Il paradosso del giudice (im)politico
Il contributo si sofferma sul possibile paradosso causato dalla presenza di un sottofondo politico nel lavoro del giudice, con particolare riferimento al momento interpretativo dell’attività giudiziaria, esaminandone i termini, le ragioni e le possibili vie di uscita.
1. Il paradosso / 2. I termini della questione / 3. Le ragioni / 3.1. Il sottofondo politico dell’interpretazione / 3.2. L’interprete: davanti alla legge o dentro l’ordinamento? / 4. Politicità e imparzialità del giudice. Che fare?
1. Il paradosso
Nel sempre più rozzo dibattito politico italiano, è ormai inevitabile imbattersi nel logoro luogo comune della “politicità” o “politicizzazione” dei giudici. L’accusa di politicizzazione o di uso politico della giurisdizione viene brandita come una clava nelle situazioni più varie: talvolta davanti a vere o presunte decisioni giudiziarie tacciate di eccessiva “creatività”; talvolta davanti a esempi di (evidentemente eccessivo) garantismo, che rischiano di scontentare le aspettative punitive ruminate dalla mitologica “pancia” del Paese; talvolta, al contrario, davanti a presunte forme di accanimento giudiziario (ad esempio, quando un giudice per le indagini preliminari dispone l’imputazione coatta dell’imputato davanti a una richiesta di archiviazione formulata dalla Procura); talvolta, infine, davanti a sentenze che semplicemente ribaltano quanto deciso nei gradi di giudizio precedenti. Peggio ancora, ovviamente, se in qualcuna di simili vicende venga in considerazione l’applicazione di un provvedimento normativo voluto dalla maggioranza di governo, o sia personalmente coinvolto come parte in causa un uomo politico.
A “incidenti” di questo tipo segue regolarmente la sempreverde mossa retorica di contrapporre la legittimazione democratico-rappresentativa della “politica” a quella (solo) tecnico-burocratica di chi esercita la giurisdizione – insieme all’invito beffardo, rivolto ai giudici, a presentarsi alle elezioni, e comunque al severo monito a “non fare politica” (che in sostanza significa seguire, come l’intendenza, la volontà di chi è uscito vincitore dalle urne).
Nonostante accuse di questo tipo siano, di solito, palesemente pretestuose, fuorvianti e strumentali, marchi di fabbrica di un dibattito politico di infimo livello e programmaticamente votato alla superficialità faziosa, credo che valga ancora la pena di spendere qualche parola appena meditata sulla questione della politica e della politicità dei giudici.
Dico “ancora”, perché in realtà il problema del sottofondo politico dell’attività giudiziaria è stato discusso da decenni[1] – almeno da quando, in Italia, ha iniziato a entrare in crisi l’immagine meccanica e impersonale del giudice, a lungo dominante, basata sul “modello burocratico” dell’amministrazione della giustizia[2]. E ne può ancora valere la pena perché le accuse di politicizzazione e di parzialità politica dei magistrati (accuse che talvolta possono anche essere del tutto veritiere, s’intende, poiché i magistrati non sono né santi né asceti né macchine inanimate né esseri dotati di virtù sovrumane, ma esseri umani dotati di passioni e debolezze esattamente come tutti gli altri), portano alla luce un paradosso che mi sembra ineliminabile nella figura e nel ruolo del giudice, almeno per come concepiamo l’istituzione giudiziaria nelle società contemporanee.
Il paradosso è il seguente: il giudice non deve fare politica; ma, in un certo senso, non può non farla[3].
Le riflessioni che seguono proveranno a esaminare i termini di questo paradosso, le sue ragioni, e le possibili (e piuttosto limitate, come vedremo) vie di uscita. Non credo che ciò che dirò risulterà particolarmente originale. Ma forse non sarà del tutto inutile provare quantomeno a mettere un po’ di ordine nei termini della questione.
Un’unica, ma importante avvertenza preliminare: qui mi occuperò della questione della politicità del lavoro del giudice dal punto di vista specifico, ed esclusivo, dell’attività interpretativa. Ovviamente, anche se l’interpretazione è un momento essenziale dell’attività giudiziaria, numerose altre attività svolte dai giudici sia all’interno sia all’esterno del giudizio possono avere implicazioni politiche, o essere ispirate da criteri politici (o, più in generale, da opzioni di valore). Tuttavia, quello che mi interessa qui è specificamente il sostrato politico del momento interpretativo, la (eventuale?) politicità dell’interpretazione del diritto fatta in sede giudiziaria.
2. I termini della questione
Quando ci si trova davanti a un paradosso, o a una tesi in odore di paradosso, la prima cosa che di solito ci si chiede è se si tratti di un paradosso reale o di un paradosso solo apparente – un paradosso, cioè, che è destinato a dissolversi non appena i termini in esso contenuti vengano accuratamente chiariti o disambiguati.
Questo, in effetti, sembra accadere anche nel nostro caso: forse si potrebbe smontare il paradosso, renderlo solo apparente e in buona sostanza già risolto, se solo si chiarisse in che senso si parla di “politica” nel contesto della tesi asseritamente paradossale secondo cui il giudice non deve fare politica, ma, in un certo senso, non può non farla. Purtroppo, come vedremo subito, le cose non sono così semplici: anche dopo una opportuna disambiguazione, il paradosso del giudice (im)politico è destinato a ripresentarsi. Ma andiamo con ordine.
“Politica” è una parola dotata di una carica valutativa abbastanza sfuggente: mentre molti termini o concetti valutativi hanno una connotazione abbastanza costante (quasi sempre positiva, oppure quasi sempre negativa)[4], l’aggettivo “politico” è usato talvolta in maniera commendevole e, talaltra, in maniera denigratoria, senza che ciò sia considerato sorprendente o indice di una declinazione ironica. Inoltre, è una parola ambigua, che può essere riferita a cose diverse. Ai fini del mio discorso mi interessa soprattutto quest’ultimo aspetto, e soprattutto la distinzione tra due possibili sensi di “politica”.
