Un connubio inconciliabile: legittimazione democratica e imparzialità dei giudici e dei prosecutors negli Stati Uniti
L’articolo descrive il dilemma vissuto dal sistema statunitense statale che – unico al mondo – ha scelto di eleggere tanto i giudici quanto gli organi dell’accusa. Quanto più cresce la loro legittimazione democratica, tanto più diminuisce la legittimazione quali organi imparziali. La tensione fra democrazia e imparzialità si è decisamente accentuata negli ultimi decenni, creando un’impasse di difficile soluzione che – se non risolta – rischia di trasformare a tutti gli effetti il giudiziario e i prosecutors statali statunitensi del XXI secolo in un terzo potere politico, come tale privo della capacità di rappresentare la giustizia.
1. Introduzione / 2. Giudici elettivi e loro recente iper-politicizzazione / 3. Giudici elettivi e majoritarian difficulty / 4. Giudici elettivi e pericoli di favoritismo / 5. Il contrappeso mancato della giuria / 6. Prosecutors elettivi e tensione latente fra democraticità e neutralità / 7. Prosecutors elettivi, la tensione scoppia: il recente scontro fra poteri dello Stato / 8. Conclusioni
1. Introduzione
Non c’è sistema giuridico in cui la politica e il reclutamento dei giudici e degli organi dell’accusa siano più intrecciati fra di loro di quello statunitense, con tutto ciò che ne segue in termini di messa in crisi dell’imparzialità degli stessi. Ciò è vero sia sul piano federale che sul piano statale, nonostante i modi di reclutamento siano nei due casi differenti. A livello federale il meccanismo è politico, ma non direttamente democratico: tanto i giudici che i prosecutors (U.S. Attorney General e U.S. District Attorneys) sono, infatti, nominati dal Presidente con l’«advice and consent» del Senato (art II, sez. 2, Cost. federale). I prosecutors durano però in carica 4 anni, mentre i giudici mantengono a vita il loro incarico «during good behavior» (art III, sez. 1, Cost. federale) e possono essere rimossi solo attraverso il meccanismo dell’impeachment. Si pone, pertanto, nei confronti dei giudici federali la cd. “counter-majoritarian difficulty”, laddove essi interpretano le leggi – e, soprattutto, possono dichiararle incostituzionali – senza avere alcuna responsabilità di tipo politico nei confronti del demos, pur essendo tuttavia stati politicamente scelti. Una “difficoltà” che essi possono superare solo fornendo di sé un’immagine di tecnici puri, massimamente rispettosi della rule of law e, quindi, in nessun modo condizionati nelle loro decisioni dal “vizio di origine” di aver ricevuto una nomina politica. Ciò che, per i motivi che in altri lavori ho analizzato e a cui mi permetto di rimandare[1], soprattutto da ultimo si presenta assai problematico.
È invece sul tema dell’intreccio fra politica e reclutamento sul piano statale dei giudici e dei prosecutors che vorrei, in questa sede, soffermare l’attenzione. In relazione ad essi si pone qui l’opposto problema rispetto a ciò che avviene sul piano federale: si presenta per loro, cioè, la questione di una “majoritarian difficulty”. In quanto democraticamente eletti o democraticamente confermati per un tempo determinato – in un contesto vieppiù politicizzato, come si avrà modo di spiegare – essi infatti rispondono alla maggioranza che li ha eletti o confermati, rischiando però di pretermettere i diritti e gli interessi della minoranza che non li ha votati. Ciò è tanto più vero se vorranno ripresentarsi al turno successivo, giacché verranno presumibilmente rieletti o riconfermati solo se le decisioni assunte o le scelte compiute nell’esercizio dell’azione penale durante il precedente mandato saranno state in sintonia con la visione della maggioranza che li aveva eletti.
Per avere chiaro un quadro che – per la grande varietà delle soluzioni a livello statale di cui si compone – è particolarmente complesso, occorre poi sottolineare come nella visione americana, certamente almeno dal realismo giuridico in poi, il diritto non sia considerato esclusivo appannaggio del legislatore, anche se costituzionale. Secondo un ormai disincantato approccio alle fonti del diritto e alla creazione della norma giuridica (anche non di common law), alla configurazione di quest’ultima contribuisce inevitabilmente anche il giudice, che – interpretandola – ne definisce i contorni effettivi esercitando un certa discrezionalità al riguardo. Lo stesso accade in relazione all’organo dell’accusa che, attraverso le scelte operate nell’esercizio fortemente discrezionale dell’azione penale, individua necessariamente i reali confini applicativi della legge e contribuisce quindi ad ampliarne o ridurne la portata e perciò a determinarne l’effettività. È proprio dunque nell’ottica del riconoscimento di un ruolo partecipativo nella costruzione del diritto vivente da parte di giudici e prosecutors che si giustifica il loro reclutamento popolare e democratico. Quanto più è politicizzato però il meccanismo della loro selezione, tanto più si presenta con forza il problema della loro imparzialità che, insieme all’essere espressione del popolo, rappresenta l’altro polo della loro legittimazione a giudicare e a esercitare l’azione penale. Per le ragioni che si tenteranno di chiarire nei successivi paragrafi, la tensione fra democrazia e imparzialità si è decisamente accentuata negli ultimi decenni, creando un’impasse di difficile soluzione che – se non risolta – rischia di trasformare a tutti gli effetti il giudiziario e gli organi dell’accusa statali statunitensi del XXI secolo in un terzo potere politico, come tale privo della capacità di rappresentare la giustizia.
