Giudici imparziali solo se consapevoli della loro funzione contromaggioritaria
Il dibattito sull’imparzialità del giudice è impregnato del pregiudizio verso le correnti progressiste, ritenute “politicizzate”, a differenza di quelle di centrodestra, ritenute “apolitiche”, sebbene la storia smentisca questa narrazione, che sconta l’idea di una magistratura allineata alle scelte di governo. L’imparzialità è un dovere tanto quanto la consapevolezza della funzione contromaggioritaria propria degli organi di garanzia. Che non è “opposizione giudiziaria”, ma sana dinamica istituzionale di una democrazia costituzionale.
1. Premessa / 2. Il collateralismo / 3. L’indipendenza / 4. Apparire imparziali / 5. Misurare l’imparzialità / 6. I giudici non appartengono a nessuno
1. Premessa
Nel 2006 andai a Parigi per un reportage sulla giustizia francese, rimasi più di un mese e incontrai moltissimi magistrati e vertici giudiziari. Una mattina avevo appuntamento con uno di loro in un caffè del VII arrondissement. Era un giudice di corte d’appello. Quando arrivò, si presentò dicendo, senza alcuna enfasi: “Buongiorno, io sono un giudice comunista”. Rimasi colpita da quell’insolita presentazione e perciò gli domandai se in Francia fosse usuale che i giudici dichiarassero le proprie idee politiche ai rispettivi interlocutori. Lui mi spiegò che riteneva normale, oltre che corretto, far conoscere il proprio orientamento culturale e persino politico nell’affrontare temi di politica giudiziaria, ed era convinto che questa trasparenza non compromettesse affatto la sua imparzialità. Del resto tanti giudici francesi non facevano, e non fanno, mistero dei loro diversi orientamenti “correntizi”.
Già, perché anche in Francia, e non solo in Francia, i magistrati aderiscono alle “vituperate” correnti, demonizzate in Italia da una politica ipocrita che le usa come clava contro la loro imparzialità. Non vale per tutti: se sei di Magistratura democratica o di Area non puoi essere imparziale perché sei di sinistra, e quindi per definizione sei un estremista, comunque un “politicizzato”; se sei di Unicost e di Magistratura indipendente, invece, sei per definizione imparziale e affidabile, equilibrato e moderato, perché queste doti vengono associate alla politica di centrodestra (sic). Un approccio viziato dal pregiudizio e, tuttavia, consolidato.
Dopo la nota vicenda dell’Hotel Champagne e nonostante le risultanze processuali, Luca Palamara è diventato un martire della libertà e della correttezza, Unicost (la sua corrente di appartenenza) ne è uscita distrutta, ma Mi (che dalle risultanze processuali partecipava a quello che Palamara ha definito il “sistema”) si è addirittura rafforzata, e non solo numericamente. La narrazione pseudogarantista mediatica e politica di quella vicenda ha sentenziato infatti, in barba alle risultanze processuali, che i veri responsabili del “sistema” sono gli altri, i “sinistri”, quelli che non c’erano ma che non potevano non sapere e, anzi, certamente facevano e fanno peggio. Paradossi del garantismo double face.
2. Il collateralismo
Così come oggi piace alla destra definirsi “afascista”, durante il ventennio piaceva che i giudici fossero apolitici, ovvero che non facessero politica né in favore del Governo e del fascismo né, soprattutto, contro il Governo e il fascismo, secondo quanto spiegò l’allora Guardasigilli Alfredo Rocco di fronte al Parlamento. Dovevano, però, interpretare e farsi carico dello spirito del tempo fascista, e questo faceva la stragrande maggioranza dei magistrati, che peraltro inneggiava al duce quale «redentore della Patria» e «apostolo della nuova gente italica». Apolitici, appunto. La realtà era quella di un corpo di magistrati pienamente allineati al regime, anche per effetto delle continue intimidazioni che subivano, e di una giurisprudenza conformista, che interpretava la legge proprio in modo adesivo allo “spirito politico” del tempo e all’indirizzo del Governo. Insomma, un vero e proprio collateralismo, soprattutto ai piani alti della Cassazione.
Ci volle un Ministro di provata fede liberale come Vincenzo Arangio Ruiz, nel 1944, cioè all’indomani della caduta del fascismo e prima ancora della Liberazione, per voltare pagina, rimuovendo il divieto imposto ai magistrati di esprimere liberamente il proprio pensiero, di svolgere attività politica e persino di iscriversi ai partiti politici. Che siano iscritti o meno ai partiti, ragionava Arangio Ruiz, un giudice non può non avere le sue opinioni e le sue relazioni, «tanto più efficaci quanto più nascoste».
