Magistratura democratica

Il più debole dei poteri

di Giovanni Salvi

Sono molte le occasioni in cui l’imparzialità del pubblico ministero viene messa in discussione. Essa si lega alla terzietà del giudice e si caratterizza per la particolare forza del principio – che discende dal rapporto con i valori costituzionali di eguaglianza dinanzi alla legge e di tutela dei diritti – alla cui attuazione è mirata. Tema centrale è quello della responsabilità, nel senso di accountability. Se il pm risolve questo problema all’interno del circuito della giurisdizione, attraverso il controllo del giudice sulle scelte di azione/non azione, restano profili di grande rilievo che sfuggono o, strutturalmente, non sono sottoposti a tale controllo. Queste scelte si legano alla prevedibilità dell’agire giudiziario, fondamentale per assicurare l’eguaglianza dinanzi alla legge. La complessità delle scelte del pm, sin da quelle interpretative nell’ambiente multilivello della giurisdizione, costituisce una sfida all’imparzialità e rende assai incerta l’antica definizione della giurisdizione come “il più debole dei poteri”. 

1. Manifestare il proprio pensiero / 2. Diverse accezioni dell’imparzialità nell’esercizio delle funzioni. Le scelte del pubblico ministero / 3. Imparzialità e prevedibilità dell’agire giudiziario / 4. La contestazione come luogo in cui si compendia la consapevolezza del limite / 5. Il più debole dei poteri? / 6. Conclusioni

 

1. Manifestare il proprio pensiero

Essere e apparire imparziali. Cosa significa per il pubblico ministero? 

Le polemiche più aspre, che mettono in dubbio l’imparzialità del pubblico ministero, nascono spesso dal rapporto con l’informazione, dipenda ciò da dichiarazioni o scritti del magistrato o da comportamenti della vita privata o pubblica, che rivelerebbero orientamenti politici, così da incidere sull’esercizio delle sue attività giudiziarie.

Il magistrato, giudice o pubblico ministero, ha il diritto di esprimere le proprie opinioni. Tuttavia, ciò avviene nello svolgimento di una funzione pubblica particolarmente delicata. Il codice etico dei magistrati, adottato dall’Anm in esecuzione delle previsioni di legge[1], all’art. 6 indica con precisione i criteri cui il pubblico ministero deve attenersi nei rapporti con gli organi di informazione. Anche le fonti europee attribuiscono rilievo agli oneri che gravano sul magistrato, per la possibilità che le manifestazioni pubbliche di pensiero incidano sulla sua imparzialità. Su questi aspetti si rinvia alla «Guida alla comunicazione» edita dalla Scuola superiore della magistratura, di imminente uscita. 

Non si tratta solo di apparenza, ma di sostanza. Il discrimine tra i due aspetti non è facilmente marcabile[2]. Si può fondatamente obiettare che la pubblica espressione delle proprie opinioni – ad esempio, nel dibattito politico – sia in realtà garanzia di maggiore consapevolezza della propria intrinseca soggettività. Chi crede, di se stesso, di essere indipendente e del tutto imparziale, spesso non è consapevole che quella percezione è adesione supina a valori che ritiene naturali, non politici. Una grave fallacia epistemica. La consapevolezza dell’ineliminabile coinvolgimento soggettivo nel giudizio, che ha in sé una componente empatica, può forse meglio consentirne il governo nell’atto del giudicare e anche ricostruire nella motivazione ciò che incide nel profondo nelle scelte ermeneutiche. D’altra parte, a tanto porta – ed è discorso assai lungo – la complessità crescente dell’atto del giudicare (e delle scelte che lo precedono), in dipendenza della rete delle fonti e del peso che nell’interpretazione grava per l’attuazione di valori costituzionali.

Questi aspetti sono stati molto arati negli anni passati[3], anche se spesso in maniera solo bassamente polemica. Su di essi credo che i moniti a modalità di espressione coerenti con il proprio ruolo, descritti dalle fonti sopra indicate, siano sufficienti a delineare diritti e doveri del magistrato quale cittadino che esprime le proprie convinzioni.

L’irrompere della comunicazione in rete non modifica questo approccio, se non nel senso della necessità che il magistrato sia consapevole delle caratteristiche specifiche di queste forme di comunicazione: essa è immediata ma non cancellabile, resta in rete per sempre; nasce spesso come privata, rivolta a ristrette cerchie di amici, ma perde immediatamente questa caratteristica, per la sua facile trasmissibilità; è costituita da testi, ma al tempo stesso da immagini, la cui forza espressiva è assai più forte dei primi e prescinde da contesti e argomentazioni. 

Del tutto diverso è il tema della comunicazione istituzionale. Comunicare è un dovere sia per il pubblico ministero che per il giudice. L’attenzione del legislatore si è concentrata sul rapporto tra il pubblico ministero e i mezzi di informazione, trascurando del tutto sia la necessità – la doverosità – dell’informazione sia la sua efficacia, che muta nelle varie fasi del processo. La Procura generale della Cassazione ha preso, sul punto dell’attuazione della riforma del 2022, una posizione chiara e netta, alla quale rinvio[4].

 

2. Diverse accezioni dell’imparzialità nell’esercizio delle funzioni. Le scelte del pubblico ministero

Tuttavia, gli aspetti di più difficile gestione dell’imparzialità e della sua immagine emergono quando dalla comunicazione, intenzionale o nei fatti, si passa alle modalità di esercizio della funzione. 

Si consumano, qui, molti equivoci. Si dubita da taluno, ad esempio, dell’imparzialità sotto specie di terzietà del giudice quando dirige il dibattimento, utilizzando i poteri che gli sono assegnati dalla legge e che, peraltro, derivano dalle caratteristiche intrinseche del processo adversarial, nel quale – almeno in teoria – le regole hanno un ruolo essenziale, ad esempio nell’esame e nel controesame. Se il ruolo del giudice di direzione dell’udienza è connaturato all’idea stessa del processo che si svolge nel contraddittorio tra le parti, regolato e rispettoso delle regole, uno spazio per la perdita di terzietà del giudice potrebbe invece riscontrarsi nell’espansione dei poteri di integrazione della prova, fino alla ricerca da parte del giudice di una “sua” verità.

“Imparzialità” non è termine univoco. Essa si declina in modi molto diversi a seconda della funzione svolta e anche della specifica sede in cui si manifesta. Ogni pubblico ufficiale deve agire in maniera imparziale, anche quando assume deliberazioni di carattere discrezionale. Discrezionalità, infatti, non è abuso; essa può essere più o meno vincolata, ma è comunque sottoposta al principio di imparzialità. 

Tuttavia, l’imparzialità del pubblico ministero ha caratteristiche specifiche, che derivano dal differente ruolo che esso – almeno nel processo adversarial quale concretamente e solo in parte realizzato nel nostro ordinamento – svolge nella fase delle indagini e dinanzi al giudice. In entrambe, l’imparzialità è rinforzata dai valori costituzionali coinvolti e alla cui tutela è finalizzata: l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, il principio di soggezione alla legge, la preminenza del principio di non colpevolezza, il pieno dispiegarsi del diritto di difesa che si riflette sugli oneri stabiliti dall’art. 358, ultima parte, cpp. 