2. Giudici elettivi e loro recente iper-politicizzazione
«Per il resto del mondo il costume americano di eleggere i giudici è tanto incomprensibile quanto il nostro rifiuto del sistema metrico», affermava alla fine dello scorso secolo un giudice statunitense[2], mettendo in rilievo la peculiarità del suo ordinamento giuridico, che ad oggi vede circa il 90% del giudiziario statale soggetto a scrutinio popolare in 42 Stati. A seconda dello Stato e del tipo di corte, i giudici, che (salvo rarissime eccezioni) durano sempre in carica un periodo di tempo circoscritto, vengono selezionati tramite elezioni partitiche (metodo che tuttavia appare minoritario) oppure elezioni non partitiche o, ancora, attraverso la conferma di candidati scelti dal governatore con l’assistenza di una commissione, volta a volta nominata dal governatore stesso, oppure dall’ordine degli avvocati o ancora da entrambi. Quest’ultimo sistema è noto come “Missouri Plan” o “merit selection” o ancora “assisted appointment”[3]. Gli Stati americani non hanno, però, sempre eletto i loro giudici. I 13 Stati originari, infatti – ispirandosi alla modo di selezione dei giudici federali, sia pur nel loro caso per giudici che non ricevevano l’incarico a vita – facevano ricorso alla nomina legislativa oppure del governatore con l’assenso del legislatore o di un consiglio dell’esecutivo. È a partire dai primi decenni del XIX secolo che – sotto l’impulso dell’idea jacksoniana di democrazia diffusa – la stragrande maggioranza degli ordinamenti statali americani passa a sistemi di reclutamento di tipo elettivo. L’elezione popolare, secondo i riformatori, da un lato avrebbe reso democraticamente responsabili i giudici per la loro interpretazione necessariamente creativa del diritto, dando vita a una conversazione continua in ordine all’evoluzione del sistema giuridico fra i suoi guardiani e la collettività su cui l’applicazione delle norme sarebbe ricaduta. Dall’altro lato, avrebbe accresciuto la fiducia dei cittadini nei confronti del giudiziario, perché quest’ultimo sarebbe stato controllato non più da quell’élite politica della quale fino ad allora esso era parso espressione, bensì dal popolo[4]. Il controllo del potere politico-economico, che si voleva far uscire dalla porta, doveva però rientrare pesantemente dalla finestra, nonostante nel tempo le elezioni partitiche fossero state sempre più sostituite da quelle non partitiche o, nella stragrande maggioranza degli Stati, fosse stato adottato il cd. “Missouri Plan”.
Fino all’inizio del nuovo secolo – per via di una regola di comportamento adottata dall’American Bar Association (ABA), cd.“announce clause”, fatta propria da vari Stati – durante le elezioni (soprattutto se non partitiche) o le conferme dei nominati dal governatore, al fine di preservare un’immagine di imparzialità dei futuri giudici non era, infatti, permesso ai candidati di dichiarare il loro punto di vista su questioni giuridiche controverse o su temi politici. Nel 2002 una sentenza della Corte Suprema federale, Republican Party of Minnesota v. White[5], entra però a gamba tesa nella questione e, alterando un già difficile equilibrio fra la legittimazione democratica del giudiziario e la sua imparzialità, sposta il pendolo a favore della prima dichiarando l’announce clause contraria al primo emendamento della Costituzione federale, in quanto eccessivamente limitatrice della libertà di espressione del pensiero dei candidati al giudiziario. Mossa dall’intento di consentire agli elettori di avere tutte le informazioni necessarie per esprimere il proprio voto consapevolmente e quindi di rendere effettiva la legittimazione democratica dei giudici eletti o confermati, la Corte – per la penna di Justice Scalia – rigetta l’argomento che l’aperta dichiarazione del proprio punto di vista da parte del candidato o della candidata su temi politici o giuridici controversi possa minacciare la sua imparzialità. Evitare pregiudizi nell’interpretazione del diritto è impossibile e fingere che il giudice non ne abbia è stolto e non auspicabile, afferma la Corte. Meglio l’aperta dichiarazione del proprio punto di vista, sempre che il candidato giudice non si impegni a decidere in un certo preciso modo: colui o colei che abbia soltanto annunciato la propria prospettiva, senza promettere di metterla in atto, secondo l’alto tribunale non si sentirà infatti obbligato a decidere in sintonia con il suo mero annuncio[6]. Contestata da tutti coloro che ritengono illusoria la distinzione fra l’annuncio di una visione interpretativa del diritto e la sua promessa di implementazione, la pronuncia ha quale effetto immediato quello di trasformare radicalmente le elezioni e le conferme a giudice nel mondo statunitense[7].
Condotte prima di allora in un clima ovattato, senza una grande partecipazione popolare e al di fuori di ogni clamore mediatico, proprio perché dovevano essere rispettate regole di grande riservatezza, dopo il 2002 le campagne elettorali per l’elezione o la conferma del giudiziario statale si trasformano da un evento «emozionante quanto una partita a scacchi giocata per posta»[8] in momenti politicamente estremamente caldi. I contributi economici, da parte tanto dei partiti quanto dei più vari gruppi di interesse, ai candidati – che non li possono sollecitare, ma che possono far uso di comitati che raccolgono per loro i danari[9] – crescono subito esageratamente raggiungendo cifre milionarie e, con l’ingente flusso di danaro a favore dei candidati, aumentano a dismisura le propagande pubblicitarie televisive e online a favore dell’uno o dell’altra. Dopo il 2002 le campagne elettorali possono ormai essere condotte esplicitando la propria affiliazione partitica, anche laddove l’elezione non sia partitica[10], e soprattutto – a differenza di prima – i candidati esprimono il proprio punto di vista non soltanto tecnico (per esempio: seguiremo i precedenti e la rule of law, saremo testualisti, originalisti o meno nell’interpretazione delle norme, etc.) ma anche e soprattutto politico, in aperte schermaglie con i propri avversari, dichiarando la propria posizione su aborto, pillola abortiva, pena di morte, politica criminale, diritto dei transgender a ottenere prestazioni mediche per il passaggio all’altro genere anche prima dei 18 anni, gerrymandering, riforma della responsabilità extracontrattuale, sindacalizzazione dei lavoratori, questioni climatiche, e via dicendo; ciò che comporta la iper-politicizzazione della loro campagna.