In un primo senso, “politica” si riferisce alla politica “quotidiana”, ad esempio quella portata avanti in seno agli organi rappresentativi e di governo[5]: politica politicienne, politica di parte e di partito. Le principali figure sintomatiche di “politica” e del “fare politica”, in questo senso, consistono nell’iscrizione a un partico politico, nell’attiva e frequente partecipazione alle attività di un partito (alle sue attività pubbliche o a quelle “interne”, organizzative), nella candidatura a cariche elettive nelle liste di un partito politico, nella partecipazione a organi politici e di governo sotto le insegne di un partito.
È abbastanza evidente – e non credo sia cosa su cui meriti di dilungarsi eccessivamente – che in questo senso il magistrato (giudicante o requirente che sia) non dovrebbe fare politica. Se un valore fondamentale della giurisdizione, anzi il valore fondamentale, addirittura la definizione stessa della giurisdizione, consiste nella terzietà[6], allora sembra evidente che un giudice organicamente interno a un partito politico (che già etimologicamente evoca l’idea di “parte”) non possa garantire l’apparenza, prima ancora della sostanza stessa, dell’indipendenza richiesta a chi deve essere “terzo” in una controversia. Un magistrato strutturalmente organico a una “parte” non può assicurare la necessaria immagine di terzietà richiesta dal ruolo[7].
Certo, in uno Stato costituzionale, uno Stato che riconosce a tutti (e dunque, anche a chi svolge funzioni giurisdizionali) un ampio catalogo di libertà, incluse le libertà politiche, sarà necessario effettuare un attento bilanciamento tra i valori della giurisdizione da una parte e le libertà civili e politiche del magistrato dall’altra. In questo contesto, una proibizione totale e assoluta per i magistrati di svolgere in qualunque forma attività politiche sarebbe incostituzionale, tanto quanto lo sarebbe l’assicurare ai magistrati una totale e assoluta libertà di esercizio dei diritti politici. In mezzo a questi due estremi parimenti inammissibili, vari specifici accomodamenti sono possibili – tutti in qualche modo problematici, certo, e scelte irragionevoli, bilanciamenti sproporzionati, automatismi ottusi e draconiani sono sempre dietro l’angolo[8].
In un secondo senso, più ampio, “politica” si riferisce alle idee generali che riguardano l’organizzazione dello Stato, la sfera pubblica, la società, insomma tutto ciò che non attiene alla dimensione strettamente “privata” dell’esistenza umana[9]. Da questo punto di vista, sono “politiche” le convinzioni sulla pace nel mondo, sulla gestione e protezione dell’ambiente, sull’organizzazione del mercato, sulla parità di genere, sulle diseguaglianze sociali, sulla questione migratoria, sulla presenza della religione nella sfera pubblica, e via elencando all’infinito.
Orbene, in questo senso è evidente che la giurisdizione è, e non può non essere, politica. Non è necessario richiamare alla mente la teoria della separazione dei poteri di Montesquieu per affermare che la giurisdizione è parte integrante dell’organizzazione dello Stato. E la giurisdizione è ovviamente un elemento essenziale di quella «specifica tecnica sociale» che è il diritto – il diritto non è altro che un particolare modo per far sì che i comportamenti sociali, e in fin dei conti la società in quanto tale, si strutturino in un certo modo anziché in un altro[10].
Da questo punto di vista, la giurisdizione è “politica” in senso quasi letterale, in quanto elemento strutturale e strutturante della polis. E sarebbe ben strano – anche se può certamente accadere – che un giudice, in quanto elemento del potere giudiziario, non avesse idee politiche in questo senso, idee sull’organizzazione della società, idee sul ruolo e sui limiti dello Stato, e idee sul proprio posto in tutto questo. Un giudice che non avesse alcuna opinione su tutto ciò, od opinioni solo alquanto vaghe e inarticolate, non credo che sarebbe un buon giudice – un giudice in grado di farsi carico di quella che Leonardo Sciascia, ancora lui, ha chiamato «la dolorosa necessità del giudicare»[11].
3. Le ragioni
Chiarito dunque che, in un certo senso, in un senso affatto specifico (il secondo senso visto nel paragrafo precedente), la giurisdizione ha inevitabilmente una connotazione politica, cercherò adesso di raccordare questo aspetto alla questione dell’attività interpretativa dei giudici, in quanto elemento qualificante ed essenziale della funzione giudiziaria[12].
Da questo punto di vista, la dimensione politica (nel senso specificato) dell’attività giudiziaria viene alla luce per un verso in virtù della natura stessa dell’attività interpretativa, e per altro verso in virtù della struttura dello Stato moderno e, ancor di più, dello Stato costituzionale contemporaneo. Nei due sottoparagrafi che seguono mi occuperò di queste due ramificazioni.
3.1. Il sottofondo politico dell’interpretazione
Che l’interpretazione giuridica di per sé mobiliti, in maniera pressoché inevitabile, un impegno etico-politico da parte dell’interprete è cosa che può essere dimostrata in maniera abbastanza agevole.