Onere, quello di svolgere accertamenti anche a favore dell’indagato, che ha un significato generale ed epistemico e che si ricaverebbe comunque da una lettura sistematica del processo, anche se non fosse esplicitamente enunciato. Esso è anche strettamente legato all’imparzialità come dovere del pubblico funzionario: il difensore, infatti, dovrebbe anch’egli ricercare gli elementi che minacciano la propria tesi difensiva (per ovvie ragioni epistemiche analoghe a quelle che riguardano il pubblico ministero, come ogni ricercatore che opera per congetture e confutazioni e per il quale la smentita della ipotesi è più importante della corroborazione, anche per poter formulare sotto-ipotesi che reggano alla falsificazione), ma non ha il dovere di rivelarle alla controparte e al giudice. Questa è la semplice e sostanziale differenza, per la quale il pubblico ministero non è mai “parte” in senso soggettivo. Il difensore non solo non ha dovere di verità, come invece ha il pubblico ministero, ma addirittura – almeno nel nostro ordinamento – ha il dovere di non ostendere le informazioni negative, per onorare il mandato[5].

Dinanzi al giudice, in udienza, l’imparzialità del pubblico ministero è rafforzata, tanto da legarsi strettamente alla sua autonomia interna, in un ufficio a carattere gerarchico, perché essa è finalizzata a enfatizzare la terzietà, come caratteristica specifica della imparzialità del giudice.

Una discussione a parte meriterebbe il tema di come si disloca l’imparzialità nelle diverse fasi. In quella delle indagini deve prevalere, per ragioni epistemiche e deontologiche, il dovere di svolgere le investigazioni anche a favore dell’indagato, per testare fino in fondo la resistenza dell’ipotesi accusatoria rispetto alla sua possibile falsificazione. Invece, nella fase del giudizio, quando è pieno il contraddittorio, si espande – per le medesime ragioni epistemiche e deontologiche – il dovere di testare fino in fondo l’ipotesi consolidatasi nella contestazione, cercandone innanzitutto le corroborazioni. Al momento di trarre le conclusioni, nelle richieste non può che prevalere, anche per il pm come per il giudice, il dovere di assoluta imparzialità e, dunque, della regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio. 

La parziale autonomia, interna ed esterna, del pubblico ministero si lega all’indipendenza ordinamentale dell’organo. Questo tema è stato discusso approfonditamente nella Conferenza dei procuratori e direttori degli uffici del pubblico ministero europei, nell’ambito del Consiglio d’Europa, organizzata dalla Procura generale della Cassazione a Palermo, nel maggio del 2022[6]

Nella giurisprudenza della Corte costituzionale, l’indipendenza è legata al principio di obbligatorietà dell’azione[7]. Poiché quel principio costituisce attuazione del principio di eguaglianza tra i cittadini nel campo specifico della giustizia penale[8], l’esigenza di indipendenza si è diffusa anche in contesti istituzionali di altri Paesi, nei quali non solo non esiste l’obbligatorietà dell’azione, ma un tale principio verrebbe visto come una limitazione delle facoltà del ministero pubblico. 

Negli Stati Uniti, ad esempio, il funzionamento del sistema giudiziario nel suo complesso si radica nel non detto dell’efficacia deflazionistica di un processo nelle mani del pubblico ministero, e ad alto rischio per l’imputato che non accetti il patteggiamento. Questa flessibilità si basa appunto sul carattere non obbligatorio della decisione di agire da parte del prosecutor, che valuta legittimamente anche ragioni di opportunità; il giudice può, in casi eccezionali, valutare il carattere discriminatorio delle scelte del prosecutor, ma non le scelte di opportunità. Il bilanciamento verso forme di egual trattamento, poi, si basa essenzialmente sull’esistenza di regole deontologiche condivise tra i vari attori della giurisdizione. Ciò attenua, senza eliminarla, la dipendenza interna del prosecutor da una catena gerarchica che culmina nel potere esecutivo, cioè nell’Attorney General, procuratore generale e ministro della giustizia allo stesso tempo. 

Difficile, dunque, fare paralleli, come invece purtroppo si è fatto con larghezza nel periodo successivo all’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1989. Penso a quanto ci si sgolò per far comprendere che i riti differenziati non avrebbero mai potuto funzionare senza una chiara consecutio, costituita dall’alta probabilità della condanna, in caso di giudizio ordinario. Seguirono alti lai sulla irrinunciabilità della prescrizione più breve possibile, anche per il concomitante interesse di imputati che rivestivano cariche pubbliche, in pieno conflitto di interessi, innanzitutto Silvio Berlusconi. La conseguenza fu che, invece del 90% di riti differenziati, necessario per far funzionare il dibattimento, la proporzione fu invertita, con le conseguenze odierne… La cronaca sembra oggi ripetersi.

In un sistema istituzionale quale quello statunitense, fortemente condizionato dall’ideologia protestante – calvinista (ognuno ha quel che merita – to deserve è il verbo principale della giustizia penale), il ruolo delle regole non scritte è (o forse ormai era… anche gli USA si sono meritati il loro Trump) determinante. 

In Europa, l’esigenza di un pubblico ministero non soggetto a direttive ministeriali, e dunque – almeno di fatto – indipendente, si è negli ultimi anni diffusa, così da far ritenere che l’indipendenza interna ed esterna, nel momento delle deliberazioni, sia un requisito di una giustizia eguale. Questa esigenza emerse con forza nelle relazioni dei rappresentanti di Paesi con sistemi istituzionali assai diversi, nella Conferenza di Palermo del maggio 2022. Credo che proprio questa diffusione sia tra le cause della evidenziazione della terzietà come requisito tipico del giudice e che lo differenzia dal pubblico ministero, anche quando a questo sono riconosciuti i requisiti di indipendenza e imparzialità (nel senso debole della “parte imparziale”). Si vedano sul punto le decisioni delle Corti europee in tema di garanzie[9].

Molto interessante è l’esperienza del Procuratore europeo (EPPO). La scelta operata circa l’attribuzione delle decisioni sull’esercizio dell’azione ha dovuto tenere conto della diversità dei sistemi processuali e ordinamentali coinvolti. L’esigenza di imparzialità in queste scelte è enfatizzata – in un organismo che risponde contemporaneamente agli organi europei e alle nazioni che compongono l’Unione – perché ogni sospetto di scelte adottate sotto la pressione di interessi di parte metterebbe a rischio l’esistenza stessa di EPPO.

Da qui il ruolo di un organo collegiale e indipendente, che ha l’ultima parola sulle scelte più significative dei procuratori europei nazionali e dei procuratori europei delegati. 