Il risultato è certamente un afflusso alle urne da parte dei cittadini assai maggiore di prima, perciò un’accresciuta legittimazione democratica dei giudici eletti. L’altro lato della medaglia è, però, la rottura di quell’equilibrio precario fra scelta popolare del giudiziario e sua imparzialità, tenuto in fondo in piedi fino a ieri proprio grazie a una mera parvenza di scrutinio democratico.
Alla majoritarian difficulty, ossia al serio pericolo che i giudici decidano assecondando la visione della propria maggioranza elettorale e interpretino quindi le norme sempre a discapito della minoranza – che cioè, per dirla brutalmente, fra mandare a morte Barabba o Gesù, scelgano sempre e inevitabilmente Gesù – si aggiunge il forte timore di favoritismo nei confronti di coloro da cui sono stati sostenuti finanziariamente nelle loro campagne elettorali.
3. Giudici elettivi e majoritarian difficulty
La prima preoccupazione è confermata dai tanti studi e sondaggi che evidenziano come, in un contesto di selezione popolare dei giudici, questi ultimi decidano quasi inevitabilmente tenendo presenti le istanze di coloro che rappresentano o intendono rappresentare, dando vita a interpretazioni del diritto fortemente populiste. Così, studi più risalenti dimostrano come, già prima dell’attuale iper-politicizzazione della loro elezione, più del 60% dei giudici dichiarava che il timore di perdere la sfida elettorale impattava sulla loro lettura delle norme – e, questo, anche nell’ipotesi di una procedura di conferma popolare senza concorrenti[11]. Analisi più recenti mettono poi in luce come, man mano che si avvicina il momento della loro rielezione, essi irroghino pene sempre più severe (soprattutto in caso di reati violenti) o rovescino con molta più parsimonia le pene di morte. D’altronde, più è insistente la propaganda televisiva, meno i membri delle supreme corti sotto rielezione giudicano a favore dell’imputato[12]. «Non c’è possibilità che un giudice ignori le conseguenze politiche delle sue decisioni, soprattutto se è vicino alla rielezione. Immaginare il contrario sarebbe come non vedere un coccodrillo in una vasca da bagno», faceva già notare un ex-giudice della Corte suprema californiana[13]. «Giudici sottoposti allo scrutinio popolare, implicitamente o esplicitamente, prendono sempre le proprie decisioni a danno di coloro che sono politicamente sfavoriti», sintetizza uno studioso americano[14].
4. Giudici elettivi e pericoli di favoritismo
La preoccupazione di favoritismo nei confronti dei gruppi di interesse o dei singoli che hanno contribuito con i loro danari alla vittoria elettorale del candidato giudice è, a sua volta, degna di rilievo e giustificata da una corsa al giudiziario in cui, dopo il 2002, vengono “investiti” molti quattrini, con quel che ne consegue in termini di “cattura” dei futuri giudici, che saranno spinti non soltanto a dare alle norme un significato in linea con un certo orientamento politico, ma anche a giudicare a favore di una parte piuttosto che di un’altra[15]. I casi di questo genere si sprecano e le ricusazioni dei giudici che hanno ovvi conflitti di interesse, e che dovrebbero per questo già autoescludersi, sono assai rare. Fra i tanti sta, per esempio, il caso Avery v. State Farm Mutual Automobile Insurance[16], in cui la Corte suprema dello Stato dell’Illinois rovescia il verdetto della giuria, che aveva accordato all’attore in class action un risarcimento di danni di un miliardo e 456 milioni di dollari, grazie al voto di un giudice appena eletto, tal Llyod Karmeier. Quest’ultimo, nonostante avesse ricevuto in campagna elettorale 350.000 dollari direttamente dalla State Farm e più di un milione di dollari da gruppi affiliati alla stessa società – in uno Stato in cui, come spesso accade negli USA, non sono previsti tetti massimi ai finanziamenti elettorali dei giudici –, non si autosospende e la pronuncia è considerata valida. Né, per risolvere casi di questo genere, viene in aiuto la Corte Suprema federale, la quale, in un’ipotesi eclatante di conflitto di interessi – in cui un giudice della Suprema corte della West Virginia aveva espresso il voto dirimente a favore di una società di carbone che aveva finanziato la sua campagna elettorale con 3 milioni di dollari –, ritiene sì che il giudice debba poter essere ricusato dalla parte sfavorita, ma stabilisce una regola generale assai ambigua e di scarsa efficacia pratica. «Non ogni contributo finanziario alla campagna elettorale del giudice crea un probabile pregiudizio di parzialità a favore della parte in causa che lo ha erogato», dice la Corte nel 2009, in Caperton v. A.T. Massey Coal Co.; solo quando esso «è troppo alto per essere costituzionalmente tollerabile» la ricusazione è necessaria per garantire una decisione fair, in coerenza con il XIV emendamento della Costituzione federale[17]. Come fa presente il Chief Justice Roberts nella sua opinione dissenziente, si tratta di una pronuncia che comporta più domande che risposte[18]. Quando, infatti, un contributo finanziario è troppo alto da risultare intollerabile? Nel caso specifico, il contributo della compagnia di carbone era stato addirittura il triplo di tutte le altre donazioni messe insieme, ma nella stragrande maggioranza delle situazioni la linea fra contributi elettorali costituzionalmente tollerabili o meno non è altrettanto facile da individuare. Senza contare come spesso sia difficile distinguere una prospettiva interpretativa del diritto del giudice, casualmente favorevole alla parte che lo ha finanziariamente sostenuto nella sua corsa elettorale, da una decisione che la avvantaggia perché determinata dal conflitto di interessi. Lo scontato risultato è che i giudici non solo non sentono il dovere di autosospendersi quando una delle parti in causa ha finanziato la loro campagna elettorale, ma le danno addirittura ragione senza pudore, ben sapendo di non incorrere in sanzioni o di vedere dichiarata invalida la propria decisione in quanto unfair nei confronti dell’altra parte. È questo ciò che traspare inequivocabilmente dai lavori di chi, come l’esperto di diritto giurisprudenziale del New York Times – Adam Liptak –, nel 2006 analizza le pronunce della Corte suprema dell’Ohio e scopre che ciascun giudice ha votato per il 70% a favore del proprio sostenitore finanziario e, nel caso di uno di loro, ciò è avvenuto addirittura il 99% delle volte! Lo stesso studio mostra, poi, quanto poco i giudici si autosospendano quando si trovano in tali situazioni: «Su 215 casi con la più alta probabilità di un conflitto di interessi esaminati, i giudici si sono autosospesi solamente 9 volte»[19]. Chiosando quei risultati e chiarendo la fortissima tensione fra elezioni democratiche e imparzialità dei giudici, uno studioso afferma: «Quei giudici non assicurano la neutralità della corte: essi si assicurano il proprio posto in una corte democraticamente eletta»[20]. Difficile dargli torto!
