Magistratura democratica

L’imparzialità dei giudici e della giustizia in Francia… … in un mondo dove gravitano i diritti fondamentali

di Simone Gaboriau

Un viaggio nella storia del pensiero giuridico alla luce dell’esperienza francese, sulle tracce di un concetto connaturato al funzionamento della giustizia, reattivo ai tentativi di soppressione o mascheramento tuttora capaci di incidere sul ruolo del magistrato all’interno della società. Una società complessa e plurale, di cui egli è parte attiva a pieno titolo. Nella lucida e personalissima testimonianza di Simone Gaboriau, l’imparzialità emerge come principio-cardine dell’ordine democratico, fondato – necessariamente – sull’indipendenza dei poteri che lo reggono.

1. Introduzione / 1.1. la nascita dell’imparzialità / 1.2. Platone e la nascita dell’imparzialità «razionalista» / 2. Preambolo / 2.1. La connessione tra la mia vita professionale e il principio di imparzialità / 2.2. Dalla legittimità democratica del principio di imparzialità alla tempesta contro il potere giudiziario e i diritti fondamentali / 2.3. Dal requisito normativo all’esperienza / 3. Il sorgere dell’imparzialità (e di molti altri principi) / 3.1. Il mio ingresso nel mondo giudiziario / 3.2. L’appartenenza sindacale: dibattito e riflessione / 4. Anno 2023: storia di una distorsione dell’imparzialità / 4.1. Imbavagliare i sindacati e, in particolare, il SM / 4.2. Un attacco al SM… Pretesto è Mayotte / 4.3. La distorsione del senso di imparzialità e le reazioni /4.4. Epilogo / 5. I tempi nuovi dei giuramenti / 5.1. Che senso deve avere un giuramento? / 5.2. Giuramenti nel tempo e nello spazio di giustizia / 5.3. Imparzialità, perché giungi così tardi? / 6. Intermezzo: alcune storie particolari / 6.1. Il buon giudice Magnaud / 6.2. L’arringa di Baudot / 7. L’antidoto alla parzialità: apparenza e/o trasparenza? / 7.1. Dietro l’imparzialità, la questione del senso della giustizia / 7.2. Il diritto secondo la Corte Edu / 7.3. La tirannia dell’apparenza / 7.4. Come cavarsela nel quotidiano? La missione non è impossibile, ma è difficile e fa parte dell’esercizio della professione che abbiamo scelto / 8. Il giudice dev’essere un “arbitro impegnato” / 8.1. La necessità di un ruolo attivo del giudice nell’era dei diritti fondamentali / 8.2. Obbligo di chiarimento e di “dialogo” in capo al giudice. L’esempio pertinente della Germania / 8.3. Imparzialità allargata / 8.4. L’esempio dei diritti dei consumatori / 9. L’imparzialità sistematica / 9.1. L’approccio sociale / 9.2. L’approccio organizzativo / 10. Fine-partita provvisorio: le più alte istanze giurisdizionali possono essere parziali? / 10.1. La Corte di cassazione… sì! / 10.2. … E il Consiglio costituzionale? Forse / 11. Conclusioni / 11.1. Imparzialità: un concetto a elevata densità e di ampia portata / 11.2. Un passato che non passa / 11.3. L’imparzialità dei magistrati e la logica verticale del riarmo / 11.4. La decisione della Corte Edu del 20 febbraio 2024 chiuderà il dibattito sulla libertà di espressione dei magistrati?

 

1. Introduzione

 

1.1. la nascita dell’imparzialità

Nessuno può datare con precisione, anche a uno stadio embrionale, la nascita storica della giustizia come istituzione. Senza dubbio, vi furono giudici prima delle leggi[1]. E tutto porta a credere che sia molto antico il sentimento di ingiustizia rivolto a un “partito preso” nell’esercizio di questa funzione regolatrice della società. Di certo risale alla notte dei tempi... Questo stesso sentimento portò, verso il XV secolo, alla definizione dell’aggettivo “parziale” con riferimento a colui che è prevenuto, nutre pregiudizi, non è equo. Ne derivò, poi, il concetto di “imparzialità” per qualificare, in senso elogiativo, chi non si schiera da una parte o dall’altra. Lo si applicò ai giudici, ma anche agli storici, come testimonia la prima versione del «Dizionario» dell’Académie Française (III edizione, 1740), definendolo così: «Qualità di chi è imparziale. L’imparzialità è una qualità essenziale per essere un buon giudice e un buono storico».

Nel suo «Trattato sulla tolleranza» (1763), pubblicato nel 1763 per riabilitare Jean Calas, crudelmente giustiziato a seguito di un tragico errore giudiziario[2] del Parlamento di Tolosa (apice della faziosità basata sull’intolleranza religiosa), Voltaire impiega cinque volte la parola “imparziale”.

L’esistenza, risalente nei secoli, delle procedure di ricusazione dei giudici nel diritto francese (codificate da Luigi XIV nel 1667) testimonia di questa particolare sensibilità all’imparzialità degli attori della giustizia. Per giustificare la ricusazione di un giudice, si possono trovare formulazioni de tipo: «[rischiava di concedere a una delle parti] una protezione che oltrepassava anche la giustizia»[3].