Nel nostro quadro istituzionale, è sempre più evidente che il pubblico ministero compie necessariamente una serie di scelte discrezionali, innanzitutto nell’organizzazione dell’ufficio e delle strutture serventi, dalle quali discendono conseguenze molto significative sull’effettività della sua iniziativa. Anche nel procedimento e, poi, nel ruolo svolto in udienza, molte sono le scelte che devono essere compiute e che non discendono dalla meccanica applicazione della legge. Anche questi aspetti sono da tempo trattati, non certo per mettere in discussione imparzialità e indipendenza del pm da direttive governative o legislative, ma per mettere in rilievo la necessità della responsabilità dell’ufficio, nel senso di render conto[10]. Ogni tanto l’acqua calda viene riscoperta e rozzamente utilizzata per trarne conseguenze politiche. Eppure, è necessario tener salda la distinzione tra il circuito di controllo giudiziario, che è connesso alla legalità e obbligatorietà dell’azione, dal controllo di responsabilità, che non può non avere il suo centro nell’organo di governo autonomo. 

La discrezionalità nel senso appena descritto è esacerbata dalle difficili condizioni in cui versa il processo e, dunque, dalla necessità di scelte che, comunque le si voglia definire, di priorità o di postergazione, comportano significativi riflessi sulla effettività dell’azione in un numero davvero grande di fatti-reato.

Queste scelte, oltre a implicare necessarie misure volte ad assicurare che chi le compie sia responsabile, nel senso che ne risponda, comportano che l’organo del pubblico ministero non può essere letto interamente come neutrale applicatore della legge.

L’obbligatorietà dell’azione ha in passato costituito la legittimazione delle scelte del pubblico ministero e del conseguente controllo, operato dal giudice. Le sempre più complesse opzioni che il pubblico ministero compie, nell’organizzazione dell’ufficio e nell’interpretazione delle norme, rende questa soluzione non sufficiente. Essa vale nel singolo procedimento e quando si giunge all’effettivo interpello del giudice, ad esempio con una richiesta di archiviazione; quando il reato è prescritto, l’interpello non risolve il controllo sul non esercizio dell’azione. Questo aspetto è enfatizzato quando la sproporzione tra risorse (tra cui la disponibilità di udienze del giudice) e necessità è talmente grande da portare alla prescrizione, prima dell’esercizio dell’azione, di un gran numero di fatti-reato.

Questo comporta il tema della responsabilità, nel senso di accountability, concetto estraneo alla nostra cultura e quindi anche al nostro dizionario. Ma le scelte di vita/morte del singolo procedimento rischiano anche di colorirsi di parzialità, almeno all’occhio del cittadino che attende giustizia per il suo procedimento. La previsione di indicazioni legislative dei criteri di priorità dovrebbe portare a chiarire l’attribuzione delle responsabilità, ma dubito che questa misura non porti conseguenze di diverso tipo. 

Il vero tema dell’imparzialità e della sua percezione, a mio parere, sta però nella prevedibilità dell’agire del pubblico ministero (oltre che della decisione del giudice).

Questi aspetti di carattere ermeneutico, ordinamentale e processuale convergono nel legittimare la percezione del pubblico ministero come mosso da scelte in senso lato “politiche”, cioè secondo criteri di opportunità generale.

La pressione dell’opinione pubblica, la visione del processo come un giuoco delle parti in cui vi è chi vince e chi perde, la considerazione di sé del pubblico ministero come controllore di legalità ad ampio spettro sono tutti elementi che possono congiurare nel determinare un aggravamento di quella percezione. 

È quindi indispensabile che vi sia, da parte del pubblico ministero, chiarezza sui limiti delle proprie funzioni, perché essa costituisce la base della sua effettiva imparzialità.

 

3. Imparzialità e prevedibilità dell’agire giudiziario

Il principio di legalità impone innanzitutto la riserva di legge, come riserva di forma e non meramente di fonte. Esso è peraltro, in materia penale, inverato dalla determinatezza e precisione del precetto. Sappiamo bene che ciò non avviene, a volte anche per precise scelte del legislatore[11], che – incapace di sciogliere nodi politici significativi – ne demanda la soluzione all’interprete. 

Questa indeterminatezza rende possibile l’estensione del precetto, così che si sfiora a volte l’analogia in malam partem.

Su questa strutturale difficoltà si inserisce ora, in maniera sempre più evidente, l’effetto del sistema plurale e multilivello delle fonti, sia di carattere normativo che giurisprudenziale. L’efficacia delle decisioni sistemiche o consolidate delle Corti di Strasburgo o di Lussemburgo, e dunque l’espandersi anche del rinvio pregiudiziale, sono fattori che introducono ulteriori elementi di incertezza. La necessità di adeguare l’interpretazione della norma ai principi diversi delle Carte (costituzionale, Cedu e di quella europea dei diritti) porta poi sempre di più il giudice a motivare, cercando l’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata.

Si comprende dunque come, in questo contesto istituzionale e di rapporti tra corti e tra queste e i giudici comuni, l’idea di certezza del diritto lasci il posto a quella della prevedibilità della decisione, come faro cui orientare l’attuazione del diritto.

La difficile prevedibilità della decisione e, per il pubblico ministero, più in generale, dell’agire giudiziario costituisce una delle principali cause di percezione di non imparzialità dell’organo.

La prevedibilità non è confinata nella nomofilachia affermata nel giudizio di legittimità. Essa, come afferma Viganò, si estende dalle prime fasi delle investigazioni fino all’esecuzione della decisione definitiva. «Il principio potrebbe dunque essere riformulato come “prevedibilità delle decisioni delle agenzie di law enforcement rispetto all’applicazione della legge penale”, coprendosi con questo concetto l’intero spettro di eventi che vanno dal primo atto di indagine (o dall’eventuale applicazione di misure precautelari ad opera della polizia) sino all’effettiva esecuzione della pena inflitta dal giudice della cognizione. Un arco temporale, dunque, che inizia molto prima del processo, e che può concludersi anche molti anni dopo»[12].

Il rafforzamento della nomofilachia è obiettivo fondamentale sia della Corte che della Procura generale, dai loro non coincidenti punti di osservazione. È, tuttavia, molto difficile perseguire la nomofilachia quando si opera in una Corte suprema che decide ogni anno 100.000 ricorsi, caso unico nel panorama delle giurisdizioni. La generalizzata inefficienza del sistema giudiziario penale, per i suoi tempi e per l’incertezza dei suoi risultati, concorre a ostacolare l’uniforme attuazione delle norme. I due aspetti si rincorrono nell’amplificarsi a vicenda. Anche questa relazione è ben nota e dunque non me ne occuperò, se non per ricordare, ancora una volta, che senza interventi radicali è ben difficile che misure palliative possano raggiungere gli effetti sperati.

Se il ruolo nomofilattico della Corte è ben noto, quello operato dalla Procura generale della Cassazione lo è molto meno. L’esperienza degli anni del Covid e i provvedimenti di differente natura con i quali la Procura generale ha affrontato l’emergenza[13] hanno reso chiaro che l’esigenza di prevedibilità dell’agire è un valore non in contrasto con la struttura non gerarchica dell’ordinamento del pubblico ministero e quella gerarchica impropria, interna all’ufficio.