Prendiamo il caso paradigmatico di interpretazione giuridica: l’attribuzione di significato a un testo che è contenuto in una fonte del diritto. Il testo è formulato in un linguaggio (chiamiamolo per comodità “linguaggio giuridico”) che ha alcune peculiarità: è un mix di linguaggio comune (cioè il linguaggio utilizzato dai parlanti nelle loro interazioni quotidiane) e di linguaggio tecnico (termini e strutture linguistiche proprie del diritto). Inoltre, il linguaggio in cui è formulato il testo da interpretare è tutt’altro che un linguaggio formale, artificiale, rigoroso: è invece un linguaggio affetto (come qualunque linguaggio non formale) da vaghezza, ambiguità, genericità, ridondanze; e il linguaggio con cui è formulato il testo potrebbe risultare obsoleto, o incongruo, o ingiusto in relazione alle circostanze del caso; e così via[13]. Ancora, le formulazioni linguistiche dei testi normativi sono sovente (quasi sempre) “opache” rispetto agli scopi sottostanti perseguiti dalle autorità normative: se è ovvio che una prescrizione (linguisticamente formulata in un testo normativo) è stata posta in vista di un qualche obiettivo, non sempre è chiaro quale sia, esattamente, tale obiettivo. Infine, il testo da interpretare è inserito in una fitta trama di altri testi – una trama che si sviluppa in direzione sia “orizzontale” (sullo stesso piano delle fonti del diritto) sia “verticale” (fonti superiori e inferiori); ovviamente, anche questi altri testi sono formulati in un linguaggio non formale, e dunque sono anch’essi affetti da vaghezza, ambiguità, genericità, ridondanze, indeterminatezza degli scopi, etc.
Ebbene, da tutto ciò deriva che, nell’interpretazione di un testo, l’interprete deve sciogliere quantomeno i seguenti tipi di problemi, che indico senza alcun ordine gerarchico particolare: superare situazioni di vaghezza, ambiguità, genericità, obsolescenza, etc.; stabilire se un certo termine debba essere inteso nel suo senso “ordinario” o in un senso “tecnico-giuridico” (in quest’ultimo caso è anche possibile che, per uno stesso termine, esistano più sensi tecnico-giuridici tra i quali occorre scegliere); stabilire quale sia la (probabile verosimile, ragionevole…) ratio che sta dietro quella prescrizione giuridica, e se tale ratio sia compatibile e congruente con altre esigenze del sistema (come principi costituzionali, etc.); stabilire se il testo da interpretare vada inteso alla luce di altri testi, dello stesso rango o di rango superiore, o anche di rango inferiore, o anche provenienti da altri ordinamenti.
Non è tutto. Nella nostra cultura giuridica l’interpretazione è considerata come un’attività razionale: una attività che deve essere sostenuta da idonee ragioni. Queste ragioni sono i cd. “argomenti interpretativi”, o “tecniche interpretative”: l’argomento letterale, l’argomento dell’intenzione del legislatore, l’argomento teleologico, l’argomento sistematico, etc. Una buona interpretazione – o forse una interpretazione tout court – è tale solo se sostenuta da uno o più di questi argomenti, i quali peraltro, quasi tutti possono essere utilizzati in modi diversi: possono esserci modi diversi di intendere la nozione di “significato letterale”, di ricostruire l’intenzione del legislatore, di individuare la ratio legis o il sistema rilevante, etc. E inoltre, se all’interprete è tendenzialmente precluso utilizzare argomenti interpretativi diversi da quelli convenzionalmente ammessi dalla cultura giuridica di riferimento (ad esempio, qui e ora, farsi ispirare dalla lettura del fondo di una tazza di caffè, o dal volo degli uccelli), è anche vero che l’interprete ha una possibilità di scelta più o meno ampia tra i diversi argomenti interpretativi astrattamente ammissibili. In una cultura giuridica minimamente complessa, dunque, gli argomenti interpretativi sono molteplici, e spesso utilizzabili in modi diversi[14].
A ciò, se non fosse ancora abbastanza, si potrebbe ancora aggiungere che non sempre è così chiaro se il testo che l’interprete ha di fronte sia o no una fonte del diritto. A parte i casi chiari (la legge, la Costituzione, etc.), vi possono essere numerose ipotesi nelle quali il testo a cui l’interprete si rivolge per decidere il caso abbia uno statuto giuridico quantomeno dubbio[15]. In questi casi non è affatto scontato, né privo di implicazioni, se l’interprete decida di usare o non usare un certo testo a fini interpretativi/applicativi.
Tiriamo le somme. Nel corso dell’attività interpretativa, l’interprete si trova a dover prendere numerose decisioni: sui significati che si possono estrarre dal testo, sul valore stesso del testo come possibile oggetto d’interpretazione giuridica, sulle tecniche da impiegare in questo processo e (corrispondentemente) sugli argomenti spendibili al fine di rendere questo processo intersoggettivamente comunicabile. Ebbene, sia la scelta degli argomenti interpretativi da utilizzare (e del modo in cui utilizzarli), sia il peso specifico da attribuire agli argomenti interpretativi disponibili, sia eventualmente il modo in cui gerarchizzare i vari argomenti interpretativi (in che ordine usarli, come risolvere possibili conflitti tra argomenti che puntano in direzioni diverse… ), sia il tipo di testi di cui l’interprete si può servire nell’attività interpretativa dipendono da assunzioni che possono essere genericamente compendiate nella nozione di “argomentazione di secondo livello”, o “meta-argomenti interpretativi”: un insieme di considerazioni o di “direttive”, spesso piuttosto fluide, su come svolgere il processo interpretativo ampiamente inteso.
Così, ad esempio, un meta-argomento interpretativo potrà consistere nel prescrivere o consigliare all’interprete di far ricorso in primo luogo al significato letterale “ordinario”, in secondo luogo a un significato tecnico-giuridico, in caso di ulteriore dubbio scrutare la ratio legis e l’intenzione del legislatore, etc.; oppure, potrà consistere nel prescrivere o consigliare all’interprete di cercare sempre il significato maggiormente compatibile con i principi costituzionali, anche se ciò richiede di forzare la lettera della legge o di andare contro le apparenti intenzioni del legislatore; oppure, potrà consistere nel prescrivere o consigliare all’interprete di interpretare sempre in maniera estensiva le disposizioni che attribuiscono diritti fondamentali, e di interpretare sempre in maniera restrittiva le disposizioni che introducono limitazioni ai diritti fondamentali; e così via.