 

1.2. Platone e la nascita dell’imparzialità «razionalista»

Già Platone, per tutta la sua vita, fu “perseguitato” dal processo (399 a.C.) del suo maestro Socrate e dall’ingiustizia di cui egli fu vittima. Tra gli approcci filosofici all’imparzialità, Platone è il padre di una visione pressoché dominante, definita «razionalista» da Julie Allard, che scrive: «L’imparzialità implica una messa a distanza dei sentimenti, delle opinioni, delle convinzioni, delle emozioni, per fondare il giudizio sulla ragione – restando inteso che è la ragione che salva la soggettività umana dal suo proprio arbitrio», e aggiunge: «In fondo, solo un morto potrebbe dar prova di una simile imparzialità, in cui giudicherebbe secondo puro spirito razionale, senza mai essere colpito o toccato da ciò che giudica. Platone pensa allora alla vera giustizia come a una giustizia disincarnata (senza corpo)»[4]. Così Platone giunse a ritenere che chi giudica, per essere davvero imparziale… dev’essere morto, o Dio, quindi “puro spirito”. 

La complessità del concetto è, così, messa in luce e altri filosofi l’affronteranno. Il giudice, dal canto suo, si trova ad affrontarla quotidianamente.

Una delle condizioni preliminari dell’imparzialità è che il giudice eserciti la sua funzione in una cornice istituzionale che gli garantisca un esercizio indipendente di essa, affinché sia libero di prendere le sue decisioni.

 

2. Preambolo

 

2.1. La connessione tra la mia vita professionale e il principio di imparzialità

Per quarant’anni ho servito la giustizia. Le ho dedicato molti scritti e le sue esigenze di “bontà” continuano a interpellarmi.

A proposito di questa istituzione, che porta il nome di una Virtù, sono sempre stata animata dalla volontà di non rendere decisioni ingiuste… e, certo, mi guardo bene dal credere di aver sempre raggiunto l’obiettivo! In ciò oso pensare di aver raggiunto Paul Ricoeur:

«Intenzionalmente, evocando i ricordi d’infanzia, nomino l’“ingiusto” prima del “giusto”. Il nostro primo ingresso nella regione del diritto non è forse stato segnato dal grido: “è ingiusto!” ?. Tale è il grido dell’indignazione, la cui intuizione a volte confonde, commisurata alle nostre esitazioni di adulti chiamati a pronunciarsi sul giusto in termini positivi». «Ma allora», prosegue Ricoeur, «perché non limitarsi all’indignazione? Cosa le manca per eguagliare un autentico senso della giustizia? Non è sufficiente dire che, ancora, mancano i criteri positivi del giusto (...) Si propone un’importante equazione, in cui il giusto inizia a distinguersi dal “non giusto”: quella tra giustizia e imparzialità. “Giusta distanza”, “mediazione di un terzo”, “imparzialità” divengono i grandi sinonimi di quel senso della giustizia verso il quale l’indignazione ci ha portati fin dalla più giovane età»[5].

È proprio per dare un senso a questa indignazione che è nata molto presto in me (avevo quindici anni) la vocazione di giudice, pensando che se fossi entrata a far parte dell’Istituzione, almeno avrei cercato di trovare la via del giusto. Dopo quella dell’indipendenza, la questione dell’imparzialità è arrivata a imporsi.

Nelle righe che seguono, vi porterò in varie direzioni: dal racconto vissuto ai racconti storici, con soste più o meno brevi in epoche diverse, dall’Ancien Régime ai periodi repubblicani... e in luoghi diversi, da Mayotte a Château Thierry, in Germania, in Europa...

 

2.2. Dalla legittimità democratica del principio di imparzialità alla tempesta contro il potere giudiziario e i diritti fondamentali

Prima, però, occorre sottolineare che, in via generale, l’imparzialità è parte della democrazia, come Pierre Rosanvallon ha posto in rilievo in un’opera sulla «legittimità democratica»[6], associandola ai due indispensabili complementi della riflessione e della prossimità. L’imparzialità diviene così uno dei principi-cardine della democrazia, di cui il buon funzionamento della giustizia è parte integrante.

Tuttavia, il ruolo democratico della giustizia è sempre più contestato in nome della stigmatizzazione del “potere dei giudici”, che pregiudica il potere del popolo sovrano. Rosanvallon ha avuto, d’altronde, occasione di sottolineare che «i regimi populisti (...) vogliono sottomettere le corti costituzionali, sopprimere gli organismi indipendenti e considerare come nemici le facoltà di analisi e di giudizio (...). Oggi, in tutto il mondo, si sente dire questo (...). La posta in gioco è una certa concezione della democrazia (...). Bisogna difendere l’idea che la democrazia non è solo il popolo dell’elettorato, ma anche i suoi contro-poteri»[7]. L’offensiva contro i giudici diventa sempre più attuale, non solo nei regimi cd. “populisti”, ma anche in altri contesti che non si qualificano come tali. Ad esempio, in Francia, dietro il pretesto di ottenere ad ogni costo una legge contro l’immigrazione, il Governo ha concluso un patto faustiano con la destra, alleata della destra estremista, che porta all’adozione di un testo indegno. Questo atto legislativo ha sollevato una mobilitazione generale di tutti i movimenti e le personalità impegnati nella salvaguardia dei diritti fondamentali. Esso comprendeva misure manifestamente contrarie alla Costituzione, in parte derivanti da emendamenti fortemente destrorsi. Così, l’esecutivo ha fatto ricorso deliberato all’incostituzionalità della legge quale tecnica di governo mentre la funzione politica ben si è adattata, nel suo esercizio, al di là dei confini legali.