L’esigenza di uniformità si è imposta immediatamente, sia per la necessità di condividere scelte difficili, che ponevano potenziali temi di responsabilità per gli stessi organi dell’esecuzione penale e dunque per il pubblico ministero, sia per la complessità della valutazione dell’impatto della pandemia sull’interpretazione delle norme.

Questo secondo aspetto è emerso innanzitutto per la qualificazione della colpa medica, rapportata a un evento del tutto nuovo, che metteva in discussione i criteri della responsabilità rispetto alle linee-guida vigenti. A esito dell’acquisizione delle informazioni utili a individuare la progressione delle conoscenze sulla pandemia e della loro diffusione tra gli operatori sanitari, dell’interlocuzione con le procure generali e con le procure della Repubblica maggiormente interessate, è stato possibile raggiungere “orientamenti” condivisi, sintetizzati in documenti trasmessi a tutti gli uffici del pubblico ministero. Nonostante il carattere non vincolante di questi orientamenti, non a caso non definiti come “direttive”, essi hanno consentito l’esercizio responsabile dei poteri di indagine volti all’esercizio dell’azione, improntati all’uniforme interpretazione della colpa medica, quale standard esigibile in relazione alle conoscenze effettivamente disponibili.

Analoghe indicazioni sono emerse in materia di rilevanza dell’insolvenza, determinata dall’emergenza pandemica. La ricerca di un uniforme approccio al nuovo codice della crisi di impresa e, di conseguenza, al ruolo complesso attribuito al pubblico ministero, già in atto al momento dell’esplosione della pandemia, è stata subito convertita nell’esame delle conseguenze della crisi sul concetto di insolvenza. A questo risultato si è giunti attraverso il coinvolgimento dei principali attori, dalle Camere di commercio alla Banca d’Italia, dalla Guardia di Finanza alla Procura nazionale antimafia, all’Accademia. Gli “orientamenti” che ne sono scaturiti si sono rivelati utili anche ai fini dell’individuazione delle griglie da utilizzarsi per la valutazione dell’accesso al credito agevolato.

L’adozione di chiare indicazioni circa il ricorso a misure cautelari e all’esecuzione di quelle definitive, che tenessero conto della particolare situazione sanitaria e che, quindi, dessero attuazione al principio di prevalenza del diritto fondamentale alla salute, da bilanciarsi solo con esigenze cautelari di eccezionale rilievo, ha consentito da un lato di contribuire a diminuire la presenza carceraria, e al tempo stesso di fornire un quadro di riferimento unitario e uniforme agli organi dell’esecuzione. 

Il complesso di questi provvedimenti[14] offre una chiara indicazione circa il ruolo che l’art. 6 d.lgs n. 106/2006 può svolgere, anche in tempi non emergenziali, per indirizzare il pubblico ministero verso il rispetto del proprio ruolo, rifuggendo la tentazione di inseguire esigenze di giustizia sostanziale o – peggio – popolare, riconoscendo quindi la necessità di una rigorosa interpretazione della legge penale.

Non solo, dunque, uniformità tendenziale nell’esercizio dell’azione, ma rispetto della correttezza dell’agire, che si sostanzia innanzitutto nella consapevolezza dei limiti del proprio ruolo.

 

4. La contestazione come luogo in cui si compendia la consapevolezza del limite

Il luogo rivelatore del corretto agire del pubblico ministero è, a mio parere, la contestazione. Se il principio di legalità si invera attraverso quelli – che ne discendono – di determinatezza e precisione del precetto, altrettale dev’essere la determinatezza e la precisione della contestazione. Essa deve rispecchiare in maniera concisa, chiara ed esaustiva tutti gli aspetti determinanti per la precisa individuazione degli elementi tipici della fattispecie legale, applicati alla condotta oggetto di accertamento. Contestazioni-lenzuolo così come il loro opposto, la mera riproduzione delle norme incriminatrici, sono rivelatrici di un difetto di prevedibilità, che può a sua volta essere indice di un più grave problema: la ricerca di giustizia sostanziale.

Vi è il rischio che la dilatazione giurisprudenziale, non dunque del solo pubblico ministero, del precetto (attraverso, ad esempio, l’interpretazione di concetti quali il vantaggio patrimoniale, l’utilità, la distrazione, per citarne alcuni) determini l’estensione applicativa della norma penale. Anche queste possibili torsioni possono essere rilevate sin dalla formulazione della contestazione.

Occorre dunque essere consapevoli delle molte implicazioni delle scelte che il pubblico ministero si trova a fare e che condizionano i risultati del suo agire. Dall’interpretazione, resa difficile dalla qualità della legislazione, alla rete delle fonti e fino all’impiego di risorse scarse rispetto a obiettivi non modificabili perché imposti dalla legge (obbligatorietà dell’azione), discendono conseguenze che comportano accountability e consapevolezza. 

 

5. Il più debole dei poteri?

L’imparzialità oggettiva e soggettiva e le manifestazioni esterne di entrambe si legano al ruolo della giurisdizione. Decisioni sgradite portano all’accusa di partigianeria. Le motivazioni del provvedimento del giudice o dell’iniziativa del pubblico ministero sono dunque irrilevanti: per gli interessati censori e polemisti conta solo la motivazione soggettiva, il perché soggettivamente politico, reso manifesto da comportamenti diversi dall’esercizio di atti di giudiziari. A tal proposito, qualcuno ha parlato di volontà contromaggioritaria, intendendo con questo una visione complottista della giurisdizione. Anche questo armamentario di reazione alla decisione sgradita – inaugurato per contrastare le vicissitudini giudiziarie di Silvio Berlusconi – è esportato ormai anche negli Stati Uniti. 

Siamo alle radici del costituzionalismo moderno, pur se i critici della giurisdizione ne sono a volte inconsapevoli[15]

Il n. 78 dei «Federalist Papers»[16], scritto da Alexander Hamilton con la firma “Publius”, è arcinoto per la definizione del giudiziario come «the Weakest of the Three Departments of Power», «il più debole dei poteri» (e anche il meno pericoloso, the «Least Dangerous Branch»[17]). 

Questa affermazione, tuttavia, è strettamente legata a una concezione rigorosa della separazione dei poteri.

Questa linea di riflessione era già nelle corde di Hamilton. Nei «Federalist Papers», infatti, si sottolinea che solo la separazione dei poteri garantisce le libertà – separazione che deve essere effettiva e che deve impedire commistioni tra poteri[18]. L’esperienza continentale, ben presente ai Costituenti, vedeva infatti proprio nell’esercizio del potere giudiziario, non separato realmente da altri poteri – non necessariamente di uno Stato centrale –, la massima minaccia alle libertà individuali. Tuttavia, nella visione dei Fondatori, il giudiziario può ledere in qualche occasione, prima o poi, «now and then»[19], la libertà degli individui quando il potere è male amministrato, ma non potrà mai costituire una minaccia per l’esistenza e la libertà di agire degli altri poteri: esso, infatti, è privo della «Spada» («the Sword») e della «Volontà» («the Will»), cioè non può usare la forza per eseguire le proprie decisioni ed è privo della potestà di porre i presupposti del suo agire, compito che spetta solo al legislatore.