5. Il contrappeso mancato della giuria
Un ultimo punto va, infine, chiarito. Nel quadro dell’equilibrio costituzionale dei poteri, si dice, i rischi di un’eccessiva politicizzazione dei giudici vengono ridimensionati dal contrappeso costituito dalla giuria, che – come a metà dello scorso secolo ha affermato la Corte Suprema federale – garantisce «un inestimabile baluardo contro accusatori corrotti o troppo zelanti o contro giudici servili, affetti da pregiudizi o eccentrici»[21]. Se, per quel che riguarda i prosecutors, l’inefficacia di quel baluardo è resa evidente dal quasi 99% di procedimenti che si concludono con un plea bargaining, anche i giudici parziali non sempre trovano nella giuria il necessario contrappeso. Innanzitutto, essa è presente solo nel primo grado di giudizio, laddove effettivamente il giudice è “mere umpire”, ossia mero arbitro di un duello fra parti il cui esito è determinato dai giurati. Occorre però rilevare non solo quanto sempre più manageriale sia diventato il trial judge, con gli annessi conseguenti poteri[22], ma anche come il giudizio possa svolgersi anche senza giuria (cd. “bench trial”) e come il giudice possa ordinare un direct verdict alla giuria, che viene così (legittimamente) privata della sua prerogativa decisoria sul fatto. D’altronde, la giuria è assente nei gradi successivi, in cui è solo il diritto – e non il fatto – che viene deciso dalle corti, le quali, come si è sopra visto, se troppo politicizzate non possono che apparire parziali, epperciò prive della pur necessaria legittimazione a decidere in quanto organi di “giustizia”.
Il nuovo stile di elezione giudiziaria del XXI secolo – caratterizzato da iniezioni di danaro mai viste prima e da una politicizzazione e un interesse sul voto del tutto inediti – squarcia, insomma, quel velo che prima del 2002 nascondeva la fortissima tensione fra democrazia e imparzialità, quali contemporanee fonti di legittimazione dei giudici statunitensi. Oggi i candidati alla carica «non lasciano illusioni che una volta eletti saranno neutrali» e sono «sempre più visti come attori politici, che cominciano a muoversi come tali», commentava sul New York Times chi, nel marzo 2023, osservava la partita elettorale che si giocava in Wisconsin[23]. A fronte di 30 milioni di dollari spesi in una campagna che aveva visto scontrarsi chi si presentava con prospettive opposte in ordine a un gerrymandering favorevole ai repubblicani o al futuro diritto di abortire delle donne del Wisconsin, c’erano davvero pochi dubbi che il vincitore (in questo caso, la vincitrice) avrebbe fatto valere – così come poi è avvenuto – le proprie opinioni politiche in corte[24].
6. Prosecutors elettivi e tensione latente fra democraticità e neutralità
«Gli Stati Uniti sono l’unico Paese al mondo in cui gli organi dell’accusa vengono eletti», scrive Michael Ellis sul Yale Law Journal nel 2012[25]. Essi godono, inoltre, di un’indipendenza e di una discrezionalità che non ha pari altrove[26]. Come i giudici, anche i prosecutors non sono però sempre stati eletti. Inizialmente nominati dal legislativo o dall’esecutivo[27] – come avveniva per il giudiziario –, è nello stesso momento e per le stesse preoccupazioni di cattura da parte di un’élite politica partigiana (accusata di utilizzare metodi clientelari nella scelta degli organi dell’accusa) che essi diventano elettivi. Nelle intenzioni dei riformatori, l’elezione popolare avrebbe offerto ai cittadini un maggior controllo sulla selezione dei prosecutors, rendendo questi ultimi direttamente responsabili verso la comunità, sulla quale sarebbero ricadute le scelte nell’esercizio di un’azione penale che stava diventando sempre più discrezionale. Essi avrebbero quindi rispecchiato le priorità delle collettività locali, piuttosto che di quelle centrali. Fra il 1820 e il 1860, pertanto, gli Stati modificano le loro Costituzioni e, al momento della Guerra civile, sono 25 su 34 quelli che prevedono un’elezione popolare degli organi dell’accusa locali. Oggi tutti gli Stati eleggono, principalmente su basi partitiche, i prosecutors locali (D.A.), salvo il New Jersey, il Connecticut, l’Alaska, e il District of Columbia, mentre gli Attorneys General (A.G.) statali sono eletti in 43 Stati su 50[28].