Il Conseil constitutionnel ha censurato una trentina di disposizioni contenute nella legge, ma per semplici difetti “di fabbricazione”, senza portare l’attenzione su «i principi legati al rispetto della dignità di ogni persona umana e la solidarietà necessaria alla sopravvivenza di una comunità umana»[8], non frapponendo così alcun ostacolo all’eventuale proposta parlamentare di un testo che riprenderebbe le disposizioni censurate. Le restanti disposizioni sono rivelatrici di un segnale molto forte, inviato al mondo intero: «la Repubblica francese non ha più compassione»[9]. Malgrado l’intervento del Consiglio, la legge in oggetto è una delle più repressive dal 1945, data del primo testo in materia di immigrazione[10] nella Francia liberata. Eppure, a valle della censura richiamata – che, lo si ripete, non riguarda il merito –, si è udito il refrain di alcuni politici sul “governo dei giudici”, oltre alla denuncia di un “hold-up (anti)democratico”. Uno di loro, peraltro molto esperto di questioni giuridiche, ha persino osato proporre una riforma – giuridicamente impossibile – che consenta al Parlamento di avere l’ultima parola in seguito alla pronuncia del Consiglio costituzionale. Non pochi eccessi di questo tenore rivelano l’ostilità, sempre in aumento, verso le decisioni dei giudici, anche di quelli costituzionali (che Oltralpe non sono giudici professionisti, laddove questi ultimi figurano come bersagli abituali degli anti-“potere giudiziario”, denominato «autorità giudiziaria» dalla Costituzione francese).

Prima di offrire un quadro della situazione francese rispetto all’esigenza di imparzialità, l’esempio sopra riportato denota fino a che punto la tempesta in corso sia diretta contro il diritto e le istituzioni giudiziarie 

 

2.3. Dal requisito normativo all’esperienza

Dal punto di vista normativo, in Francia il principio di imparzialità si basa principalmente sull’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, titolato «Diritto a un equo processo»: «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge (…)» (comma 1). Sottoscritto dagli Stati membri del Consiglio d’Europa il 4 novembre 1950 ed entrato in vigore il 3 settembre 1953, questo trattato fu ratificato tardivamente (il 3 maggio 1974) proprio dalla Francia, “Patria dei diritti dell’uomo”… Ho iniziato la mia carriera il 13 luglio 1971, prima ancora di quella ratifica, senza dimenticare che il diritto al ricorso individuale è stato riconosciuto soltanto il 2 ottobre 1981. Ministro della giustizia era allora il compianto Robert Badinter[11] (che ci ha lasciati il 9 febbraio scorso), un uomo che ha segnato la sua epoca, forte del suo ideale umanista e della passione spesa per l’abolizione della pena di morte.

Inizierò ricordando questo momento personale di confronto con la realtà giudiziaria. Infatti, se l’imparzialità è un principio, è anche un’esperienza. E l’esperienza, si sa, non dà prova dei principi, ma li mette – significativamente – alla prova.

 

3. Il sorgere dell’imparzialità (e di molti altri principi)

 

3.1. Il mio ingresso nel mondo giudiziario

Entrata all’École nationale de la magistrature (ENM) nel 1969, dopo aver superato il concorso l’anno precedente, e assunte prime funzioni nel luglio 1971, posso dire che di deontologia, imparzialità, etica e cose del genere non si parlava. A scuola, nessuna riflessione particolare su questo tema, tutt’al più qualche vaga allusione alle regole di astensione e ricusazione.

Posso, anzi, dire che ci veniva insegnata una certa parzialità. Così il magistrato che trattava della funzione della Procura ci raccontava la sua pratica, ai suoi occhi manifestamente esemplare: archiviava le denunce per violenza tra coniugi, che riteneva un modo per le donne di fabbricarsi una prova per una causa di divorzio in arrivo (all’epoca esisteva solo il divorzio per colpa) – preciso che in Francia vige il principio dell’opportunità dell’azione penale e non, come in Italia, quello della obbligatorietà.

In generale, regnava una gran ipocrisia e l’interventismo era tutt’altro che infrequente: pressioni gerarchiche sui magistrati della Procura per archiviare procedimenti che coinvolgevano un personaggio celebre; telefonate a un giudice per rivelare, al di fuori del dibattimento, informazioni ritenute utili alla soluzione di una controversia o, palesemente, ad influenzarne l’esito, etc... Potrei citare molti esempi in cui tentarono di condizionarmi nel prendere decisioni favorevoli a una parte o all’altra, anche se presto capirono che non funzionava.

Dell’imparzialità come concetto non si parlava veramente: si supponeva esistesse, senza avvertire il bisogno di esprimerla a parole. La ricusazione e l’astensione esistevano, ma si verificavano raramente.

