità.

Il codice etico, infatti, si basa su principi rinvenibili anche in diverse fonti internazionali che richiamano, – tutte – l’integrità, l’onore, la dignità, nonché l’indipendenza (nelle dimensioni interna ed esterna, così come rispettivamente declinate e desumibili dal codice etico) intesa come attività giudiziaria svolta in assenza di interferenze.

In particolare, non è inutile richiamare:

1) le linee-guida delle Nazioni Unite sul ruolo dei pubblici ministeri, adottate in occasione dell’VIII Congresso tenutosi all’Avana nel 1990; 

2) gli standard di responsabilità professionale e dichiarazione sui diritti e doveri fondamentali dei pubblici ministeri adottati dall’Associazione internazionale dei pubblici ministeri il 23 aprile 1999; 

3) la raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa – Rec (2000)19;

4) i Bangalore Principles of Judicial Conduct, approvati nel luglio 2006 da ECOSOC («United Nations Economic and Social Council») nell’ambito di una risoluzione che ha riconosciuto i principi di Bangalore come complementari ai principi delle Nazioni Unite del 1985 sull’indipendenza del sistema giudiziario;

5) la raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa – Rec (2010)12 – agli Stati membri della Ue sui giudici, adottata il 17 dicembre 2010. 

In base ai principi di Bangalore e alla raccomandazione del Consiglio d’Europa[15], competenza, integrità, indipendenza, imparzialità dei magistrati sono prerequisiti necessari e garanzia per il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, condizioni indispensabili per la fiducia nel sistema giudiziario. 

In tale contesto, i principi condivisi nel codice etico dell’Anm, se confrontati con gli strumenti internazionali sopra indicati, non sono confinati in una dimensione nazionale, ma mirano a proiettare all’esterno la figura di un magistrato (requirente e giudicante) consapevole dell’importanza della sua funzione (necessariamente connotata da professionalità e deontologia), sensibile e attento alle esigenze della collettività e alle richieste di efficienza, correttezza e trasparenza, rispettoso dei ruoli e calato in un contesto non più circoscritto ai confini nazionali[16].

 

7. Conclusioni: un dibattito auspicabile

La conoscenza e il rispetto dei principi sopra richiamati sono indispensabili per rendere concreto e apprezzabile il principio di “imparzialità”: ciò rappresenta un faro per il corretto esercizio della giurisdizione e per una ricollocazione armonica della figura del giudice nella nostra società, all’interno della quale è necessario assumere una posizione disponibile a ricostituire l’equilibrio che è stato destabilizzato da condotte infamanti per l’immagine dell’intera magistratura.

Al contempo, però, è quanto mai necessario che tale consapevolezza rafforzi l’orgoglio della funzione e consenta di assumere una composta ma efficace reazione agli spropositati attacchi, molto spesso strumentali e sempre più frequenti, di cui alcuni magistrati sono stati recentemente vittime in modo del tutto ingiustificato, con espresso riferimento, nel settore civile, a provvedimenti non graditi dalla parte soccombente.

Sulla base di tali premesse, è rilevante che si sviluppi un dibattito che parta dal “profondo sentire” di ciascuno, mediante il quale la questione dell’imparzialità venga riportata all’interno dei giusti binari: i quali devono consentire, da una parte, di ricostruire la credibilità della categoria anche attraverso lo sviluppo di anticorpi idonei a evitare che possano ripetersi episodi scabrosi come quelli ai quali abbiamo assistito negli ultimi anni[17]; e, dall’altra, di diffondere la convinzione che il magistrato “asettico”, lungi dal realizzare il valore dell’imparzialità, corrisponde soltanto a una visione deresponsabilizzante della sua funzione che non è compatibile con la previsione costituzionale del ruolo di protagonista della giurisdizione.

In buona sostanza, la «disciplina ed onore» predicati dall’art. 54, comma 2, Cost. sono i valori di fondo che, includendo l’imparzialità e l’indipendenza, devono guidare la condotta del giudice e non possono prescindere dallo sviluppo e dalla equilibrata esternazione della «politica delle idee», riaffermata anche, recentemente, dalla Corte di cassazione[18].