Così come l’elezione dei giudici, anche quella degli organi dell’accusa – soprattutto perché rimasta, per lo più, su base partitica – solleva però, fin da subito, un problema di mancanza di neutralità. Da tempo i commentatori paventano una «sconveniente influenza dei partiti» sui prosecutors e sulle loro scelte discrezionali nell’esercizio dell’azione penale, oppure notano una tendenza a concentrarsi sulle investigazioni di alto profilo per ottenere una copertura mediatica favorevole, o ancora temono un serio rischio di corruzione attraverso i contributi finanziari alle loro campagne[29]. D’altronde, non è certo un mistero che l’essere eletto prosecutor negli Stati Uniti rappresenta il primo passo per una carriera di tipo politico (e qui il richiamo a Rudolph Giuliani è d’obbligo). Né lo è il dato che, più ci si avvicina al momento delle elezioni, più i prosecutors locali, nell’ambito della loro fortissima discrezionalità, esercitano l’azione penale scegliendo le imputazioni che prevedono le pene più alte oppure si accordano tramite plea bargain per sanzioni più severe, determinando in tal modo un aumento di ingressi in carcere e dei mesi di pena da scontare dei condannati. E ciò in perfetta sintonia con il sentimento collettivo. Così, laddove l’elettorato è maggiormente sensibile a un diritto penale retributivo e incapacitante, quegli effetti della vicinanza al momento delle elezioni sono più rilevanti; mentre se la contea o il distretto in cui viene eletto il prosecutor è principalmente orientato contro i neri e a favore dei bianchi, l’intero ciclo elettorale si caratterizza per una maggior persecuzione penale dei neri[30]. D’altronde, assecondare il desiderio di forte uso del penale della propria maggioranza elettorale – allarmata da messaggi mediatici di insicurezza sociale – perseguendo i più poveri ha sempre ripagato i D.A., che (per le ragioni che ho altrove esposto) ne ottengono con maggior facilità la condanna[31].
La tensione fra legittimazione democratica e imparzialità (cui purtuttavia anche il prosecutor è tenuto nella sua decisione in ordine a quali fatti perseguire e quali imputazioni formulare) è però fino a ieri rimasta tutto sommato latente, grazie a quei criteri tecnici e oggettivi – enunciati dagli organi dell’accusa per giustificare le loro scelte nell’esercizio dell’azione penale – che hanno occultato tanto i loro interessi personali alla rielezione quanto la majoritarian difficulty, ossia l’uso della discrezionalità penale ai danni e contro gli interessi della minoranza. Principi posti in via declamatoria a sua guida, quali la maggior pericolosità sociale dei più indigenti (che hanno più difficoltà degli abbienti a reinserirsi socialmente) o dei neri che (a differenza dei bianchi, i quali vendono cocaina in luoghi chiusi) spacciano crack alla luce del sole e, più in generale, il paradigma penal-preventivo, fondato sulla teoria del rischio di determinate categorie di soggetti, hanno così facilmente giustificato – e spesso continuano ancora a giustificare – sul piano oggettivo della sicurezza collettiva un’attività di investigazione e di esercizio dell’azione penale in realtà discriminatoria, nonché politicamente e personalmente interessata da parte dei prosecutors.
7. Prosecutors elettivi, la tensione scoppia: il recente scontro fra poteri dello Stato
Un nuovo clima politico e una recente rottura, sia pure ai suoi esordi, di quel pensiero comune fra democratici e repubblicani – e, più in generale, all’interno dell’intera società americana – che fino a ieri ha postulato la necessità di un uso massiccio del diritto penale e che ha legittimato le normative penali improntate alla neutralizzazione dei condannati che hanno condotto alla cd. “incarcerazione di massa”[32], hanno però scoperchiato il vaso e fatto esplodere la tensione di cui sopra.
La sostanziale condivisione per lungo tempo, fra democratici e repubblicani, di una politica criminale di “toughness on crime” e il corrispondente allineamento da parte dei prosecutors, se da un canto nascondeva infatti la partecipazione di questi ultimi al gioco della costruzione effettiva della norma penale (i cui confini applicativi sono necessariamente determinati dalle loro scelte nell’esercizio fortemente discrezionale dell’azione penale), d’altra parte faceva delle loro elezioni un momento poco sentito e partecipato, in cui spesso i candidati correvano incontrastati[33]. Nel momento, però, in cui alcuni prosecutors locali, passando da un atteggiamento politico reattivo a uno pro-attivo, hanno cominciato ad abbracciare esplicitamente una politica criminale alternativa a quella mainstream, le loro elezioni sono diventate politicamente assai vivaci e molti di loro hanno ottenuto il consenso della maggioranza degli elettori. Si è allora appalesato tanto il ruolo politico dei novelli prosecutors riformatori, quanto l’eventualità di un’applicazione della norma penale in contrasto sia con il volere del legislatore statale che della minoranza del proprio elettorato. È questo il quadro all’interno del quale si consumano oggi scontri fra prosecutors locali (D.A.) e governi e legislatori statali mai conclamatisi con tanta virulenza in precedenza.
Un primo orientamento, espressione di un’aperta soggettività politica in contrasto con la logica pan-penalistica fino ad allora dominante, era già stato manifestato a livello federale durante la Presidenza Obama dal suo General Attorney, Eric Holder. Mai prima di allora un A.G. aveva dato disposizioni di tipo politico, e non tecnico, al proprio ufficio, come aveva fatto Holder quando aveva ordinato ai suoi sottoposti di esercitare l’azione penale federale solamente nei confronti dei reati di droga che non prevedessero minimi sanzionatori obbligatori (e quindi di negoziare sull’imputazione oppure di mettere in atto il cd. “undercharging”)[34]. Ciò con il chiaro obiettivo di vanificare le normative federali altamente carcerogene in tema di stupefacenti. Nonostante chi gli era succeduto avesse poi rapidamente fatto retromarcia, la sfida lanciata da Holder era destinata ad essere presto raccolta a livello statale da molti prosecutors, in particolare locali, appoggiati ora da una parte del partito democratico. Soprattutto nelle aree urbane più grandi e popolate, i candidati all’ufficio hanno infatti cominciato a correre promettendo di utilizzare la propria futura discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale per invertire la rotta rispetto alla logica criminale fortemente repressiva dominante. Abolizione della pena di morte[35], riduzione della custodia cautelare, soppressione della cauzione, non persecuzione dei reati legati all’uso e allo spaccio della marijuana o di altre fattispecie criminose normalmente usate per colpire la popolazione nera, non persecuzione dei reati contro i poveri di strada, opposizione alle normative anti-aborto o a quelle volte a punire chi offre prestazioni mediche per il passaggio all’altro genere anche prima dei 18 anni, negoziazioni di pene più miti, potenziamento delle alternative al carcere, sono stati – fra i tanti – i temi delle piattaforme elettorali con cui essi hanno vinto in molte contee, fino ad arrivare a coprire aree abitate da circa 20 milioni di persone.