Ebbene, la scelta e l’adozione di un certo meta-argomento interpretativo è raramente, e comunque in minima parte, dettata in modo esplicito dal diritto positivo stesso; piuttosto, deriva da idee sul ruolo dell’interprete nei processi di interpretazione e applicazione del diritto, e possibilmente, ancora più in generale, sul ruolo della legge e del diritto nella società: ad esempio, l’idea che il giudice debba essere un fedele custode della volontà del legislatore, o della certezza del diritto, oppure che debba assicurare l’aggiornamento del diritto alla luce dell’evoluzione della realtà e dei valori sociali, o che debba promuovere l’integrazione dell’ordinamento nazionale in ordinamenti sovranazionali e assicurare che il diritto interno sia adeguato alle punte più avanzate della cultura giuridica a livello globale, etc.
Come si vede chiaramente, considerazioni di questo genere sono considerazioni di carattere etico-politico. I dibattiti e i dissensi in materia di interpretazione non sono “disaccordi di credenze”, cioè contrasti sulla verità di proposizioni, su “come stanno le cose”, in merito alle quali i soggetti coinvolti si scambiano prove e argomenti razionali (ad esempio, sulla “vera” intenzione del legislatore, o sulla “vera” ratio legis, etc.); piuttosto, sono “disaccordi di atteggiamento”, cioè contrasti che si situano sul piano degli scopi, dei desideri, delle preferenze[16]. Così ricostruita la natura delle considerazioni più generali sul ruolo dell’interprete, che portano all’adozione di una serie di meta-argomenti interpretativi, sembra appropriato ricondurle alla nozione di “ideologia giuridica”: intendendo qui “ideologia” in senso neutrale, come «sistema di credenze e di valori, che viene utilizzato (…) per fondare la legittimità del potere»[17] (in questo caso, il potere dell’interprete).
I lineamenti generali delle ideologie giuridiche più diffuse sono facilmente identificabili. In linea di massima, la distinzione fondamentale passa tra le ideologie giuridiche che concepiscono il giurista come un “conservatore” o “guardiano” del diritto, se non addirittura della legge (ideologie “formaliste”, o “statiche”), e le ideologie giuridiche che attribuiscono al giurista il ruolo di “innovatore” del diritto (ideologie “sostanzialiste”, o “dinamiche”)[18].
La conseguenza di tutto ciò è che l’interpretazione giuridica non consiste in una adiafora presa d’atto, da parte dell’interprete, di come stanno le cose; non è un’attività puramente descrittiva o dichiarativa. Piuttosto, l’interpretazione giuridica richiede l’adozione, da parte dell’interprete, di molteplici scelte ispirate a una certa ideologia giuridica. Nell’esercizio di queste scelte, l’interprete concorre – lo voglia o no, piaccia o no – alla conformazione del diritto oggettivo. Il diritto oggettivo è il prodotto di una osmosi continua e complessa tra lo strato “legislativo” (i testi, le fonti formali) e lo strato “interpretativo” (i significati, le sistematizzazioni, etc.). Ci sono molti modi in cui l’interprete (e specialmente quell’interprete dotato di particolare autorità quale è il giudice) può concorrere alla formazione e conformazione dell’ordinamento – modi più “interventisti” (“dinamici”), e modi più “passivi” (“statici”). Ma il punto è che, in qualunque caso, ciò è frutto di una scelta politica: anche un ipotetico giudice che cercasse di replicare il modello della “bocca della legge”, ammesso che ciò sia possibile, lo farebbe sulla base di un’ideologia giuridica e dunque, al fondo, sulla base di una scelta politica. L’interpretazione giuridica è, invariabilmente, esercizio di potere[19].
Tre veloci osservazioni prima di chiudere su questo punto.
La prima osservazione è che, pur se è vero che l’adozione di una certa ideologia giuridica presuppone scelte di carattere etico-politico, tuttavia non è possibile stabilire un parallelo preciso e indefettibile tra ideologie giuridiche e idee politiche in senso stretto, e tantomeno appartenenze partitiche. Certo, ho detto che un’ideologia giuridica formalista restituisce l’immagine di un giurista conservatore, mentre un’ideologia giuridica sostanzialista restituisce l’immagine di un giurista innovatore; ma “conservatore” e “innovatore”, qui, devono essere intesi da un punto di vista giuridico, non politico: conservazione e innovazione vanno viste rispetto al diritto formalmente vigente, non rispetto al quadro politico o alla società. Un giurista potrebbe ricorrere ad argomenti formalisti per “proteggere” una legislazione politicamente progressista, o comunque per “difendere” il diritto vigente da spinte provenienti dal mondo politico, così come potrebbe ricorrere ad argomenti sostanzialisti per contrastare e smantellare una legislazione progressista[20].
La seconda osservazione è che nulla assicura che ogni giudice sia consapevole di avere una certa ideologia giuridica, o che la segua sempre coerentemente, o perfino che ne abbia una: qualche giudice potrebbe infatti limitarsi a reiterare in maniera posticcia schemi di argomentazione e di decisione elaborati da altri organi dell’applicazione, o da altri giuristi, senza articolarli consapevolmente in uno schema di legittimazione etico-politico del proprio ruolo, senza avere le idee chiare, o senza avere idea alcuna, in merito al fondamento e alle implicazioni etico-politiche dei metodi interpretativi che egli stesso impiega nel proprio lavoro di giudice[21]. È certamente possibile immaginare un giudice che faccia il suo lavoro semplicemente tirando a campare, decidendo i casi in base all’aria che tira e cercando di arrivare alla fine del mese senza farsi troppo notare. Questo è certamente immaginabile: che sia anche desiderabile, è tutt’altra faccenda.