 

 

1. Cfr. E. Riva Crugnola, Codice etico dei magistrati, collegio dei probiviri della ANM: questi sconosciuti?, in Questione giustizia online, 10 novembre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/codice-etico-dei-magistrati-collegio-dei-probiviri-della-anm-questi-sconosciuti). 

2. Cfr. d.lgs n. 29/1993, art. 58-bis, introdotto dal d.lgs n. 546/1993, art. 26, e recepito dal Csm con delibera del 12 luglio 1994. 

3. Cfr. d.lgs n.165/2001, art. 54, come innovato dall’art. 1, comma 44 della legge n. 190/2012. L’art. 54 prevede in particolare, al suo quarto comma, che «per ciascuna magistratura e per l’Avvocatura dello Stato gli organi delle associazioni di categoria adottano un codice etico che viene sottoposto all’adesione degli appartenenti alla magistratura interessata».

4. Cfr. d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109, artt. 1, 2, 3, 4.

5. L’art. 1 d.lgs 109/2006, titolato «Doveri dei magistrati», prevede che «Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni».

6. Cfr. Corte cost., 13 maggio 1964, n. 40 (www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/isapi/hc.dll?db=costsn&lang=it).

7. L’art. 3, comma 1, lett. h, d.lgs n. 109/2006 prevede espressamente che costituiscono illeciti disciplinari al di fuori dell’esercizio delle funzioni: « [omissis] h) l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato».

8. La Magna Carta dei giudici europei (adottata dal CCJE il 17 novembre 2010) sancisce che «l’indipendenza e l’imparzialità del giudice sono precondizioni essenziali per l’adeguato funzionamento della giustizia».

9. Cfr. Corte cost., 7 maggio 1981, n. 100 (www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/isapi/hc.dll). 
La sezione disciplinare del Csm, con ordinanze di identico contenuto emesse nei procedimenti disciplinari a carico di alcuni magistrati, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 rd.lgs 31 maggio 1946, n. 511 (norma poi abrogata dall’art. 31 d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109), nella parte in cui sottoponeva a sanzione disciplinare il magistrato che avesse tenuto, «in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’Ordine giudiziario». L’organo rimettente fondava la questione sul contrasto di tale disposizione con gli artt. 21, primo comma, 25, secondo comma, 101, secondo comma e 108, primo comma, della Costituzione.
A sostegno delle censure, il Consiglio superiore osservava che la norma impugnata non tipicizzava l’illecito disciplinare, ma lo individuava in rapporto a criteri, valutazioni e modelli di comportamento a loro volta non tipicizzati. In tal modo, secondo il giudice a quo, la predetta parte dell’art. 18 si poneva in contrasto: a) con il principio di legalità posto dall’art. 25, secondo comma della Costituzione; b) con gli artt. 101, secondo comma, e 108, primo comma della Costituzione, i quali, stabilendo che i giudici sono soggetti soltanto alla legge e che le norme sull’ordinamento giudiziario sono stabilite per legge, escluderebbero la mediazione di altri organi nella disciplina dello status dei magistrati; c) con l’art. 21 della Costituzione, il quale esclude limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero, sia pure in contemperamento con gli artt. 54, secondo comma, 101, secondo comma, e 104, primo comma della Costituzione.

10. Per una esauriente disamina della casistica, cfr. Ssm, L’Etica del magistrato. Documentazione per i gruppi di lavoro, a cura di G. Grasso e C. De Robbio (www.scuolamagistratura.it/documents/20126/3acca555-3270-3cab-b147-c7de604bf5cd).