La risposta dei governi e dei legislatori statali non si è, però, fatta attendere e lo scontro fra poteri dello Stato, ciascuno con la propria legittimazione popolare, è esploso con violenza[36].
In un buon numero di Stati, il parlamento (a maggioranza repubblicana) ha emanato o proposto normative che permettono ai prosecutors statali di avocare a sé le indagini che non sono portate avanti dai prosecutors locali[37]; in altri, come in Georgia, sono passate leggi che hanno sottoposto le decisioni degli organi dell’accusa al controllo di una commissione di nomina mista, governativa e legislativa, cancellando di fatto la loro discrezionalità. La nuova legge della Georgia (che sanziona con 10 anni di sospensione dall’incarico chi è colto in fallo) non solo dà, infatti, a quella commissione poteri di investigazione e disciplinari nei confronti dei prosecutors che non esercitano l’azione penale in casi specifici, ma li obbliga sostanzialmente a motivare la gran parte delle decisioni di archiviazione. Sono state, d’altronde, proprio le dichiarazioni, in campagna elettorale, di molti candidati – successivamente eletti quali prosecutors locali – di non voler più perseguire i reati di possesso di marijuana a convincere i parlamentari conservatori a votare la normativa, preoccupati per quella che sentivano come un’invasione di campo del loro potere legislativo in campo penale[38]. Leggi simili a quella della Georgia sono state proposte anche in Pennsylvania, Missouri e Indiana, così come in altri Stati conservatori che accusano oggi i prosecutors democratici di essere “soft on crime”. Lo scontro forse più duro si è però consumato in Florida, quando il governatore Ron De Santis, a seguito della firma di una lettera da parte di diversi prosecutors locali nazionali (fra cui due della Florida) in cui veniva apertamente denunciato il divieto di aborto, ha sospeso entrambi i D.A. del suo Stato, sostituendoli con due prosecutors in sintonia con la politica criminale conservatrice sua e della maggioranza del Parlamento. Quanto la reazione di De Santis sia stata legittima, o abbia invece violato il principio di indipendenza degli organi dell’accusa[39], è stato oggetto di discussione anche a livello di corti, tanto federali che statali; ma, al di là della soluzione giuridica nei due casi concreti (che si prospetta contrastante)[40], resta aperta la questione di quale e quanta discrezionalità il prosecutor disponga nella sua concreta applicazione delle leggi e se essa possa o meno ampliarsi fino al punto da permettergli/le di escludere apertamente l’esercizio dell’azione penale in relazione a un’intera categoria di reati[41].
Si tratta di una questione che va al cuore dei rapporti fra due poteri dello Stato, il Parlamento e il prosecutor, i quali traggono entrambi la propria legittimazione dal consenso popolare, laddove tuttavia l’elettorato ha consegnato loro deleghe preferenziali di segno opposto.
8. Conclusioni
È chiaro, dunque, come il problema di fondo consista nell’enorme difficoltà di conciliare la legittimazione popolare dei giudici e dei prosecutors statunitensi con la discrezionalità di cui inevitabilmente essi godono nell’interpretazione della legge e nella sua applicazione pratica, e quindi con l’immagine di imparzialità che è loro richiesta nell’esercizio di quella discrezionalità.
Come è apparso evidente, quanto più – attraverso un’elezione partecipata – il sistema di reclutamento popolare raggiunge il suo scopo di legittimare appieno giudiziario e organi dell’accusa, tanto più giudici e prosecutors risultano eletti sulla base delle loro preferenze politiche, assumendo così un’esplicita veste di attori politici. La discrezionalità di cui godono non può, però, essere esercitata secondo linee-guida palesemente politiche, ma deve necessariamente affidarsi al piano tecnico, a pena di perdere la propria legittimazione quali organi imparziali. È questo il dilemma vissuto dal sistema statunitense statale, che – unico al mondo – ha scelto di eleggere tanto il giudiziario quanto gli organi dell’accusa. Si tratta di un dilemma irrisolvibile perché originato dall’inconciliabilità di fondo fra le due fonti di legittimazione di cui li si vuole investire… a meno di voler soprassedere sulla seconda, ossia l’imparzialità, con tutte le disastrose conseguenze che ciò produrrebbe.
1. E. Grande, La Corte suprema alla prova della politica, in MicroMega, n. 1/2022, pp. 176 ss.; Ead., Amy Coney Barrett nel dilemma democratico, in Questione giustizia online, 27 ottobre 2020 (www.questionegiustizia.it/articolo/amy-coney-barrett-nel-dilemma-democratico).
2. H.A. Linde, Elective Judges: Some Comparative Comments, Southern California Law Review, vol. 61, n. 6/1988, p. 1996.
3. Per maggiori dettagli in ordine ai differenti metodi di selezione di giudici negli USA, cfr.: https://ballotpedia.org/Judicial_selection_in_the_states.