Io stessa sono invece stata criticata più o meno direttamente per mancanza di imparzialità: giudice istruttore intrattabile sulle violenze poliziesche, molto rigoroso sul rispetto delle regole d’indagine da parte della polizia, nei confronti della quale mi si considerò “di parte”; impegnata nella difesa dei più vulnerabili, degli indigenti, dei consumatori, etc., alla ricerca di pratiche che tenessero nella dovuta considerazione la loro situazione e il loro vissuto. Così, agli occhi di molti, agivo ideologicamente, per partito preso. Lo stesso vale per le mie risposte in materia penale, non necessariamente fondate sulla detenzione e, in generale (senza, ovviamente, la certezza del risultato), ricercavano il rispetto dei diritti fondamentali.

Ma ho anche incontrato colleghi e ausiliari di giustizia sensibili a queste preoccupazioni. Così, per quanto riguarda il discorso sull’imparzialità, le cose si sono mosse, in particolare a causa dell’aumento delle aspettative dei cittadini, poco fiduciosi nei confronti della giustizia.

A metà degli anni novanta, all’ENM è stata avviata sul tema una formazione continua alla quale ho partecipato. Animato da un ex-primo presidente della Corte di cassazione, che riuniva intorno alla libertà di parola un piccolo gruppo di magistrati, questo ciclo di incontri terminò con un convegno. Fu una vera e propria “prima”. Quando, però, si trattò di scrivere un libro, il materiale era insufficiente. Di certo, la nostra riflessione meritava ulteriori approfondimenti.

Ognuno continuò a sciamare sul tema e, via via, i riflettori si sono accesi. Dopo la caduta del Muro di Berlino, ho partecipato a incontri con colleghi esponenti delle “nuove” democrazie, anche in Russia nel 2002 (quando tutti speravano in una democratizzazione del Paese). Ho Ricordo sempre un episodio commovente. Durante un incontro con un centinaio di colleghi russi, io stessa e due magistrati francesi abbiamo descritto la teoria della distanza, del non coinvolgimento personale, richiamando alcune regole deontologiche di base. Un collega russo appartenente a una minoranza asiatica perseguitata e ostracizzata sotto Stalin, poi ufficialmente reintegrata nel “popolo russo”, pur continuando ad affrontare il razzismo, ci pose la domanda: «Devo astenermi quando qualcuno della mia comunità viene giudicato? Se lo faccio, chi nella decisione farà conoscere la sua cultura, le difficoltà del suo vivere, le reazioni razziste che subisce quotidianamente?». Naturalmente non ci pronunciammo a favore di una concezione “comunitaria” dell’imparzialità. Lui, evidentemente, si sforzava di essere parte del collegio giudicante quando un membro della sua comunità era sotto processo e, forse, c’era la tendenza ad estrometterlo. Non essendo la parola dei nostri colleghi totalmente libera, non potevamo cogliere la realtà in tutte le sue sfumature.

 Quella reazione mi è sempre rimasta impressa nella mente, perché dimostrava con pertinenza che un giudice non è imparziale se non conosce la realtà sociale della persona che giudica e, in quel caso, non può renderle la sua parte di giustizia. È così che, progressivamente, ho costruito la mia riflessione sull’imparzialità, la quale – devo dirlo – è sempre in fieri

 

3.2. L’appartenenza sindacale: dibattito e riflessione

Intanto, nel 1982 avevo ricoperto le funzioni di presidente del Sindacato della magistratura e contribuito, nel giugno 1985, a creare MEDEL («Magistrati Europei per la Democrazia e le Libertà»). La ricerca del senso della giustizia e la volontà di resistere alla situazione deleteria di allora presto mi portarono a convergere con un’organizzazione sindacale, il Syndicat de la Magistrature (SM), istituita nel maggio del 1968. Tutti i giovani magistrati restavano, come me, colpiti dall’enorme divario esistente tra la realtà giudiziaria che scoprivano e l’idea alta che si erano fatti della “giustizia” prima di conoscerla. In effetti, pochi anni di esercizio professionale bastavano ai neo-magistrati per constatare, con stupore e in tutta lucidità, l’astrattezza di proclamazioni quali «indipendenza della giustizia» o «uguaglianza di tutti di fronte alla giustizia».

Rompendo il silenzio sul reale funzionamento della giustizia, il SM fu la testa di ponte dell’indipendenza della magistratura e della ricerca di un’autentica imparzialità. La questione dell’indipendenza era prioritaria nelle nostre lotte, in quanto costituiva un’urgenza vitale per la giustizia. Occorre ricordare, a questo proposito, le parole del Primo ministro Georges Pompidou in un discorso televisivo del 16 maggio 1968: «Ho dato prova del mio desiderio di conciliazione. (...) Ho liberato i manifestanti arrestati. (...)». Resta il fatto che era una decisione della Corte d’appello di Parigi ad aver messo fine alla detenzione provvisoria degli imputati! Parole rivelatrici della confusione tra i poteri. L’inedita rimozione dei lacci alla parola dei magistrati, e la sua risonanza nei media, hanno inevitabilmente creato malumore tra chi avrebbe continuato a preferire un corpo di magistrati muti. Così, molto presto il SM fu oggetto di aspre critiche, se non di attacchi virulenti.