Ma, ammonisce Hamilton richiamando “il molto celebrato” Montesquieu, ciò avviene se è davvero rispettata la divisione dei poteri, e non solo in senso formale. 

Naturalmente, qualunque tentativo di traslazione al tempo presente, ai sistemi costituzionali continentali e alle nostre recenti vicende sarebbe fuorviante. Basti pensare che, nel sistema cui si riferivano i Costituenti, non esisteva la figura del pubblico ministero e larga parte delle funzioni oggi svolte da un organo autonomo, variamente inserito nei contesti istituzionali, era svolta dall’esecutivo, al quale pure apparteneva l’Attorney general, istituito con il Judiciary Act del 1789. Il pubblico ministero poi, anche nel nostro ordinamento, è stato a lungo considerato dipendente dal Ministro o, comunque, dalle sue istruzioni anche nei casi specifici, quando non addirittura articolazione dell’esecutivo. Quindi, un’autorità giudiziaria in grado di dare esecuzione ai propri provvedimenti attraverso la diretta disponibilità di corpi di polizia autorizzati all’uso della forza non può ritenersi del tutto priva della Spada. Tuttavia, il senso profondo di quella riflessione è molto attuale per i suoi aspetti di principio, se ben se ne intende il rapporto con il complesso delle istituzioni nel cui contesto essi si inseriscono.

La previsione nella Costituzione del potere giudiziario, con al vertice la Corte Suprema, non pose particolari questioni teoriche o politiche. Fu anche abbastanza chiaro che le corti avrebbero dovuto avere il potere di annullare o disapplicare le leggi, quando in contrasto con la Costituzione: ciò discendeva infatti, come corollario, dalla previsione di una norma superiore e vincolante. 

I problemi sorsero però quando fu proposta l’introduzione nella Costituzione del complesso di emendamenti noto come Bill of Rights. La previsione costituzionale di diritti individuali e collettivi rendeva azionabili i diritti e, al contempo, controllabili le leggi o gli atti amministrativi, per la sovraordinazione della Costituzione alla legge federale o statale. 

Ma ciò, ci si chiese, non rende la Corte il vero legislatore? A queste preoccupazioni risponde innanzitutto Jefferson, che scrive a Madison: «tra gli argomenti a favore della dichiarazione dei diritti ne hai omesso uno che ha per me grande importanza, il controllo legale che tale dichiarazione mette nelle mani del giudiziario»[20]

Madison, peraltro, è preoccupato della tirannia che può essere esercitata dal corpo elettorale[21], più che da uno dei tre poteri sugli altri. È qui in nuce, con grande chiarezza, quanto mezzo secolo dopo Tocqueville renderà universalmente noto. 

Cito queste lontane note perché esse fanno emergere un aspetto del problema della judicial review che è oggi di assoluta attualità, e che si lega strettamente alla crisi della classica concezione della separazione dei poteri[22].

Jefferson, nel frattempo divenuto Presidente degli Stati Uniti, rimeditò progressivamente le sue affermazioni sulla prevalenza della Costituzione, interpretata e attuata da un potere giudiziario indipendente[23]. Egli si chiese in seguito se la Costituzione non potesse divenire «docile creta nelle mani dei giudici, che essi possono torcere e plasmare a loro piacimento» (trad. mia)[24], fino ad affermare che l’infinita gratitudine della società dovrebbe andare a un singolo fine: «impedire ai giudici di usurpare il legislativo»[25].

L’accusa al giudiziario e, in particolare, alle corti supreme di invadere la sfera del legislativo accompagna l’intera storia delle corti, con vari tentativi di influire sul loro funzionamento attraverso la modificazione dei sistemi di nomina e del numero dei giudici[26].

In anni a noi vicini, la questione si concentrò sugli strumenti di conformazione che i giudici andavano applicando, di cui è esempio davvero importante la vicenda del sovraffollamento delle carceri della California. In una storica sentenza, la Corte Suprema confermò la decisione della Corte d’appello dello Stato, disponendo la liberazione di 46.000 detenuti. La motivazione e le opinioni dissenzienti, soprattutto quella di Scalia, danno conto della radicale diversità delle visioni, a partire dai principi in giuoco e dall’interpretazione della Carta[27].

Il ruolo del controllo giudiziario per principi emerse con chiarezza nella polemica cui diede origine, agli inizi degli anni sessanta, uno studioso di Yale, il quale affermò che il ruolo attivo dei giudici era in violazione della separazione dei poteri e che esso si basava sulla non corretta interpretazione della questione della tirannia della maggioranza. In realtà, affermava Alexander Bickel, quella impostazione poneva la counter-majoritarian difficulty, cioè il ribaltamento della volontà della maggioranza, legittimamente espressa dal legislativo e dall’esecutivo[28]. La controversia, così definita, fu oggetto di vivaci polemiche, perché ad alcuni sembrò la scoperta dell’acqua calda, visto che essa andava avanti da più di 170 anni[29]; vi fu chi parlò di “ossessione” e chi invece affermò che il vero problema era la majoritarian difficulty, cioè la quadratura del cerchio, costituita dal coniugare un sistema giudiziario elettivo con il costituzionalismo[30].

Ciò che importa ai nostri fini è che si pone così – non per la prima volta – il tema della trasformazione dell’agire giudiziario, derivante dalla percezione da parte del giudice della tutela diretta dei diritti come sua missione contromaggioritaria

Missione che si complica sul piano interpretativo per molte ragioni (l’affermarsi della consapevolezza della rilevanza del linguaggio; il diffondersi dell’ermeneutica del diritto, contrastata dall’originalismo e dal testualismo, etc.), tra cui centrale il moltiplicarsi delle fonti del diritto. Se nell’ambiente di common law non poteva far scandalo che anche il precedente e dunque l’interpretazione contribuissero alla creazione della norma, appariva invece come una novità il riferimento ad altre fonti, esterne al sistema. Avvenne che la Corte Suprema citasse, nella motivazione su argomenti davvero sensibili (le affirmative actions, la pena di morte, le sanzioni penali contro gli omosessuali), sentenze di altri Paesi, tra cui quelle della Corte di Strasburgo. Ammissibilità e scopo di tali riferimenti furono oggetto di una celebre discussione tra i giudici della Corte Suprema Scalia e Breyer, aperta dalla domanda del costituzionalista Dorsen: «When we talk about the use of foreign court decisions in U.S. law, do we mean them to be authority or persuasive, or merely rhetorical?»[31]

È evidente il percorso a ritroso anche del dibattito che animò la politica giudiziaria italiana nelle scorse decadi, tra la politica attraverso i diritti e la loro assolutezza e la rivendicazione del bilanciamento tra diritti e tra questi e i “doveri”, cioè altri diritti o diritti di altri.