Negli anni cinquanta del secolo scorso, Piero Calamandrei denunciava – in un libretto famoso, dal titolo «Dieci anni dopo» – il «disfattismo costituzionale» della maggioranza di governo che, aggiungeva, poteva continuare a far affidamento su una magistratura, soprattutto di Cassazione, ancora in larga parte conservatrice rispetto alla legislazione fascista rimasta in vigore. Scriveva Calamandrei: «La giurisprudenza, anche se i giudici non se ne accorgono, è fortemente influenzata dal clima politico generale: quando nell’aria si respira il disfattismo costituzionale, è difficile che i giudici riescano ad assumere su di sé il compito faticoso e spesso pericoloso, di difendere la Costituzione contro gli arbitrii del governo. A consigliare alla magistratura questa prudenza, in momenti in cui liberamente circolano liste di proscrizione contro i magistrati sospetti di “criptocomunismo”, può aver contribuito anche, in questi anni, la mancata attuazione delle norme costituzionali sul Csm, che avrebbe dovuto dare ad essa quella piena indipendenza dal potere esecutivo che finora essa organicamente non ha». Era, quella, imparzialità?
3. L’indipendenza
Dalla fase del collateralismo si è fortunatamente passati a quella dell’indipendenza. Oggi la Cassazione è senz’altro il fronte più avanzato della magistratura ordinaria a tutela dei diritti fondamentali. Un traguardo importante per una democrazia costituzionale. Eppure, gli attacchi delle destre di governo ai giudici, e alla loro non imparzialità, sono un refrain costante. Naturalmente, l’attacco non è mai alla magistratura in quanto tale, ma “ai pochi giudici politicizzati” rispetto ai “tanti che lavorano in silenzio lontano dai riflettori mediatici e dalla politica”. E quei “pochi” sono sempre quelli “di sinistra”, che pronunciano decisioni politicamente sgradite, non allineati alle politiche di governo, spesso additati con nome e cognome solo per metterli alla pubblica gogna, forse dossierati, chissà, raccontati dai numerosi media variamente cortigiani con numero di scarpa, colore dei calzini, taglio dei capelli, giornali acquistati e per altre amenità; corteggiati mediaticamente per motivi di audience e subito dopo non solo manipolati nelle loro parole, ma anche strapazzati per aver parlato, spiegato, risposto a domande, perché a parlare si fa peccato visto che un giudice, si sa, deve “parlare solo con le sentenze”. La loro vita è spiata nei minimi particolari per l’ansia di trovare qualcosa che ne provi l’inaffidabilità, la partigianeria, persino una qualche stranezza mentale, tutto fa brodo per sentenziare che “non sono imparziali”, “fanno politica con le decisioni”, “sono troppo sotto i riflettori”. Quei giudici pensano, si confrontano, decidono. Ergo: vanno silenziati, perché “se la sono cercata”, espressione che piace tanto anche ai liberali di oggi. I quali delegittimano senza scrupolo, dimenticando o fingendo di dimenticare, l’ABC della democrazia costituzionale, che vuole giudici, e in generale organi di garanzia, non solo indipendenti e imparziali ma anche consapevoli della loro funzione “contromaggioritaria”, ovvero di limite ai poteri delle maggioranze, espressione che però viene travisata strumentalmente dalle destre e, purtroppo, anche dalla stampa – non solo da quella cortigiana – e che perciò diventa “opposizione giudiziaria”, “contraltare del potere”, funzione “controgovernativa”, “antagonismo”, e hai voglia a spiegare e rispiegare che non è questo, è un’altra cosa: non c’è verso, non c’è voglia di capire né di ascoltare che il sistema di pesi e di contrappesi funziona così ed è un aspetto cruciale della democrazia costituzionale. Ma intanto il gioco è fatto: nell’opinione pubblica si insinua e poi si consolida l’immagine di una magistratura sovversiva, che va normalizzata. Siamo di fronte a una nuova forma di maccartismo, accettato o subìto, sintomatico della fragilità della nostra democrazia costituzionale.