La terza osservazione è che, per affermare quanto detto fin qui in merito all’inevitabilità delle scelte nel processo interpretativo, non è affatto necessario sottoscrivere qualche forma di scetticismo interpretativo, qualche idea del tipo che i testi normativi possono avere qualunque significato, che il diritto è creato dagli interpreti, e simili amenità. Anche chi creda[22] che nel diritto esistono risposte corrette ai problemi interpretativi (che è cosa diversa dal dire che ogni problema interpretativo abbia sempre una risposta corretta), non può non riconoscere che, nel corso dell’attività interpretativa, l’interprete è chiamato a compiere molteplici scelte, e che tali scelte si fondano solitamente su opzioni di tipo etico-politico.
3.2. L’interprete davanti alla legge o dentro l’ordinamento?
Il secondo ordine di fattori che fa emergere il sottofondo politico dell’interpretazione giuridica è legato alla posizione dell’interprete nell’ordinamento giuridico. Già nel sottoparagrafo precedente ho chiarito che, nel corso dell’attività interpretativa, l’interprete non si misura mai con un solo testo, ma piuttosto con un testo che è inserito in una fitta trama di altri testi, con i quali intrattiene rapporti complessi e non sempre esattamente predeterminati dal diritto positivo stesso o da convenzioni radicate nella cultura giuridica.
Questa è la realtà degli ordinamenti giuridici contemporanei, e non da oggi ma quantomeno dall’età della codificazione in poi. Infatti, nel momento in cui il diritto viene concepito non come una serie di comandi puntuali e puntiformi (come forse avrebbe potuto ipotizzare qualche forma di imperativismo ingenuo), ma come un “sistema” strutturato per materie, istituti, criteri assiologici (principi ispiratori, etc.), diventa impraticabile il modello del giudice “bocca della legge”, che idealmente si limita a trasmettere il messaggio precettivo così come concepito dal legislatore[23]. Davanti a un diritto codificato, l’interprete si trova a dover ricostruire le strutture ordinanti del codice stesso, facendo interagire il sistema “interno” (quale emerge dalla struttura formale del codice) con un sistema “esterno” (derivante dalla sistematica dell’interprete stesso)[24]. E questa “logica” viene giocoforza replicata dall’interprete anche davanti a leggi che non appartengono al codice: in un contesto di diritto codificato, l’interprete ha ormai abbracciato l’idea che tutto il diritto sia innanzitutto “sistema” (magari articolato in sotto-sistemi, sotto-sotto-sistemi, e così via), e dunque anche davanti a singole leggi, o a leggi “speciali”, l’interprete replicherà l’opera di riconduzione del testo della legge a una trama più ampia di concetti, istituti, nessi sistematici, principi generali, etc.[25].
Come è evidente, man mano che si consolida negli interpreti una mentalità “sistematica”, l’interprete vede se stesso più al servizio “del diritto” che al servizio “della legge”. Se consapevole di operare in un sistema, davanti a ogni singola legge l’interprete si preoccuperà di salvaguardare la coerenza sistematica più che di attuare l’indirizzo politico che ha ispirato il legislatore nell’occasione contingente. E ciò può certamente creare l’illusione ottica che l’interprete stia “facendo politica”: nel senso che in questi casi l’interprete, nel porsi dal punto di vista del “sistema”, sembra non voler assecondare la volontà politica che sta dietro alla singola legge. Ma questa è appunto una illusione ottica, perché a ben vedere l’interprete farebbe politica comunque – sia se decidesse di valorizzare la dimensione sistematica del diritto, sia se decidesse di attuare la volontà politica contingente del legislatore (in certi contesti culturali, caratterizzati da un ceto giuridico molto compatto su posizioni “sistematiche”, probabilmente sarebbe il giurista “bocca della legge” ad apparire come un politicizzato sovversivo).
Il quadro ovviamente diventa ancora più complesso, e il divario tra l’interprete “bocca della legge” e l’interprete “sistematico” si approfondisce ulteriormente, quando il sistema non solo si estende “in orizzontale” (con la codificazione di vari settori del diritto), ma si complica anche “in verticale”: con l’introduzione di una Costituzione rigida, e con l’aggancio del sistema nazionale a circuiti normativi sovranazionali. Nel momento in cui il sistema diventa “multilivello” (legge, Costituzione, normative sovranazionali) si accentua inevitabilmente il ruolo “contromaggioritario” dell’interprete, perché l’interprete tenderà a interpretare la legge in modo da renderla compatibile (finché può) con fonti superiori alla legge stessa e tendenzialmente indisponibili da parte del potere politico che detiene pro tempore la maggioranza.
In questo contesto, dunque, si moltiplicano le occasioni di tensione e di frizione tra l’interprete (il giudice) e il legislatore (la maggioranza politica). Perché in questo contesto la volontà della maggioranza non è l’alfa e l’omega del significato della legge: l’interprete (almeno, l’interprete che si riconosca in questo modello, che sottoscriva un’ideologia giuridica di tipo “sistematico”) deve trovare il significato della legge che meglio si accordi con il resto dell’ordinamento, e specialmente con le fonti sovraordinate alla legge. E quindi, fatalmente, si moltiplicheranno le accuse, rivolte agli interpreti, di “fare politica”: perché, alla politica della maggioranza, gli interpreti staranno opponendo le ragioni (al fondo, anch’esse politiche) del sistema.