 

6. Conclusioni

Questa lunga digressione ci porta, però, al cuore del nostro tema. Siamo partiti dalla rilevanza che il tema ha sull’imparzialità del giudice (e, da noi, anche del pubblico ministero) e della sua apparenza esteriore. Interrogarsi oggi sul ruolo contromaggioritario del controllo giudiziario sugli atti del Governo e legislativi ha, però, qualche complicazione in più, almeno nell’ordinamento italiano.

L’insofferenza per la judicial review è incistata nell’idea stessa dell’esistenza di valori e di principi che consentono il controllo della libera attività del Legislatore e di quella del Governo, che dalla prima trae legittimazione. 

È forse su queste premesse che poggia l’ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari di Taranto rimise nuovamente la questione di legittimità costituzionale della previsione della “immunità penale” per l’ILVA, dopo la prima pronuncia del giudice delle leggi. Il quesito, depurato degli orpelli, è in fondo la domanda su chi alla fine sia competente a tutelare la salute dei cittadini[32]. È per questa riduzione al quesito centrale che si è scritto che le questioni di costituzionalità denunciavano, in realtà, un conflitto tra poteri[33]

Occorre, però, essere consapevoli che il tema che ha attraversato per oltre duecento anni il rapporto tra poteri si pone oggi in maniera diversa, almeno nel nostro ordinamento e, forse, nell’intera Europa.

Il giudiziario ha anche – almeno in parte – la Spada, perché dispone dell’azione penale, della polizia giudiziaria e dell’autonoma esecuzione delle sue decisioni, e ha anche – almeno in parte – la Volontà, per via della “creatività” dell’interpretazione, cosicché la norma positiva è quella che dalla interpretazione risulta. 

È ancora possibile definire il giudiziario come il più debole dei poteri? Qual è la conseguenza della risposta, almeno in parte negativa, sul dovere di imparzialità che grava sul pubblico ministero?

«Si potrebbe dire», con Francesco Palazzo, «che stiamo assistendo a un movimento evolutivo che va dalla democrazia verso i diritti fondamentali (…) così si ricerca la salvaguardia della persona direttamente nella affermazione dei diritti, saltando la mediazione costituita dalla, ormai inadeguata, mediazione della legge democratica». Dunque, «l’asse portante del principio di legalità si è spostato dall’esigenza politica del contenimento del potere del giudice e dell’esaltazione del ruolo monopolistico della fonte legislativa, all’esigenza universale di conoscibilità del precetto e di prevedibilità delle conseguenze della violazione in funzione del diritto fondamentale alla autodeterminazione della persona»[34].

Il primo fondamento dell’eguaglianza è la prevedibilità della decisione di attuazione del diritto. Se è vero che la certezza è mito all’origine di una vicenda storica non ripetibile, la prevedibilità è condizione essenziale perché i cittadini si riconoscano uguali dinanzi alla legge. 

La prevedibilità si lega indissolubilmente alla centralità del principio di legalità nel diritto penale. Principio che si invera nella precisione e determinatezza descrittiva delle norme incriminatrici, così che il precetto da osservarsi sia chiaramente percepibile dal cittadino, e dalla tendenziale uniformità dell’interpretazione, che abbia nella Corte di cassazione il custode della nomofilachia e nella Procura generale un propulsore della uniformità delle prassi. 

 

 

1. Il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 prevede, all’art. 54 («Codice di comportamento»), che per ciascuna magistratura e per l’Avvocatura dello Stato, gli organi delle associazioni di categoria adottano un codice etico a cui devono aderire gli appartenenti alla magistratura interessata. In caso di inerzia, il codice è adottato dall’organo di autogoverno. L’adozione di un codice di comportamento era già prevista dall’ultimo comma dell’art. 58-bis d.lgs 3 febbraio 1993, n. 29, introdotto nell’originario testo normativo sul pubblico impiego con il d.lgs 23 dicembre 1993, e abrogato dalla normativa sopra richiamata.

2. Su questi aspetti, si veda la magistrale ricostruzione di Enrico Scoditti, Magistrato e cittadino: l’imparzialità dell’interprete in discussione, in Questione giustizia online, 22 novembre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/magistrato-e-cittadino-l-imparzialita-dell-interprete-in-discussione), ora in questo fascicolo. L’ampia ricostruzione dell’Autore ripercorre il difficile dilemma del magistrato-cittadino nel partecipare alla vita pubblica, a partire dalla fondamentale differenza di approccio alla giurisdizione nel sistema statunitense e in quelli continentali, giungendo così alle pronunce della Corte di cassazione in sede disciplinare e a quelle della Corte costituzionale che legano l’imparzialità del magistrato, oggettiva e di apparenza, al tema dell’indipedenza e, dunque, dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.

3. Rinvio al nostro scritto, in corso di pubblicazione quale introduzione alla «Guida» della Ssm sulla comunicazione giudiziaria.

4. Il documento può essere consultato sul sito della Procura generale, sotto la voce «Orientamenti per gli Uffici di Procura» con il titolo «Comunicazione istituzionale e presunzione di innocenza». In esso si legge: «Va ribadito, in accordo con gli orientamenti consolidati del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei, che l’informazione della pubblica opinione in una società aperta è un primario interesse della collettività. Tale onere incombe anche sul pubblico ministero. Informare l’opinione pubblica non è un diritto di libertà del magistrato del pubblico ministero o del giudice, ma è un dovere preciso dell’Ufficio. 
L’informazione deve certamente essere corretta e imparziale; essa deve essere rispettosa della dignità della persona, come indicato dal Consiglio superiore della magistratura sin dalla delibera in data 11 luglio 2018. L’informazione deve essere anche completa ed efficace. Essa non può essere limitata se non dai principi sopra menzionati, oltre che dal dovere di riserbo per gli atti e le notizie che devono restare segrete o riservate, in quest’ultimo caso quando non vi è un interesse pubblico alla loro conoscenza. Ma al di là di questi limiti, imposti ora anche dalla legge, il pubblico ministero ha il dovere di comunicare».

5. Il difensore non può o, almeno, non potrebbe consapevolmente mentire al giudice o utilizzare prove di cui conosce la falsità. Sugli escamotage utilizzati per aggirare questo divieto nel sistema statunitense, molto più rigido dal punto di vista delle regole deontologiche e nel quale all’accusato è riconosciuto il diritto di tacere, ma non quello di mentire – come dovrebbe essere ovvio in un vero sistema adversarial… – si vds. il romanzo di A.M. Dershowitz, The Advocate’s Devil, Grand Central Publishing, New York, 1994 (ed. it.: Il Demone dell’Avvocato, Mondadori, Milano, 1995). Grande studioso liberal, docente nelle più prestigiose università, divenne famoso al grande pubblico per l’organizzazione della difesa di O.J. Simpson, fatto che riproduce paradossalmente la vicenda narrata, l’anno prima, nel romanzo. Qui, l’accusato di stupro, una volta assolto grazie alle astuzie che gli hanno consentito di mentire, rivolge le sue attenzioni alla figlia minorenne dell’avvocato…

6. Si rinvia alla relazione introduttiva della sessione sull’indipendenza tenuta da A. Mura, Aspetti essenziali dell’indipendenza dei procuratori; sua rilevanza rispetto all’indipendenza dei giudici; responsabilità (accountability) del pubblico ministero, Palermo, 5 maggio 2022 (https://rm.coe.int/theme-1-mura-it/1680a6a457). La seduta inaugurale della Conferenza può essere ascoltata integralmente su Radio Radicale. Sulla indipendenza interna del magistrato del pubblico ministero, nella prospettiva qui discussa, rinvio a P. Gaeta, L’organizzazione degli uffici di procura, in Questione giustizia online, 18 dicembre 2019 (www.questionegiustizia.it/articolo/l-organizzazione-degli-uffici-di-procura_18-12-2019.php).