4. Apparire imparziali
Da un lato, dunque, ci sono le “toghe rosse”, gli agitatori, gli estremisti, i comunisti. Dall’altro lato i conservatori, i saggi, i moderati, fedeli alla legge, capaci di interpretarla con equilibrio e imparzialità, silenti e riservati, quelli che, politicamente parlando, si collocano nel centrodestra. E ci sarebbe da chiedersi quante volte questi sedicenti moderati, aspiranti al quietismo assoluto, siano stati “condizionati” nel loro giudizio – oltre che dallo “spirito politico del tempo” – anche dall’esigenza di “apparire” moderati, magari anche a costo di rinunciare a una giustizia (più) giusta o alla tutela (più) effettiva di un diritto, per paura di “apparire” troppo vicini ai giudici “politicizzati” e quindi di subire il medesimo trattamento. È l’altra faccia dell’apparire imparziali, un dovere di tutti i giudici, certo, che però può portare anche a queste distorsioni, soprattutto nei momenti storici di cui parlava Calamandrei (ovvero quando nell’aria tira il vento del disfattismo costituzionale e circolano liste di proscrizione di magistrati comunisti). Più in generale, la vulgata che la partigianeria della magistratura si collocherebbe solo a sinistra è una caricatura della storia.
Cominciamo a chiamare, allora, le cose con il loro vero nome. Anche perché farlo non significa affatto gettare un’ombra sull’imparzialità dei giudici. Personalmente, non ho mai dubitato di Piero Luigi Vigna, Margherita Cassano, Antonello Mura, Antonio Patrono, Marcello Maddalena, Maurizio Laudi, Paolo Borsellino, solo per citare alcuni nomi di bravi magistrati, aderenti a Mi, che ho conosciuto personalmente e che, pur avendo fatto in prima persona, quasi tutti, attività associativa nelle correnti di centrodestra, hanno sempre dimostrato professionalità, terzietà e imparzialità nel giudicare, al pari di tanti loro colleghi di Md e di Area. La stessa cosa ho avuto già modo di dire di Alfredo Mantovano: è stata Giorgia Meloni a volerlo come suo braccio destro alla Presidenza del Consiglio (dunque per un incarico politico di natura fortemente fiduciaria) mentre sedeva come giudice di cassazione, dove era tornato dopo una lunghissima militanza politica in Alleanza nazionale, in Parlamento e al Governo. Chi, più di Mantovano, può vantare un profilo politico così marcato, anche su posizioni fortemente ideologiche (pensiamo a quelle in materia di famiglia e di religione). Ho conosciuto Mantovano quando era parlamentare e sottosegretario, ma non ho mai pensato, fino a prova contraria, che una volta tornato a fare il giudice lo facesse in modo partigiano a causa della sua appartenenza a Mi o, peggio, della sua militanza politica. Né mi risulta che sia mai stato attaccato per questo dai colleghi o dagli attuali avversari politici.
5. Misurare l’imparzialità
E allora bisogna chiedersi perché lo stesso metro – che poi è il metro della civiltà, del rispetto, del vero garantismo – non venga usato anche per i giudici delle correnti di sinistra, ovviamente sempre fino a prova contraria sulla loro imparzialità e indipendenza. Il presupposto è lo stesso: l’imparzialità non si misura sulla base dell’appartenenza a una corrente né a un orientamento culturale e persino politico (tanti i magistrati che dopo un’esperienza politico-parlamentare sono tornati a fare i giudici in maniera impeccabile, tanto che, giustamente a mio parere, non è cambiata la legge sull’accesso delle toghe in politica e sul loro rientro in magistratura); non può certo essere stabilita con il metro del pregiudizio e neppure della correttezza giuridica delle decisioni adottate, soggette agli ordinari rimedi processuali. L’imparzialità, oltre a essere “il” dovere principale di chi sceglie di fare il giudice, fa parte della cultura del magistrato e della sua visione della giurisprudenza come mezzo di tutela dei diritti fondamentali. I “giudici democratici” hanno una visione più dinamica della giurisprudenza, che si forma anche attraverso l’interpretazione evolutiva, conforme a Costituzione e al diritto internazionale; i “giudici moderati” hanno una visione più statica, legata alla lettera della legge, oltre la quale ritengono di non potersi spingere. Ma questa interpretazione “originalista”, come pure viene chiamata – e rivendicata persino rispetto alla Costituzione – è stata abbandonata cinquant’anni fa, con il Congresso di Gardone dell’Anm, che si concluse con una mozione, votata all’unanimità da tutte le correnti, sul ruolo del giudice, che «deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione».