4. Politicità e imparzialità del giudice. Che fare?
Ricapitolando quanto sono andato dicendo fin qui: a) l’attività giurisdizionale (e il momento interpretativo all’interno di essa) è connotata da un certo grado e da un certo tipo di politicità; b) questo elemento “politico” è tendenzialmente inevitabile, quantomeno nei giudici “riflessivi”, nei giudici che non svolgono il proprio lavoro in maniera meccanica (e probabilmente anche i giudici “non riflessivi”, intellettualmente pigri, farebbero comunque della politica “preterintenzionale”, senza accorgersene); c) questa dimensione politica non è politica politicante, non è la lotta politica quale può essere portata avanti dall’interno di un partito o movimento politico, ma è politica nel senso di consapevolezza, da parte del giudice, di essere parte di una complessiva organizzazione giuspolitica – nel caso dell’Italia attuale, un’organizzazione improntata ai principi della democrazia costituzionale e integrata in un ordine sovranazionale (anzi, in più ordini sovranazionali).
D’accordo. Ma resta un problema: come si concilia questo sottofondo politico dell’attività del giudice con l’aspettativa di terzietà e di oggettività che ci aspettiamo dall’esercizio della giurisdizione? La politicità, anche in questa accezione “alta” (ma chi scrive non ha nulla contro la “politica politicante”), non finisce comunque per fagocitare l’imparzialità del giudice?
Credo che qui la riflessione possa essere divisa su due sentieri: per un verso, ci possiamo chiedere se sia preferibile che i convincimenti politici del giudice siano esibiti, pubblici, oppure se al contrario è meglio che siano tenuti nascosti. Per altro verso, ci possiamo chiedere come gestire e bilanciare, su un piano culturale, istituzionale e sociale, il sottofondo politico della giurisdizione.
Dal primo punto di vista, poiché come ho già detto i giudici sono esseri umani e in quanto tali dotati – come ci si augura – di una propria vita intellettuale (valori etici e sociali, patrimonio culturale, etc.), e poiché la posizione del giudice nell’ordinamento è, nel senso chiarito, politica, non vedo cosa vi sia da guadagnare nel tenere tutto ciò nascosto all’occhio del pubblico. Non vedo ragione per cui il giudice dovrebbe astenersi dal manifestare in pubblico, se lo ritiene, i propri convincimenti etici, sociali, culturali. Mi sembra preferibile un giudice che sia in grado di articolare le proprie posizioni etiche, politiche, culturali, etc., rispetto a un giudice che non abbia idee in proposito, o che presenti le proprie scelte interpretative come indiscutibilmente “oggettive”[26].
Dal secondo punto di vista – e senza voler inseguire una impossibile quadratura del cerchio –, credo che l’inevitabile presa d’atto del sottofondo politico dell’interpretazione giuridica porti a soffermare l’attenzione su almeno tre tipi di contrappesi, o “regole di ingaggio”, utili a bilanciare l’esercizio di potere che è connaturato all’attività interpretativa dei giudici[27].
Un primo contrappeso alla dimensione politica dell’interpretazione giudiziaria consiste in un precetto deontologico, o metodologico, di “moderazione interpretativa”[28]. Se è vero che il testo da interpretare può opporre all’interprete solo una debole resistenza, e che di fatto può essere in vario modo manipolato in sede interpretativa, è anche vero che i possibili modi in cui un testo può essere trasformato in via interpretativa non stanno tutti sullo stesso piano: l’interprete può scegliere se mantenersi più vicino al significato “ovvio” del testo, o se invece distaccarsene, con vari espedienti e con varia intensità, producendo una interpretazione “innovativa”, “creativa”. Ebbene, mentre per l’interprete dottrinale può certamente ammettersi un certo grado di libertà e di fantasia interpretativa (anche perché le interpretazioni dottrinali raramente sortiscono effetti concreti nella realtà), l’interpretazione giudiziaria dovrebbe tenere in debito conto il rispetto delle aspettative che i cittadini si sono formati rispetto al diritto vigente: sia in riferimento alla “lettera della legge” (cioè il significato più ovvio delle disposizioni rilevanti[29]), sia in riferimento a eventuali indirizzi interpretativi consolidati. Il giudice deve fare lo sforzo (più intenso rispetto al giurista “comune”) di stemperare la propria ideologia giuridica a fronte del diritto vigente[30]. In altre parole, proprio la collocazione istituzionale e il ruolo in senso ampio politico del giudice giustificano una politica dell’interpretazione che sia, in linea generale, rispettosa della lettera della legge – la stessa lettera della legge, peraltro, ha di solito maglie sufficientemente larghe da scongiurare qualunque rappresentazione del giudice come mero automa inanimato.
Un secondo contrappeso alla dimensione politica dell’interpretazione giudiziaria consiste nell’obbligo di motivazione: anche se ciò che di fatto accade nella testa del giudice è, in definitiva, insondabile, l’obbligo di esplicitare nella motivazione della sentenza una serie di ragioni idonee a fondare la decisione su un piano intersoggettivo rende possibile un controllo sociale sull’attività interpretativa, una forma di verifica – per quanto tutt’altro che rigida – della sua correttezza[31]. Ovviamente, gli argomenti interpretativi disponibili al giudice sono molteplici, e il loro impiego è tutt’altro che rigido. Ma, così come un testo non può dire qualunque cosa, allo stesso modo un certo argomento interpretativo non può essere piegato a qualunque obiettivo[32]. Per quanto elastica sia l’utilizzazione degli argomenti interpretativi, questi hanno comunque una capacità disciplinatrice nei confronti della motivazione. Non ogni argomento è utilizzabile in sede giudiziaria, e un argomento non può sostenere qualunque esito interpretativo. Prendere sul serio l’obbligo di motivazione vuol dire sforzarsi di rendere quanto più razionale possibile il processo interpretativo (processo che, comunque, non assomiglierà mai a un semplice calcolo). Qualunque siano gli assunti etico-politici di fondo del giudice, ciò che conta è che la sua decisione sia solidamente argomentata alla luce del diritto vigente.