Spesso, l’accusa di una “politicizzazione” della giustizia – cioè: di parzialità – fondata su presupposti ideologici è stata la leva di questi attacchi. Così, già nel 1975, un ex-Primo ministro, in un articolo pubblicato su Le Figaro con il titolo «Giudici contro la giustizia», definiva il SM un’«organizzazione sovversiva di sinistra». Eravamo «le toghe rosse»!

Periodicamente l’accusa si è rinnovata, con toni talvolta veementi. Il SM fa paura perché ha integrato la questione sociale nel funzionamento dell’istituzione. 

Nondimeno, i nostri governi si allontanano sempre di più dalla Repubblica «sociale» proclamata dall’articolo 1 della Costituzione del 1958[12]. E regna una forte tendenza, da parte dei movimenti politici dominanti, a predicare un populismo penale fondato sull’iper-repressione, abbandonando la dimensione sociale e, anzi, facendo uso della forza come unica risposta al disagio sociale di una parte della popolazione. Va da sé che il Syndicat e i suoi membri rappresentano il bersaglio privilegiato delle loro invettive. 

Nelle righe che seguono, mi concentrerò sull’imparzialità, situata alla convergenza tra le convinzioni del giudice e la “teoria delle apparenze” elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: nel manifestarsi all’esterno, l’impegno del giudice – se non la sua militanza – non tradirebbe un “pregiudizio” o, in ogni caso, non lascerebbe spazio a un legittimo timore di mancanza d’imparzialità da parte sua? Una domanda che non ho voluto evitare.

 

4. Anno 2023: storia di una distorsione dell’imparzialità

 

4.1. Imbavagliare i sindacati e, in particolare, il SM

Come abbiamo visto, tutto ciò che rappresenta “il potere giudiziario” è disprezzato, a iniziare, per ciò che interessa il funzionamento dell’istituzione, dai magistrati del SM. Col pretesto di imporre il rispetto dell’imparzialità ai giudici (rispetto che è, di per sé, un’evidenza), parte degli eletti ha voluto imbavagliare i magistrati prendendo di mira i sindacati.

Quest’estate è stata votata una legge organica [id est: “rinforzata”, ma subordinata alle leggi costituzionali – ndr] sulla «apertura, la modernizzazione e la responsabilità del giudiziario». Al momento del deposito del relativo ddl, il 3 maggio, l’«imparzialità» non era menzionata né tra principi generali né all’interno del giuramento dei magistrati. Le numerose disposizioni andavano a integrare una legge, anch’essa sottoposta al voto del Parlamento, di profonda revisione del funzionamento della giustizia, in vista di un «piano d’azione per una giustizia più rapida ed efficace».

Durante la prima lettura in Senato, l’8 giugno, fu proposto da un deputato di “Union centriste” (un partito di destra) un emendamento – poi approvato – che esigeva il rispetto del principio di imparzialità per i magistrati iscritti a un sindacato: «Riteniamo che ogni sindacato di magistrati abbia una totale libertà di espressione (...). Resta la nozione di imparzialità. Essa è talmente importante che deve permeare l’azione individuale dei magistrati, ma anche la loro azione collettiva. Non vediamo in che cosa la nozione di imparzialità potrebbe essere di ostacolo alla libertà di espressione». Sintomaticamente, l’emendamento aveva ricevuto un parere favorevole dalla relatrice del testo, che aveva sottolineato: «Con quello che è accaduto a Mayotte, inserire l’imparzialità dei magistrati nella legge non è senza utilità».

L’emendamento chiaramente presentava una notevole confusione giuridica. Infatti, l’imparzialità s’impone ai giudici nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali, il che nulla ha a che vedere con la libertà di espressione sindacale, che si esercita al di fuori di tali funzioni.

 

4.2. Un attacco al SM… Pretesto è Mayotte

Il riferimento maorese[13] riguardava un’ordinanza di urgenza emessa il 24 aprile 2023 dalla presidente del Tribunale di Mamoudzou, che aveva ordinato al prefetto di «cessare ogni operazione di evacuazione e di demolizione degli abitati» in una determinata zona geografica, prevista il giorno successivo in esecuzione della decisione prefettizia. 

Mentre la legittimità e la legalità dell’intervento dell’autorità giudiziaria non erano discutibili, si fece largo una congrega composta da parte della stampa e da alcuni deputati che accusarono la presidente del tribunale, additata come ex-vicepresidente del SM, di essere “di parte” nella sua decisione[14].

Come ogni decisione giudiziaria, poteva essere contestata e riformata in appello, ciò che avvenne il 17 maggio con sentenza della Corte d’appello di Saint Denis, che non è stata oggetto di ricorso per cassazione. La nozione giuridica di «via di fatto», posta a fondamento della decisione maorese, è complessa e ha dato luogo a variazioni giurisprudenziali. una giurisprudenza, anche se consolidata, può sempre evolvere. Per semplicità, diremo che questa nozione permette al giudice di censurare una decisione prefettizia la cui contestazione (fatta eccezione per la caratterizzazione di detta «via di fatto») sarebbe di competenza del giudice amministrativo; la definizione di tale valutazione spetta, in ultima istanza, a un’alta giurisdizione, il Tribunale dei conflitti, composto pariteticamente da magistrati della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato. 