Da lì, da quel Congresso – era il 1965 – emerge quindi una nuova figura di giudice, che si apre all’esterno, esce dalla Torre d’avorio, si confronta con le criticità del Paese e le grandi questioni sociali, proponendosi come interlocutore primario nel dibattito politico, sociale, culturale. Lo ricorda bene Gabriella Luccioli, all’epoca magistrata venticinquenne chiamata a fare da ufficio stampa del Congresso. Nel suo libro «Diario di una giudice» ricorda che a Gardone fu esaltato il valore supremo dell’indipendenza come fonte di legittimazione del compito di giudicare e del potere di tutelare i diritti dei cittadini. Un’indipendenza da vivere non più come sacerdotale isolamento dalla società civile, ma come elemento essenziale e irrinunciabile della giurisdizione.
A parlare, in quell’occasione, furono tutte le correnti dell’Anm, proiettate verso una nuova costruzione del ruolo della magistratura come garante dei diritti fondamentali di tutti i cittadini, in particolare dei più deboli, e come soggetto impegnato anche a promuovere e attuare i principi costituzionali, con la consapevolezza della valenza politica dell’attività giudiziaria e della collocazione del giudice nella società.
All’epoca, Mantovano aveva 7 anni, Carlo Nordio 18 e Giorgia Meloni non era ancora nata. Il che non li giustifica, visti i ruoli che ricoprono, quando rilanciano il modello di giudice “bocca della legge”. A meno di voler riportare in auge il modello di magistratura dei tempi del fascismo.
Certo, anch’io, come ogni cittadino, temo giudici che non siano imparziali e indipendenti, preda di un delirio di onnipotenza, imprudenti e sciatti. Temo soprattutto quei giudici che non interpretano fino in fondo il proprio ruolo in funzione di garanzia dei diritti delle persone. L’effettiva imparzialità, però, si coltiva anche attraverso la libertà delle idee e il rifiuto del conformismo. Se ci pensiamo, vale anche per noi giornalisti. Quando raccontiamo i fatti, ovviamente li interpretiamo, ma non li manipoliamo (o almeno non dovremmo). Il che non ci impedisce di avere, ciascuno, le proprie idee politiche e anche di prendere posizione.
Personalmente, ho e voglio continuare ad avere fiducia nei giudici qualunque sia il giornale che comprano, la religione che professano o che non professano, l’orientamento sessuale in cui si riconoscono, il colore della pelle, le idee che esprimono pubblicamente, alla luce del sole. Temo invece il giudice narcisista e burocrate, quello che dice di non avere idee politiche, che si considera solo “bocca della legge”. Come Calamandrei, apprezzo «i giudici con l’anima», uomini e donne sociali, calati nella realtà e consapevoli degli effetti delle loro decisioni, costretti a notti insonni per il peso dell’immane responsabilità del giudicare.
6. I giudici non appartengono a nessuno
In questo senso, i giudici non appartengono a nessuno se non alla Costituzione. Perciò si resta di stucco nel sentire la Presidente del Consiglio rivendicare, ad esempio, «le stesse prerogative della sinistra» nella scelta dei giudici costituzionali spettanti al Parlamento. Ammesso, e non concesso, che la sinistra – quando era maggioranza di governo – abbia davvero esercitato quel dovere istituzionale come se fosse una prerogativa fare il pieno di giudici costituzionali di nomina parlamentare, le parole della premier sono gravi perché, anziché prendere le distanze da una prassi che – se fosse vera, ma non lo è – sarebbe assolutamente inaccettabile sul piano istituzionale, la fa propria, la rivendica, la sbandiera. E così, proprio come Trump, sembra marciare a passo deciso verso la nomina dei “suoi” giudici, rivelando una concezione privatistica delle istituzioni e delle donne e degli uomini che le rappresentano. Allora sì che la Corte costituzionale sarà considerata un attore politico. Come del resto i giudici ordinari, se dovesse mai passare la riforma sulla separazione delle carriere e su un Csm più «equilibrato politicamente» (sic). Con tanti saluti allo Stato di diritto. Quei giudici – che Meloni, come già fa Trump, potrà chiamare “i miei giudici” – saranno e appariranno mai imparziali? Nonostante il gravissimo strappo istituzionale, che non potrebbe lasciare indifferenti le più alte cariche istituzionali, forse sì, potrebbero ancora essere e apparire imparziali, a condizione che continuino a esistere una Corte costituzionale pluralista, capace di far cambiare pelle anche ai giudici più connotati politicamente, e un Csm indipendente dalla politica, vero presidio dell’indipendenza dei giudici. E sempre che, sulla cultura privatistica delle istituzioni, prevalga la cultura costituzionale del pluralismo delle voci, dell’indipendenza degli organi di garanzia, e dell’intima imparzialità dei giudici.