Magistratura democratica

Imparzialità

di Anna Finocchiaro

Fermo restando che la professionalità resta la cifra dell’imparzialità del giudice, il conflitto fra magistratura e politica su temi di rilievo rimanda a un’incompiuta diffusione della cultura dei diritti fondamentali nella sfera della politica.

Tutti i cittadini hanno diritto all’agire imparziale del magistrato, giudicante o requirente che sia, e l’imparzialità è presupposto dell’autorevolezza e, prima ancora, della credibilità della giurisdizione.

L’indipendenza della magistratura è finalizzata a un esercizio della giurisdizione libero da condizionamenti di ogni potere, politico, economico o mediatico che sia, e, in questo senso, è prerogativa essenziale per l’esercizio imparziale della giurisdizione medesima. In altre parole (seppure superfluo, è necessario ricordarlo nel dibattito confuso dell’oggi), la magistratura è indipendente perché questo crisma, insieme ad altri che diremo, è presidio costituzionale circa un esercizio imparziale del potere di perseguire e di giudicare.

Dunque, autonomia e indipendenza non insidiano né tolgono alcunché agli altri poteri: il potere giudiziario si origina come indipendente e autonomo perché ha come funzione l’imparziale applicazione della legge al caso concreto. Altrimenti non comprenderemmo perché la Costituzione provveda a sancire l’inamovibilità dei magistrati, il loro differenziarsi solo per funzione, l’assenza di relazione gerarchica tra gli uffici.

L’obbligo della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali completa il quadro dei riferimenti costituzionali orientati a presidio di imparzialità.

Se dunque questo è il fine, come rafforzare “dall’interno” l’imparzialità del magistrato?

Sicuramente la professionalità è cifra dell’agire imparziale: conoscenza della norma e del sistema giuridico e padronanza degli strumenti d’interpretazione sono essenziali.

Ma qual è il profilo specifico che rende così aspro, spesso, il conflitto tra magistratura e politica su temi di rilievo come l’immigrazione, ad esempio, o i diritti cd. personalissimi?

La questione, a mio avviso, risiede nel fatto che l’attività di interpretazione tradizionalmente – ma potremmo dire, a questo punto, storicamente – veniva riferita esclusivamente alla legge ordinaria vigente al tempo, e la soggezione alla legge a quella si riferiva.

Con l’entrata in vigore della Costituzione, e delle fonti sovranazionali di diritto primario, quell’attività interpretativa necessita di una nuova configurazione e si articola con altri strumenti. Tralascio la lunga storia della relazione tra Corte costituzionale e giudice ordinario e, in particolare, tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, ma di certo l’arresto attuale, che ha sanato i conflitti registrati in quella relazione, consiste della necessità che il giudice ordinario non possa prescindere da un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma applicata, ponendo a ulteriore riferimento del giudicare non solo la Carta, ma anche le fonti sovranazionali applicabili. Dunque, l’attività interpretativa, non più limitata alla mutevole (anche in ragione delle mutevoli maggioranze parlamentari) legge ordinaria, non può che incontrare lo “zoccolo duro” dei principi costituzionali (e sovranazionali di uguale forza) e del quadro di riferimento valoriale che essi determinano.

È questo il “di più” che viene avvertito come “eccesso”, come “smarginamento”, come esercizio di discrezionalità “politica” al posto di una doverosa imparzialità? A mio avviso, questa è, in molti casi, una chiave di lettura possibile, che però rimanda a una questione più generale e più importante, e cioè la incompiutezza del processo di piena, generale e condivisa, inequivoca assunzione dei principi costituzionali e sovranazionali in materia di diritti fondamentali.

La questione può essere spiegata storicamente, poiché la Repubblica costituzionale è relativamente giovane, ma la radice essenziale sta nella natura sostanzialmente “eretica” della Costituzione. Non voglio riferirmi alla conclamata potenza eretica nei confronti, ad esempio (e ovviamente), del fascismo e del suo complessivo ordinamento valoriale, quanto piuttosto alla sua perduranza nella nostra società democratica, che tuttora registra ineguaglianza e mortificazione di diritti fondamentali. Perché di questo consiste, particolarmente, quella eresia: l’art. 3 della Costituzione dovrebbe costringere a riordinare interi assetti economici e sociali.

Il riferimento alla gerarchia di principi definiti dalla Costituzione è dunque, in sé, “disturbante” rispetto all’esercizio del potere politico, che si muove sul terreno dei rapporti di forza sia pure democraticamente determinati e della discrezionalità nella scelta delle politiche, specie quelle che direttamente impattano su sentimenti di insicurezza, addirittura di paura, diffusi tra i consociati, o che incidono su relazioni personali o familiari.

Mi pare di poter dire, allora, che la tensione tra magistratura e politica abbia una radice che andrebbe ancora esplorata. Torna alla mente l’ostilità, esplicita e sottintesa, che accompagnò in Costituente il dibattito sulla previsione della Corte costituzionale e che rivisse, con analoghe argomentazioni e vivacità, nella discussione che portò, nel 1953, all’approvazione della legge n. 87 («Norme sulla composizione e il funzionamento della Corte Costituzionale»). Si tratta, pertanto, di questione politica generale, direi strutturale rispetto al sistema democratico costituzionale.

La questione è dunque più seria di quanto ordinariamente non si valuti e questo dovrebbe condurre la magistratura a un regime di comportamento accettato e diffuso, capace di misurarsi sull’altezza della questione. Allo stesso modo, dovrebbe condurre la politica a misurarsi sull’identico registro, giacché immutabile è il quadro di riferimento costituzionale con riguardo a quelli che vengono definiti “principi supremi”, come indubitabilmente sono almeno i principi fondamentali.

In questo senso, poiché il magistrato è naturalmente un cittadino, c’è certo da sperare che sia tra i più avvertiti e che sia partecipante responsabile alle sorti della Repubblica, in piena aderenza alle caratteristiche che la Costituzione considera crismi della cittadinanza. Avrà perciò una sua visione del mondo e una sua opinione sui fatti, andrà a votare e sceglierà, non può essergli inibita la libertà di partecipazione al dibattito pubblico e di espressione (anche perché continuerebbe ad avere proprie idee e visioni anche se non le esponesse). Ma il punto è come lo farà, con quale chiarezza di argomentazioni, con quale disponibilità a capire e confrontarsi con le ragioni degli altri, con quale misura ed equilibrio. Non può appartenergli la faziosità, l’urlo e l’invettiva, l’individuazione di avversari e, tanto meno, di nemici. Non dovrà tornare alla giurisdizione dopo avere svolto funzioni politiche.

Mi permetto di dire che dovrà accettare le critiche al suo operato come necessario corollario dello svolgimento di una funzione pubblica così rilevante come l’esercizio della giurisdizione: per lui parleranno i suoi provvedimenti, su di essi si esprimeranno altri giudici. È il prezzo ordinario da pagare per chi eserciti una funzione pubblica.

Ma grandemente, da cittadina, dubiterei del modello di giudice che si pretende privo di alcuna opinione o convinzione. Quella non è imparzialità, è ipocrisia o, ancora peggio, adattamento conformista all’aria che tira, da qualunque quadrante arrivi il vento.