7. Legame affermato dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 84 del 1979, ove si statuiva che «l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale ad opera del Pubblico Ministero (…) è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del Pubblico Ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale». Temi ripresi dalla sentenza n. 88 del 1991, per tanti aspetti decisiva nel delineare il ruolo del pubblico ministero e del giudice nel processo riformato. 

8. Altro legame, quello con il perseguimento dell’eguaglianza dinanzi alla legge, affermato dalla Corte in alcune decisioni, tra cui le sentt. nn. 190/1970 e 96/1975.

9. Ad esempio, la sentenza della Corte di Lussemburgo [GS] nel caso Prokuratura, C-746/18, 2 marzo 2021.

10. Questione giustizia ha dedicato molto spazio a questo tema. Segnalo un importante scritto del suo Direttore, Nello Rossi: Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, pp. 16-31 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/933/2-2021_qg_rossi.pdf). Si vedano anche i nostri Organizzazione del pubblico ministero e Procura generale presso la Corte di cassazione, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 5/2011, pp. 187-207, e Discrezionalità, responsabilità, legittimazione democratica del pubblico ministero, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, pp. 32-37 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/934/2-2021_qg_salvi.pdf).

11. Francesco Palazzo affronta con particolare vigore il tema, parlando di «tradimento della legalità» anche da parte del legislatore, per la indeterminatezza spesso voluta della legge penale e per la riduzione della riserva di legge a mera fonte. «L’eterno problema della determinatezza della legge penale, condizione fondamentale della auspicata legalità in azione, ha mutato per così dire collocazione concettuale, avendo ormai definitivamente abbandonato il piano linguistico della parola legislativa, per installarsi su quello della interpretazione da parte del giudice» – F. Palazzo, Legalità tra Law in the Books e Law in Action, in Diritto penale contemporaneo, 13 gennaio 2016 (www.antoniocasella.eu/archica/Palazzo_2016.pdf). 

12. F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in Dir. pen. cont. Il lavoro è pubblicato anche nel volume curato da C.E. Paliero - S. Moccia - G.A. De Francesco - G. Insolera - M. Pelissero - R. Rampioni - L. Risicato, La crisi della legalità. Il “sistema vivente delle fonti penali”, ESI, Napoli, 2016, che raccoglie gli atti del Convegno annuale dell’Associazione dei professori di diritto penale svoltosi presso l’Università “Federico II” di Napoli, il 7 e 8 novembre 2014.

13. I provvedimenti possono essere letti nel sito della Procura generale, sotto la voce «Orientamenti per le procure della Repubblica», e riguardano la crisi di impresa, l’adozione e l’esecuzione di misure detentive e restrittive, i criteri di valutazione penale delle scelte dei sanitari, il sequestro penale in rapporto ai poteri dell’AIFA; a questi si aggiungono orientamenti in materie ordinarie, quali la comunicazione del pubblico ministero e i rapporti delle procure con la DNAT. 

14. I provvedimenti citati e altri ancora, ad esempio, in materia di intercettazioni o di “segnalazioni di operazioni sospette” (sos), possono essere consultati nel sito: www.procuracassazione.it.

15. Rielaboro qui il testo della relazione inedita, presentata nel Convegno di Padova: «Autorità Pubbliche e Libertà del cittadino», 23 ottobre 2021. Un cenno a tale questione è anche in Discrezionalità, op. cit.

16. I Federalist Papers sono liberamente accessibili sul sito della Library of Congress degli Stati Uniti: https://guides.loc.gov/federalist-papers/full-text.

17. «Whoever attentively considers the different departments of power must perceive, that, in a government in which they are separated from each other, the judiciary, from the nature of its functions, will always be the least dangerous to the political rights of the Constitution; because it will be least in a capacity to annoy or injure them. The Executive not only dispenses the honors, but holds the sword of the community. The legislature not only commands the purse, but prescribes the rules by which the duties and rights of every citizen are to be regulated. The judiciary, on the contrary, has no influence over either the sword or the purse; no direction either of the strength or of the wealth of the society; and can take no active resolution whatever. It may truly be said to have neither FORCE nor WILL, but merely judgment; and must ultimately depend upon the aid of the executive arm even for the efficacy of its judgments».

18. «It proves incontestably, that the judiciary is beyond comparison the weakest of the three departments of power; that it can never attack with success either of the other two; and that all possible care is requisite to enable it to defend itself against their attacks. It equally proves, that though individual oppression may now and then proceed from the courts of justice, the general liberty of the people can never be endangered from that quarter; I mean so long as the judiciary remains truly distinct from both the legislature and the Executive. For I agree, that “there is no liberty, if the power of judging be not separated from the legislative and executive powers».

19. Federalist Papers, n. 78.

20. Thomas Jefferson a James Madison, 15 marzo 1789: «In the arguments in favor of a declaration of rights, you omit one which has great weight with me, the legal check which it puts into the hands of the judiciary. This is a body, which if rendered independent, and kept strictly to their own department merits great confidence for their learning and integrity».
La ricostruzione della nascita del Bill e del dibattito interno ai Federalisti è ben più complessa di quanto possa fare un non studioso, ma solo curioso, del costituzionalismo americano, quale chi scrive… Rinvio, oltre che a B. Ackerman, We the People. Foundations, vol. 1, Harvard University Press, Cambridge (Massachusets), a A.R. Amar, America’s Constitution. A Biography, Random House, New York, 2005, e, in particolare, al suo The Bill of Rights, Yale University Press, New Haven (Connecticut), 1998.

21. «In our government it is, perhaps, less necessary to guard against the abuse in the executive department than any other; because it is not the stronger branch of the system, but the weaker: It therefore must be levelled against the legislative, for it is the most powerful, and most likely to be abused, because it is under the least controul; hence, so far as a declaration of rights can tend to prevent the exercise of undue power, it cannot be doubted but such declaration is proper. But I confess that I do conceive, that in a government modified like this of the United States, the great danger lies rather in the abuse of the community than in the legislative body. The prescriptions in favor of liberty, ought to be levelled against that quarter where the greatest danger lies, namely, that which possesses the highest prerogative of power: But this [is] not found in either the executive or legislative departments of government, but in the body of the people, operating by the majority against the minority» – J. Madison, Defense of the Bill of Rights in Congress, 8 giugno 1789.