4. Sulle origini del reclutamento elettivo dei giudici, cfr., fra i tanti: K.L. Hall, The Judiciary on Trial: State Constitutional Reform and the Rise of an Elected Judiciary, 1846-1860, in Historian, vol. 45, n. 3/1983, p. 337; C. Nelson, A Re-Evaluation of Scholarly Explanations for the Rise of the Elective Judiciary in Antebellum America, in American Journal of Legal History, vol. 37, n. 2/1993, p. 190, nonché la letteratura citata da R.L. Jolly, Judges as Politicians: The Enduring Tension of Judicial Elections in the Twenty-First Century, in Notre Dame Law Review, vol. 92, 2016, pp. 73-74 (https://ndlawreview.org/wp-content/uploads/2016/12/Jolly_Final.pdf).
5. 536 U.S. 765 (2002).
6. Ivi, pp. 778 ss.
7. Sul punto, a fondo, vds: D.E. Pozen, The Irony of Judicial Elections, in Columbia Law Review, vol. 108, n. 2/2008, p. 265; R.L. Jolly, Judges as Politicians, op. cit.
8. Così M.J. Streb, Running For Judge: The Rising Political, Financial, And Legal Stakes Of Judicial Elections, New York University Press, New York, 2007, p. 2 (cap. 1: «The Study of Judicial Elections»).
9. Cfr. Williams-Yulee v. Florida Bar, 135 S. Ct. 1656 (2015).
10. Cfr. le decisioni del sesto, settimo e ottavo circuito federale, le quali hanno tutte ritenuto che, anche nelle elezioni non partitiche, i candidati debbano poter dichiarare a quale partito politico sono affiliati: Carey v. Wolnitzek, 614 F.3d 189 (6th Cir. 2010); Siefert v. Alexander, 608 F.3d 974 (7th Cir. 2010); Republican Party of Minn. v. White, 416 F.3d 738 (8th Cir. 2005 – en banc), ma anche Winter v. Wolnitzek, 834 F.3d 681 (6th Cir. 2016). Per tutte le cause a livello federale successive a Minnesota v. White, del 2002, relative alle limitazioni poste alle campagne elettorali giudiziarie, cfr. National Center for State Courts, Case-law Following Republican Party of Minnesota v. White, 536 U.S. 765 (2002), www.ncsc.org/__data/assets/pdf_file/0021/15429/caselawafterwhite.pdf.
11. Cfr. Greenberg Quinlan Rosner Research, Inc. et al., Justice at Stake-State Judge Frequency Questionnaire 5 (2002), www.justiceatstake.org/files/, JASJudgesSurveyResults.pdf (on file with the Columbia Law Review).
12. Cfr. K. Berry, How Judicial Elections Impact Criminal Cases, working paper, 2015 (www.brennancenter.org/our-work/research-reports/how-judicial-elections-impact-criminal-cases). Lo studio analizza le tante ricerche empiriche effettuate sul punto.
13. Così Otto Klaus, citato da P. Reidinger, The Politics of Judging, in American Bar Association Journal, vol. 73, n. 5/1987, p. 58.
14. Così, R.L. Jolly, Judges as Politicians, op. cit., p. 85.
15. Per uno studio che descrive l’influenza crescente sulle decisioni del giudiziario statale determinata dal danaro speso dai partiti politici durante le campagne elettorali per i propri candidati, sia nel senso di condizionarne un’interpretazione del diritto in sintonia con la prospettiva politica del partito, che nel senso di determinarne il favoritismo nei confronti della parte in causa affiliata al partito giudice, laddove «la partigianeria politica dei giudici elettivi cresce e i giudici eletti favoriscono tanto più il loro partito, quanto più esso contribuisce finanziariamente alla sua campagna elettorale», cfr. il report pubblicato nel 2015 da ACS: J. Shepherd e M.S. Kang, Partisan Justice: How Campaign Money Politicizes Judicial Decisionmaking in Elections Cases, www.acslaw.org/analysis/reports/partisan-justice/.
16. 835 N.E.2d 801 (Ill. 2005), cert. denied, 547 U.S. 1003 (2006).
17. Così Caperton v. A.T. Massey Coal Co., 556 U.S. 868 (2009), pp. 884 e 872.
18. Ivi, pp. 893-898.
19. A. Liptak e J. Roberts, Campaign Cash Mirrors a High Court’s Rulings, New York Times, 1° ottobre 2006 (www.nytimes.com/2006/10/01/us/01judges.html), citato da D.E. Pozen, The Irony, op. cit., p. 303.
20. Così, RL. Jolly, Judges as Politicians, op. cit., p. 85.
21. Così Vittorio Fanchiotti, nel suo ormai storico Lineamenti del processo penale statunitense, Giappichelli, Torino, 1987, p. 67 (ora sostituito dal più recente La giustizia penale statunitense. Procedure v. Antiprocedure, Giappichelli, Torino, 2022), che si riferisce al caso Duncan v. Lousiana, 391 U.S. 145 (1968).
22. J. Resnik, Managerial Judges, in Harvard Law Review, vol. 96, n. 2/1982, p. 374.
23. Così R.J. Epstein, Costly Court Race Points to a Politicized Future for Judicial Elections, New York Times, 28 marzo 2023 (www.nytimes.com/2023/03/28/us/politics/wisconsin-supreme-court-race.html).
24. A. Martínez, How state and local judicial elections became so politicized, NPR News, 6 aprile 2023 (www.npr.org/2023/04/06/1168327289/how-state-and-local-judicial-elections-became-so-politicized); J. Bosman, Justices in Wisconsin Order New Legislative Maps, New York Times, 22 dicembre 2023 (www.nytimes.com/2023/12/22/us/wisconsin-redistricting-maps-gerrymander.html).