Le operazioni di sgombero e demolizione iniziarono a fine maggio e, nel frattempo, il giudice amministrativo dispose le condizioni necessarie per l’esecuzione. Il provvedimento del prefetto esprimeva la volontà di smantellare «alloggi indegni» e di lottare contro l’immigrazione clandestina. In effetti, quegli alloggi di fortuna erano occupati da famiglie da molti anni; inoltre, per la specificità di Mayotte e la sua storia comune con le Isole Comore, diverse famiglie sono in parte francesi e in parte comoriane. 

La decisione prefettizia[15] era appoggiata da una parte della popolazione, mentre un’altra parte, rappresentata soprattutto da associazioni, denunciava l’assenza di una concreta possibilità di ricollocazione e il rischio di disgregazione delle famiglie franco-comoriane.

Le associazioni denunciavano anche pratiche di espulsione illegali attraverso la consegna arbitraria di minori ad adulti terzi, che non conoscevano, con lo scopo di provvedere al loro allontanamento...

 

4.3. La distorsione del senso di imparzialità e le reazioni 

Nei dibattiti accusatori che questa decisione giurisdizionale suscitò fin dalla sua pronuncia, ci si spinse fino a chiedere la ricusazione dei magistrati membri del SM.

Per far tacere le accuse di parzialità, in un comunicato del 4 maggio il Csm si espresse in questi termini:

«Il Consiglio superiore della magistratura tiene a ricordare che, in uno Stato di diritto democratico, la critica di una decisione giudiziaria non deve in alcun caso esprimersi con l’accusa personale del magistrato autore della decisione. Ribadisce che la libertà sindacale è riconosciuta ai magistrati e ricorda che le prese di posizione di un’organizzazione sindacale non possono servire da base per mettere in discussione l’imparzialità di un magistrato, per il solo motivo che egli sarebbe membro di tale organizzazione. Il Consiglio tiene, infine, a ricordare che questi principi, relativi all’indipendenza della giustizia, fondano lo Stato di diritto in tutti i territori della Repubblica».

Nondimeno, il 2 maggio, il Ministro della giustizia ha presentato al Csm una richiesta di parere sulla libertà di espressione dei magistrati, compresa quella esercitata in ambito sindacale: il SM era nel mirino, pur senza essere nominato. Il Csm rispose[16] (trascorsi sei mesi di riflessione) che la libertà di espressione sindacale caratterizza un diritto ad esprimersi «ancora più ampio di quello che risulta dal diritto comune»; che un «tono polemico» e un «certo vigore (...) sono anche possibili», pur nel rispetto di «una certa misura» ed escludendo qualsivoglia insulto o commento denigratorio. Per giustificarla, portò a sostegno della sua risposta la giurisprudenza del Consiglio di Stato, del Consiglio costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo.

A questo proposito, merita particolare interesse una sentenza, pronunciata – il caso vuole – il 6 giugno, ossia due giorni prima del deposito dello scellerato emendamento: Corte Edu, Sarisu Pehlivan c. Turchia (n. 63029/19)[17]

La questione riguardava le critiche, rivolte dalla segretaria generale di un sindacato di magistrati turco, alle riforme sul funzionamento della giustizia, critiche che le erano valse una sanzione. La Corte di Strasburgo ha ricordato che i temi relativi all’indipendenza della giustizia dal potere politico rientrano, in un modo o nell’altro, nella politica generale che interessa la struttura organizzativa e il funzionamento dello Stato. Ha, poi, rilevato che la ricorrente – tenuta a rispettare il dovere di riservatezza e di moderazione inerente alla sua funzione di magistrato – assumeva peraltro, in quanto segretaria generale di un sindacato di magistrati, un ruolo di attore della società civile. In tal modo, l’interessata aveva il diritto e il dovere di esprimere il proprio parere su riforme costituzionali suscettibili di incidere sulla magistratura e sulla sua indipendenza. Per la prima volta – a quanto mi risulta – la Corte Edu ha evocato la funzione di “cane da guardia sociale” dell’organizzazione non governativa formata da un sindacato di magistrati.

Il 13 giugno MEDEL[18] ha esortato le autorità nazionali a rinunciare al loro progetto di restrizione della libertà di espressione dei membri della magistratura: «È con la massima preoccupazione che MEDEL prende atto della volontà delle autorità francesi di rimettere in discussione la libertà di espressione dei magistrati e, attraverso di essa, di pregiudicare l’indipendenza della giustizia francese».

 

4.4. Epilogo

La versione definitiva del testo è stata la seguente: «La manifestazione pubblica del proprio pensiero [«expression publique» – ndr] da parte dei magistrati non può pregiudicare l’esercizio imparziale delle loro funzioni né l’indipendenza della giustizia».

La nozione di «expression publique» riferita ai «magistrati» ha dato luogo a una confusione in ordine ai diversi contesti nei quali essa può intervenire e sui suoi contenuti, autorizzati o meno. Nel primo caso, può trattarsi di un contesto collettivo, sindacale o individuale, professionale o extra-professionale; può riguardare argomenti relativi a cause in corso (ad esempio, la comunicazione istituzionale del procuratore della Repubblica sullo stato di un procedimento), a politiche penali o giurisdizionali (come i discorsi tenuti dai vertici di un organo giurisdizionale in occasione delle udienze solenni di inizio anno giudiziario), all’organizzazione della giustizia, o ancora a temi più generali legati all’indipendenza della giustizia o al ruolo di custode della libertà individuale affidato all’«autorità giudiziaria» dalla Costituzione. Alcuni vi includerebbero volentieri l’«espressione pubblica» in ambito sindacale (in particolare, nell’ambito del SM), come hanno dimostrato certe esternazioni politiche durante la votazione della legge.