22. Infatti, il dibattito si accese intorno ai limiti del controllo giurisdizionale quando si trattò di approvare i dieci emendamenti che costituiscono il Bill of Rights e a seguito delle prime applicazioni del principio di prevalenza della Costituzione sulla legislazione, anche per i complessi profili attinenti ai rapporti tra legislazione nazionale e federale. Se per Jefferson solo la previsione in Costituzione delle garanzie dà corpo alla tutela delle libertà individuali, divenne chiaro che la giurisdizione per principi metteva nelle mani del giudice un potere assai ampio. I primi anni della Corte furono subito segnati dalle polemiche sul ruolo effettivo che il giudiziario avrebbe dovuto svolgere, fino allo spartiacque di Marbury v. Madison (1803), nella quale la Corte decise disapplicando una legge federale, per conflitto con la Costituzione, aprendo la via al controllo di costituzionalità con la legittimazione del judicial review: «O la Costituzione è una legge superiore prevalente, non modificabile con gli strumenti ordinari, oppure è posta sullo stesso livello della legislazione ordinaria e, come le altre leggi, è alterabile quando il legislatore ha piacere di alterarle. Se la prima parte dell’alternativa è vera, allora una legge contraria alla Costituzione non è legge; se la seconda parte è vera, allora le Costituzioni scritte sono un tentativo assurdo, da parte del popolo, di limitare un potere per sua stessa natura illimitabile». 

23. «Nothing in the Constitution has given them [the federal judges] a right to decide for the Executive, more than to the Executive to decide for them (…). The opinion which gives to the judges the right to decide what laws are constitutional and what not, not only for themselves, in their own sphere of action, but for the Legislature and Executive also in their spheres, would make the Judiciary a despotic branch» – lettera ad Abigail Adams, 11 settembre 1804 (https://tile.loc.gov/storage-services/service/mss/mtj/mtj1/030//030_0802_0803.pdf, p. 6). La corrispondenza citata è liberamente accessibile, oltre che dal database della Library of Congress, sul sito dei National Archives (https://founders.archives.gov/).

24. «The Constitution had become “a mere thing of wax in the hands of the judiciary, that they may twist and shape into any form they please”», Thomas Jefferson a Spencer Roane, 6 settembre 1819. La frase va però inserita nel contesto, che ne limita la forza e la pone in realtà come conseguenza delle suggestioni poste dal suo interlocutore nella lettera cui Jefferson rispondeva. 

25. «One single object (…) [will merit] the endless gratitude of the society: that of restraining the judges from usurping legislation» – lettera a Edward Livingston, 25 marzo 1825.

26. Il paradossale culmine del contrasto fu in realtà raggiunto nei primi anni di funzionamento della Corte, quando essa ammise la legittimità della citazione in giudizio dello Stato della Georgia da parte di un cittadino di un altro Stato, così annullando la legge che lo impediva. La reazione contro Chisholm v. Georgia fu in genere violenta. La Camera della Georgia, però, andò oltre, approvando una proposta di legge che comminava la pena di morte per impiccagione ai funzionari pubblici che avessero dato esecuzione alla sentenza. La legge, approvata, non fu mai promulgata, ma è certamente indicativa del clima dei primi anni di funzionamento della Corte. Cfr. P. Irons, A People’s History of the Supreme Court, Penguin, Londra, [2000] 2006 (ed. riveduta), pp. 93 ss.

27. Le sentenze, da noi tradotte e brevemente commentate, sono pubblicate su Questione giustizia: Ridurre la popolazione carceraria è un dovere giuridico (leggendo Three Judges Court – California, 8 aprile 2009), in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 5/2009, pp. 1-29; «La Costituzione non permette questo torto». La Corte Suprema degli Stati Uniti e il sovraffollamento carcerario, ivi, n. 6/2011, pp. 205-229. 

28. A.M. Bickel, The Least Dangerous Branch: The Supreme Court at the Bar of Politics, Yale University Press, New Haven, [1966] 1986. Vds. la bella intervista di Roberto Conti a Guido Calabresi su Giustizia insieme: Un’intervista impossibile, 13 settembre 2021, nella quale il tema è attualizzato (www.giustiziainsieme.it/en/le-interviste-di-giustizia-insieme/1925-un-intervista-impossibile-a-guido-calabresi).

29. B. Friedman, The History of the Counter-Majoritarian Difficulty – Part One: the Road to Judicial Supremacy, in New York University Law Review, vol. 73, n. 2/1998, nel quale vi è un’ampia discussione della letteratura in materia. Per tutti, vds. B. Ackerman, We the People, op. cit. 

30. S.P. Croley, The Majoritarian Difficulty. Elective Judiciaries and the Rule of Law, in University of Chicago Law Review, vol. 62, n. 2/1995, pp. 689-694 (citato in B. Friedman, The Hystory, op. cit.).

31. Cfr. N. Dorsen, The Relevance of Foreign Legal Materials in U.S. Constitutional Cases: A Conversation between Justice Antonin Scalia and Justice Stephen Breyer, in International Journal of Constitutional Law, vol. 3, n. 4/2005, p. 519.

32. «Adempiendo alle prescrizioni del Piano, dunque, verrebbe meno il contrasto tra un fatto eventualmente conforme ad una fattispecie incriminatrice (l’inquinamento e/o il disastro ambientale ad es., ma anche la meno grave ipotesi dell’art. 674 c.p.) e l’ordinamento giuridico, poiché a insindacabile giudizio del legislatore l’attuazione del Piano è il miglior mezzo per raggiungere uno scopo comunque meritevole di tutela, quale la prosecuzione dell’attività aziendale, o perché ritenuto prevalente su altri interessi in conflitto, o perché le misure di quel Piano costituiscono, ex lege, il giusto contemperamento tra interesse alla produzione e contro-interessi lesi dall’attività di impresa (salute, ambiente, integrità dei luoghi di lavoro ecc.). Tra la regola penale generale che impone di non mettere in pericolo la salute e l’ambiente e quelle, altrettanto generali, che consentono l’attività produttiva, anche se rischiosa, entro i limiti delle autorizzazioni all’esercizio di una certa industria, la soluzione è stata imposta a livello oggettivo, con prevalenza della regola autorizzatoria su quella penale, privando il fatto (tipico) della sua antigiuridicità»: ordinanza del Gip di Taranto, 8 febbraio 2019. Il 9 ottobre 2019, la Corte costituzionale ha restituito gli atti al giudice remittente, il quale, «considerato che nel frattempo il legislatore è intervenuto due volte (dl n. 34 del 2019 e, successivamente, dl n.101 del 2019, in corso di conversione in legge), dovrà valutare se permangono la rilevanza delle questioni e i dubbi di legittimità costituzionale».

33. V. Onida, Un conflitto fra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambente. Nota a Corte cost., sent. n. 85/2013, in Rivista AIC, n. 3/2013 (www.rivistaaic.it/images/rivista/pdf/3_2013_Onida_3.pdf).

34. F. Palazzo, Legalità, op. cit.