25. M.J. Ellis, The Origins of the Elected Prosecutors, in Yale Law Journal, vol. 121, n. 6/2012, p. 1530.
26. Cfr. M. Damaška, Structures of Authority and Comparative Criminal Procedure, in Yale Law Journal, vol. 84, n. 3/1975, p. 512 («In most American states, public prosecutors are locally elected officials with surprisingly great and virtually uncontrolled authority. (...) Hierarchical subordination is negligible by continental [European] standards»); A. Steinberg, From Private Prosecution to Plea Bargaining: Criminal Prosecution, the District Attorney, and American Legal History, in Crime and Delinquency, vol. 30, n. 4/1984, p. 568 («the American prosecutor enjoys an independence and discretionary privileges unmatched in the world»).
27. Cfr. M.J. Ellis, The Origins, op. cit., p. 1537.
28. Cfr. https://ballotpedia.org/Attorney_General_elections,_2024.
29. Cfr. la letteratura citata da M.J. Ellis, The Origins, op. cit., p. 1532, note nn. 13, 14, 15. Interessante è, sotto il profilo del favoritismo determinato dal danaro, il caso dell’ex-D.A. di Manhattan, Cyrus Vance Jr., accusato da una parte dei newyorkesi del suo distretto di non aver esercitato l’azione penale contro imputati di una certa caratura per via delle ingenti somme ricevute, durante la campagna elettorale, dai rispettivi avvocati – cfr. J.C. McKinley Jr., A Growing Call to Limit Lawyers’ Donations to Prosecutors, New York Times, 15 novembre 2017 (www.nytimes.com/2017/11/15/nyregion/defense-lawyers-donations-district-attorney.html).
30. Cfr., per tutto ciò, C.O. Okafor, Prosecutor Politics: The Impact of Election Cycles on Criminal Sentencing in the Era of Rising Incarceration, working paper, 4 luglio 2022, https://scholar.harvard.edu/files/okafor/files/prosecutorpolitics.pdf; cfr. anche J.F. Pfaff, Locked In: The True Causes of Mass Incarceration and How to Achieve Real Reform, Basic Books, New York, 2017.
31. Mi permetto di rinviare ai miei: Il terzo strike. La prigione in America, Sellerio, Palermo, 2007, pp. 83 ss., e Politiche del diritto, povertà e prigioni negli Stati Uniti d’America oggi, in Iperstoria, n. 14, 2019, pp. 54 ss.
32. Sul punto, mi permetto ancora un rinvio al mio Il terzo strike, op. cit., passim.
33. Cfr. R.F. Wright, Beyond Prosecutor Elections, in SMU Law Review, vol. 67, n. 3/2014, pp. 600-601; C. Byrne Hessick e M. Morse, Picking Prosecutors, in Iowa Law Review, vol. 105, n. 4/2020, pp. 1544-1545.
34. Vds. Memorandum from Eric Holder, Att’y Gen., U.S. Dep’t of Just., to U.S. Att’ys and Assistant Att’y Gen., Crim. Div., U.S. Dep’t of Just., Department Policy on Charging Mandatory Minimum Sentences and Recidivist Enhancements in Certain Drug Cases, 12 agosto 2013 (www.justice.gov/sites/default/files/oip/legacy/2014/07/23/ag-memo-department-policypon-charging-mandatory-minimum-sentences-recidivist-enhancements-in-certain-drugcases.pdf).
35. Si tenga presente che è sempre il prosecutor a dover richiedere l’applicazione della pena di morte, pur già irrogata dalla giuria.
36. Cfr. L.M. Ouziel, Prosecutors as Partisans, Temple University Legal Studies, research paper destinato al Fordham Urban Law Journal, agosto 2023, p. 1093 (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=4542582#).
37. Cfr. K. Blakinger, Prosecutors Who Want to Curb Mass Incarceration Hit a Roadblock: Tough-on-Crime Lawmakers, The Marshall Project, 3 febbraio 2022 (www.themarshallproject.org/2022/02/03/prosecutors-who-want-to-curb-mass-incarceration-hit-a-roadblock-tough-on-crime-lawmakers).
38. Anche la risposta dei prosecutors, preoccupati a loro volta di perdere la propria autonomia, non è tardata ad arrivare e il caso è di recente finito di fronte a una corte di giustizia dello Stato della Georgia: cfr. H. Kanu, Georgia prosecutors sue over state law they say undermine their power, Reuters, 23 agosto 2023 (www.reuters.com/legal/government/column-georgia-prosecutors-sue-over-state-law-they-say-undermines-their-power-2023-08-02/). Quanto la questione delle reciproche invasioni di campo fra potere legislativo e organi dell’accusa sia estremamente sentita, nonché oggetto ovunque di grande attenzione, è testimoniato dalla dichiarazione di incostituzionalità, da parte di un giudice dello Stato di New York, di una legge simile a quella della Georgia, con cui il legislatore di New York aveva istituito una commissione nominata dal legislativo, dall’esecutivo e dal giudiziario per valutare la correttezza della condotta dei prosecutors (https://apnews.com/general-news-20cc9c084cdcafa17d00f429dfd30679).
39. In quest’ultimo senso si è pronunciata l’American Bar Association: ABA Supports Protecting the Independence of Prosecutors, 28 settembre 2023 (www.americanbar.org/advocacy/governmental_legislative_work/publications/washingtonletter/sept-23-wl/prosecutors-0923wl).
40. Cfr. A. Lacy, De Santis Lawyer Can’t Name A Single Policy That Led To Reform Prosecutor’s Suspension, The Intercept, 6 dicembre 2023; M. Dixon, Judge rules De Santis’ ouster of prosecutor was unconstitutional but upholds suspension, Politico, 20 gennaio 2023 (www.politico.com/news/2023/01/20/judge-said-desantis-violated-constitution-in-suspending-warren-00078789).
41. Sul punto vds. Z. Price, The Fifty States’ Varied Laws on Prosecutorial Nonenforcement, SLoG Law Blog, 27 gennaio 2022 (www.sloglaw.org/post/the-fifty-states-varied-laws-on-prosecutorial-nonenforcement).