 Per tutti questi motivi, sarebbe stata auspicabile una riserva d’interpretazione che permettesse di ricordare l’assoluta necessità del rispetto della libertà sindacale. Tuttavia, il Consiglio costituzionale non ha ravvisato nella formulazione della legge alcun rischio di arbitrarietà: «Queste disposizioni si limitano a ricordare alcuni dei doveri che s’impongono a ogni magistrato e non disconoscono nessuna esigenza costituzionale». Per quest’ultimo aspetto (corsivo aggiunto), vanno senz’altro richiamate l’analisi – molto motivata – del Csm e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. 

 

5. I tempi nuovi dei giuramenti

 

5.1. Che senso deve avere un giuramento?

In Francia nessun politico, quali che siano le sue funzioni istituzionali, deve prestare giuramento. Qualche volta, il “giuramento politico” è stato preso in esame in una proposta di legge, senza mai avere successo.

Storici come Robert Jacob[19] ci dicono che, dopo la fine delle ordalie e di altri rituali simili, i giudici sono diventati decisori, e non più semplici notai, dell’esito del duello giudiziario. Per legittimare questa nuova funzione, dovevano prestare giuramento, il che costituiva una garanzia – rafforzata dal rituale religioso – della fedeltà al potere del Re; esso sanciva, inoltre, l’obbligo per il giudice di conservare i segreti della Corte. Quest’obbligo rimase al centro del giuramento insieme alla lealtà, il cui significato si è necessariamente evoluto nel tempo. Nel nostro regime di democrazia repubblicana, solo un impegno al servizio dei principi fondatori della democrazia può essere legittimamente espresso. Esso subì una rottura durante l’occupazione nazista, con la promessa di parzialità derivante dalla subordinazione al Capo dello Stato. (vds. infra).

 

5.2. Giuramenti nel tempo e nello spazio di giustizia

Il potere giudiziario – «l’autorità giudiziaria», a partire dalla Costituzione del 1958 – è costituito implicitamente[20] da due ambiti di giurisdizione: ordinaria e amministrativa. Al vertice della giurisdizione amministrativa si trova il Consiglio di Stato, una figura istituzionale “portante” del sistema francese. La giustizia amministrativa[21] ha un proprio statuto, che non appartiene all’ordine giuridico formalmente definito dalla Costituzione.

La legge organica (promulgata previo controllo del Consiglio costituzionale) prevede una nuova formulazione del giuramento dei magistrati ordinari che, per la prima volta, contiene un riferimento all’imparzialità.

Il nuovo giuramento dei magistrati ordinari è: «Giuro di svolgere le mie funzioni con indipendenza, imparzialità e umanità, di comportarmi come un magistrato degno, integro e leale e di rispettare il segreto professionale e quello delle decisioni».

Il giuramento che ho prestato è stato questo: «Giuro di adempiere bene e fedelmente le mie funzioni, di custodire religiosamente il segreto sulle decisioni e di comportarmi in tutto come magistrato degno e leale». Fatta eccezione per la soppressione, nel 2016, del riferimento religioso – fuori luogo in una Repubblica laica –, questa formula è rimasta immutata per un buon centinaio di anni. Tuttavia, nel periodo dello «Stato francese» e della collaborazione con l’occupante nazista, si aggiunse, a mo’ di preambolo: «Giuro fedeltà alla persona del Capo dello Stato», vale a dire il Maresciallo Pétain. Il giuramento fu prestato da tutti i magistrati, tranne uno. Anche se alcuni si dimostrarono zelanti nel collaborare, quell’atto formale non impedì ad alcuni magistrati[22] di entrare, con varie modalità, nella Resistenza. Così uno di loro, alla fine del 1943, lanciò un appello da Radio Londra ai colleghi francesi, esortandoli a rifiutare di applicare le leggi allora in vigore:

«Magistrati di Francia, non c’è testo che possa vincolarvi. Al di sopra della legge scritta c’è la legge morale. Nella carenza delle leggi, un magistrato ha per guida solo la sua coscienza, e voi avete un solo dovere: seguire i suoi ordini». Quanti l’hanno sentito? Quanti l’hanno ascoltato? Quanti l’hanno seguito? Sessanta magistrati furono decorati con la medaglia della Resistenza e uno di loro, morto sotto tortura, fu nominato “Compagno della Liberazione”. La seconda legge sulla giustizia, promulgata lo stesso giorno, ha definito – un fatto storico[23] – un giuramento per i giudici amministrativi, compresi i membri del Consiglio di Stato. Da allora, essi avrebbero giurato di «svolgere le loro funzioni in piena indipendenza, probità e imparzialità, di mantenere il segreto sulle decisioni e di comportarsi in tutto onore e dignità». Ormai, allora, sia i magistrati ordinari che quelli amministrativi si impegnano solennemente a rispettare la propria imparzialità, unendosi così ai membri del Consiglio costituzionale, i quali giurano al Presidente della Repubblica «di svolgere bene e fedelmente le loro funzioni, di esercitarle in tutta imparzialità nel rispetto della Costituzione, di mantenere il segreto sulle deliberazioni e le votazioni e di non prendere alcuna posizione di rilevanza pubblica, né prestarsi ad alcuna consultazione sulle questioni di competenza del Consiglio».