Un terzo contrappeso alla dimensione politica dell’interpretazione giudiziaria, infine, è in qualche modo lo specchio di quello precedente, e consiste nella più ampia libertà di critica dei provvedimenti giudiziari[33]. La motivazione dei provvedimenti giudiziari, d’altronde, serve proprio a questo, quantomeno nella sua proiezione extraprocessuale. Dalla duplice circostanza che l’interpretazione giudiziaria è esercizio di potere (un potere che può perfino essere devastante per la vita delle persone coinvolte) e che l’interpretazione giudiziale passa inevitabilmente attraverso molteplici scelte (scelte, in ultima analisi, condizionate da assunzioni etico-politiche), segue che non solo le istituzioni specificamente giudiziarie, ma anche la cultura giuridica e l’opinione pubblica nel suo complesso abbiano un diritto di controllare, ed eventualmente sottoporre a critica, anche aspra, qualunque decisione giudiziaria. Le sentenze sono frutto (anche) di argomenti: e come tali si discutono, e si criticano.
1. Credo sia sufficiente rimandare alle pagine di G. Tarello, Orientamenti della magistratura e della dottrina sulla funzione politica del giurista-interprete, in Politica del diritto, nn. 3-4/1972, pp. 459-499 (originariamente presentate come relazione al convegno catanese su «L’uso alternativo del diritto»), e di U. Scarpelli, Modelli di giudice [1984], in Lo Stato, n. 20/2023, pp. 191-241 (originariamente preparate per un convegno sul tema «La istituzione giudiziaria nel XXV anniversario dell’entrata in funzione del Consiglio Superiore della Magistratura. Esperienze e Prospettive»).
2. Sul modello burocratico di giudice, vds. P. Calamandrei, Processo e democrazia [1954], in Id., Opere giuridiche, vol. I, Roma TrE-Press, Roma, 2019, pp. 648-649; M. Taruffo, Il modello burocratico di amministrazione della giustizia, in Democrazia e diritto, n. 3/1993, pp. 249-263.
3. Questo paradosso non è sovrapponibile, se non per piccola parte, all’altro paradosso (un «doloroso» paradosso), segnalato da Leonardo Sciascia, per cui «non si può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto»: L. Sciascia, A futura memoria, Adelphi, Milano, 2017, p. 81 (la citazione è tratta da un articolo del 14 ottobre 1983).
4. Pensiamo a termini come “elegante”, “ignorante”, “crudele”, “democratico”… Per termini come questi, una eventuale “inversione valutativa”, cioè l’uso di questi termini per effettuare una valutazione opposta a quella più ovvia (usare “elegante” e “democratico” in senso derogatorio, o “crudele” e “ignorante” in senso commendevole), può semmai avvenire nel contesto di un discorso ironico o provocatorio.
5. Una distinzione rigorosa tra “funzioni di governo” (inclusa la legislazione) e “funzioni di garanzia” si può trovare in L. Ferrajoli, Principia iuris, vol. 1, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 875-879; Id., La costruzione della democrazia, Laterza, Roma-Bari, 2021, pp. 254-260.
6. Su questo sono ancora tutte da meditare le splendide pagine di S. Satta, Il mistero del processo [1949], in Id., Il mistero del processo, Adelphi, Milano, 1994, part. pp. 30 ss.
7. Riguardo alla magistratura requirente, si potrebbe obiettare che in processo essa ha in realtà il ruolo di “parte” processuale, e non di “terzo”. L’obiezione mi sembra superficiale, quantomeno nel contesto di un ordinamento come quello italiano, in cui il pubblico ministero è certamente “parte”, ma pur sempre parte “pubblica”, che persegue un interesse pubblico e generale, non un interesse privato o di parte.
8. L’ordinamento italiano sembra, per il momento, aver raggiunto in questa materia un assestamento (che a prima vista non sembra irragionevole), con l’operare congiunto del formante legislativo (d.lgs n. 109/2006) e di quello giurisprudenziale (Corte cost., nn. 224/2009 e 170/2018; Cass., sez. unite, n. 8906/2020).
9. Distinguere il “pubblico” dal “privato” è un esercizio notoriamente difficile (vds., ad esempio, N. Bobbio, Stato, governo, società, Einaudi, Torino, 1985, cap. 1) e, secondo alcuni modi di pensare, anche fuorviante (come vuole il vecchio slogan: “il personale è politico”).
10. Sul diritto come una «tecnica sociale» o «una specifica tecnica di organizzazione sociale», vds. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato [1945], Etas, Milano, 1945, p. 5.
11. L. Sciascia, La dolorosa necessità del giudicare [1986], in L. Cavallaro e R.G. Conti (a cura di), Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, Cacucci, Bari, 2021, pp. 153-154. Una fine riflessione filosofica su questo si può leggere in A. Lo Giudice, Il dramma del giudizio, Mimesis, Udine, 2023.
12. L’interpretazione della legge «rappresenta il proprium della funzione giurisdizionale», secondo una formula spesso ripetuta dalla Corte di cassazione (Cass. civ., sez. unite, nn. 11380/2016, 22571/2019, 22711/2019, 5905/2020).
13. Per una ricognizione delle caratteristiche semantiche e pragmatiche del linguaggio giuridico, da cui si originano i più rilevanti problemi di interpretazione, vds. G. Pino, L’interpretazione nel diritto, Giappichelli, Torino, 2021, cap. 5.
14. G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 249: «il pluralismo dei metodi è la condizione odierna della scienza del diritto».
15. Tra i casi più discussi negli ultimi anni, ad esempio, vi è quello delle linee-guida emanate dall’ANAC. Ma questo vale in generale per tutti quegli atti atipici genericamente ricondotti alla eterogenea categoria del “soft law”.