11. In applicazione del principio richiamato, Cass., sez. unite, n. 28167/2023 ha confermato la decisione della sezione disciplinare che aveva escluso l’applicabilità dell’esimente della scarsa rilevanza della violazione del dovere di astensione alla condotta di un magistrato (che aveva intrattenuto relazioni sentimentali con curatori fallimentari e legali della curatela, nell’ambito di procedure fallimentari nelle quali rivestiva la funzione di giudice delegato) perché intrinsecamente idonea a ledere il bene giuridico protetto, restando irrilevante, in quanto elemento aleatorio estraneo a detta condotta, lo strepitus fori determinato dalla diffusione della notizia sulla stampa locale. 
Sulla incompatibilità fra alcune frequentazioni e l’immagine di imparzialità, devono essere segnalate, fra le più recenti, anche: Cass., sez. unite, n. 24038/2023, secondo cui, «per integrare l’illecito disciplinare previsto dall’art. 3, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 109 del 2006 è necessario, sotto il profilo oggettivo, che la frequentazione di persona sottoposta a procedimento penale trattato dal magistrato sia caratterizzata da una regolarità di rapporti tale da appannare l’immagine di quest’ultimo, suscitando sospetti sulla sua imparzialità nell’esercizio delle funzioni, mentre, sotto il profilo soggettivo, è sufficiente che la conoscenza della situazione in cui si trova la persona frequentata accompagni la condotta o anche solo un suo segmento, ossia che al magistrato risulti la predetta condizione quando frequenta, o continua a frequentare, quella certa persona, non essendo necessario che la consapevolezza preceda la frequentazione»; Cass., sez. unite, n. 7427/2022, secondo la quale «Il magistrato il quale risulti avere, o avere avuto, una relazione sentimentale con una qualsiasi delle parti dei processi nei quali è chiamato a giudicare o con taluno dei legali che tali parti assistono, viene a trovarsi in una situazione in cui, per gravi ragioni di convenienza, egli – a norma degli artt. 36, comma 1, lett. h), c.p.p. e 51, comma 2, c.p.c. – ha l’obbligo deontologico di astenersi, atteso che il legame di affetto tra il giudice e la parte o il suo difensore finisce per intaccare la serenità e la capacità del giudice di essere imparziale, ovvero per ingenerare, sia pure ingiustificatamente, il sospetto che egli possa rendere una decisione ispirata a fini diversi da quelli istituzionali ed intesa, per ragioni private e personali, a favorire o danneggiare gli eventuali destinatari. La lesione di tali regole della deontologia professionale nello svolgimento dell’attività giudiziaria costituisce illecito disciplinare anche se posta in essere dal magistrato del P.M., perché la percezione ambientale diffusa della relazione appanna l’immagine di imparzialità, che deve ispirare anche la sua attività».

12. Cfr. G. Grasso, Il seme dell’etica: la vita e la testimonianza di Rosario Livatino per la magistratura, relazione presentata al Convegno «L’attualità del Beato Rosario Livatino» (Biblioteca di S. Maria sopra Minerva, Roma, 18 gennaio 2023), Centro Studi Rosario Livatino, 23 gennaio 2023 (www.centrostudilivatino.it/il-seme-delletica-la-vita-e-la-testimonianza-di-rosario-livatino-per-la-magistratura/). 

13. Cfr. l’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla celebrazione del decennale della Ssm, Scandicci 24 novembre 2021 (www.quirinale.it/elementi/61252). L’argomento è stato ripreso anche nel successivo discorso, tenuto durante l’inaugurazione della nuova sede della Ssm a Castelcapuano, il 15 maggio 2023 (www.quirinale.it/elementi/85577).

14. Cfr. la documentazione della Ssm (www.scuolamagistratura.it/documents/20126/ce44ddee-8f88-8ad3-e3ff-7baeffa09563) relativa all’immagine di indipendenza e imparzialità del magistrato nei rapporti con la politica e la p.a., nonché agli obblighi di correttezza del magistrato e ai doveri del dirigente dell’ufficio.

15. www.unodc.org/res/ji/import/international_standards/bangalore_principles/bangalore_principles_italian.pdf
https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?artid=17179.

16. Sul tema, cfr. anche G. Raimondi, Deontologia e professionalità del magistrato nella giurisprudenza Cedu, in Giustizia insieme, 9 ottobre 2020 (www.giustiziainsieme.it/en/ordinamento-giudiziario/1328-deontologia-e-professionalita-del-magistrato-nella-giurisprudenza-cedu?hitcount=0).

17. Il riferimento è alla complessa vicenda, meglio nota come lo “scandalo dell’Hotel Champagne”, dalla quale sono sorti numerosissimi procedimenti penali e disciplinari a carico di magistrati.

18. Cfr. la già citata Cass., sez. unite, 14 maggio 2020, n. 8906 (www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/isapi/hc.dll?db=civile&lang=it).