16. C. Stevenson, Ethics and Language, Yale University Press, New Haven (Connecticut), 1944, pp. 2-8 (su «disagreements of beliefs» e «disagreements of attitude»).
17. Per questa accezione “neutrale” di ideologia, contrapposta alle accezioni “valutative” che enfatizzano l’aspetto mistificante delle credenze ideologiche, vds. N. Bobbio, L’ideologia in Pareto e in Marx [1968], in Id., Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, Roma-Bari, 1977, p. 114. Vds. anche A. Ross, Diritto e giustizia [1958], Einaudi, Torino, 1990, p. 72, sulla nozione di “ideologia delle fonti”, che «consiste di direttive che non concernono direttamente il modo di risolvere una controversia giuridica, ma indicano il modo secondo il quale il giudice dovrà procedere per scoprire la direttiva o le direttive rilevanti per la controversia di cui si tratta» (vds. anche p. 105, sul rapporto tra l’ideologia delle fonti del diritto e le ideologie “del metodo”).
18. Per ulteriori approfondimenti su questo punto, rinvio a G. Pino, L’interpretazione, op. cit., cap. 9.
19. Ho provato a sviluppare questo punto in G. Pino, Poteri interpretativi e principio di legalità, in Enciclopedia del diritto. I tematici, vol. V. Potere e costituzione, a cura di M. Cartabia e M. Ruotolo, Giuffrè, Milano, pp. 960-985; vds. anche B. Celano, Due problemi aperti della teoria dell’interpretazione giuridica, Mucchi, Modena, 2017.
20. In proposito vds., ad esempio, G. Calabresi, Two Functions of Formalism. In Memory of Guido Tedeschi, in University of Chicago Law Review, vol. 67, n. 2/2000, pp. 479-488.
21. Secondo G. Tarello, Orientamenti, op. cit., p. 460: «la maggior parte dei giuristi e la maggior parte dei magistrati non dicono di fare né fanno in effetti alcuna politica del diritto, essendo il loro pensiero su questi temi inarticolato, ed essendo i loro comportamenti puramente casuali». In proposito, vds. anche E. Diciotti, Regola di riconoscimento e concezione retorica del diritto, in Diritto & questioni pubbliche, n. 7/2007, pp. 9-42.
22. Come l’autore di queste pagine: G. Pino, L’interpretazione, op. cit., cap. 3 (dove viene criticato lo scetticismo interpretativo, sia “radicale” sia “moderato”, e difesa una forma di oggettivismo interpretativo moderato).
23. Ovviamente, a rendere impraticabile, o quantomeno ingenuo, il modello del giudice “bocca della legge” vi sono anche le ben note considerazioni che non sempre il significato delle espressioni linguistiche può essere appreso senza dover sciogliere dubbi di vario tipo; e che l’intenzione del legislatore storico è sostanzialmente inafferrabile.
24. Per questa distinzione vds. G. Lazzaro, Sistema giuridico, in Novissimo Digesto italiano, vol. XVII, 1970, pp. 459-464; M.G. Losano, Sistema e struttura nel diritto, vol. I, Giuffrè, Milano, 2002 (II ed.); M. Barberis, L’evoluzione nel diritto, Giappichelli, Torino, 1997, cap. II.
25. Il processo è ben descritto in U. Scarpelli, Modelli, op. cit., dove vengono contrapposti il modello “illuministico” e il modello “codicistico” di giudice.
26. Su questo rimando alle fini osservazioni di N. Rossi, Il caso Apostolico: essere e apparire imparziali nell’epoca dell’emergenza migratoria, in Questione giustizia online, 10 ottobre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-apostolico-essere-e-apparire-imparziali-nell-epoca-dell-emergenza-migratoria), ora in questo fascicolo.
27. Nuovamente, ricordo che qui mi sto occupando della questione dell’aspetto politico dell’attività giudiziaria solo dal punto di vista dell’attività interpretativa. Un più ampio spettro di precetti deontologici, che riguardano anche altri aspetti dell’attività giudiziaria, può essere letto in L. Ferrajoli, Giustizia e politica, Laterza, Bari-Roma, 2024, cap. 6.
28. Qualcosa di analogo mi pare sia suggerito, specificamente per il diritto penale, da V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Diritto penale contemporaneo, 17 gennaio 2018; vds. anche L. Ferrajoli, Giustizia, op. cit., p. 264 (sul rifiuto del “creazionismo interpretativo”).
29. Aspetto, questo, su cui di recente stanno molto insistendo sia la Corte costituzionale (sent. n. 98/2021) sia la Corte di cassazione (Cass. pen., sez. VI, nn. 5536/2022 e 26225/2023).
30. Mi sembra che vadano in una direzione non dissimile anche le riflessioni di E Scoditti, Il giudice e il dovere di indipendenza da sé stesso, in Foro it., vol. 145, 2020, V, cc. 217-224.
31. G. Tarello, L’interpretazione della legge, Giuffrè, Milano, 1984, p. 99; L. Gianformaggio, Certezza del diritto, in Digesto IV ed. Discipline privatistiche. Sezione civile, Utet, Torino, 1988, pp. 274.
32. Con le parole di Uberto Scarpelli, «l’interprete è come un nuotatore nella grande corrente di uno stile interpretativo, che si muove con la corrente ed anche nella corrente, ma sospinto dalla forza della corrente» (U. Scarpelli, Modelli, op. cit., p. 213).
33. V. L. Ferrajoli, Giustizia, op. cit., pp. 243 ss., che insiste sull’insensatezza del mantra: “le sentenze si rispettano”; R.G. Conti, Atto politico vs giustizia “politica”. Quale bilanciamento con i diritti fondamentali?, in Giustizia insieme, 2 novembre 2023, par. 8.