In compenso, il giuramento per i giudici di corte di assise tace al riguardo, non comportando alcun riferimento esplicito all’imparzialità. Tuttavia, tale requisito figurava nel giuramento dei primi giudici popolari introdotti nella giustizia francese dalla Rivoluzione del 1789, nonché, sotto il Primo Impero, in quello dei giurati d’assise previsti dal Code d’instruction criminelle del 1808. 

Questo riferimento all’imparzialità non si ritrova in nessun altro giuramento concernente i diversi attori della giustizia francese – né per i membri della Corte di giustizia della Repubblica né per i giudici dei tribunali di commercio, né, ancora, per i membri del Consiglio dei probiviri (prud’hommes).

Così, non vi è coerenza deontologica nelle formulazioni dei vari giuramenti, che pure corrispondono alle diverse funzioni del giudicare, le quali esigono il rispetto dell’imparzialità.

 

5.3. Imparzialità, perché giungi così tardi?

«A seconda che siate potenti o miserabili, i giudizi di corte vi faranno bianco o nero», scriveva nel 1678 Jean de La Fontaine, nel suo «Gli animali malati di peste». Certo, in alcuni parlements si prestava giuramento di «fare giustizia ai poveri e ai ricchi»[24], ma non si può pretendere che la giustizia fosse davvero un modello di imparzialità; il nostro celebre favolista ne ha talentuosamente denunciato le carenze e, più tardi, Voltaire ha dimostrato come i pregiudizi di un parlement potessero causare il dramma di un tragico errore giudiziario. «Una volta (...) legislatori e magistrati si reclutavano nella stessa classe sociale ed erano d’accordo che dei vantaggi del diritto beneficiassero soltanto i loro pari. I giudici manifestavano la propria imparzialità sottomettendosi alla legge e vietandosi di porla in dubbio: il giuridico poteva essere diverso dal giusto»: parola di Paul Martens, presidente onorario della Corte costituzionale del Belgio (c.vi aggiunti)[25]. Ecco perché il giuramento dei giudici era privo di riferimento all’imparzialità.

La questione dell’imparzialità non si poneva nella misura in cui, attraverso la giustizia, si esprimeva il potere politico e regnava l’adagio “dura lex, sed lex”, massima spietata, che permetteva giudizi ingiusti senza alcuna colpa di coloro che li pronunciavano. Il giudice non era forse la “bocca della legge”, secondo un’interpretazione letterale delle parole di Montesquieu? Spesso si dimentica che, per il filosofo di La Brède, «le leggi sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose» (L’esprit des lois) e che la sua celebre formula meriterebbe allora seri approfondimenti, tanto più che ha anche scritto: «Una cosa non è giusta perché è legge (...), ma deve essere legge perché è giusta» (Cahiers posthumes).

Va detto che la cultura politica francese è stata fortemente segnata dalla filosofia politica del periodo rivoluzionario. Diffidando dei parlements, che avevano dato prova d’indipendenza nei confronti del potere regio, e temendo di scontrarsi con una replica di simili manifestazioni, i rivoluzionari francesi misero quei tribunali in congedo definitivo. Non concedendo poteri propri alla giustizia, essi negavano ai tribunali ogni legittimità democratica. Restituendo il potere al popolo, sognavano di creare un diritto “semplice come la natura”. Così, respinsero il concetto stesso di giurisprudenza.

La separazione dei poteri, proclamata dall’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 26 agosto 1789, ha dovuto adattarsi allo spauracchio, spinto fino all’ossessione, del “governo dei giudici”. La giustizia non era che una leva per estendere la «volontà generale» espressa dalle leggi, fino agli estremi confini della Nazione. Si postulava che la legge arrivasse a esprimere l’interesse (necessariamente uno) della Nazione (una). La legge non poteva che essere fondamentalmente ragionevole e benefica. Uguale per tutti, essendo ciascun cittadino uguale di fronte ad essa (art. 6 Dichiarazione dei diritti dell’uomo), la legge non poteva che esprimere le indispensabili garanzie di imparzialità meccanicamente riprodotte dai giudici. Soltanto i giurati, giudici non professionisti, prestavano giuramenti che contemplavano un obbligo di imparzialità.

Certo, simili concezioni sembrano appartenere al passato per una società che si rivendichi democratica; tuttavia, esse permeano tuttora gran parte della cultura politica nazionale.

 

6. Intermezzo: alcune storie particolari

Due racconti (forse tra i meno conosciuti) dimostrano approcci dissidenti alla teoria dominante di una neutralizzazione dell’intervento del giudice, basata su un positivismo giuridico che si rifà a una concezione meccanicistica dell’atto di giudicare.

 

6.1. Il buon giudice Magnaud

Mentre la Repubblica era saldamente (e definitivamente) insediata, il giudice Magnaud[26], presidente del Tribunale penale di Château Thierry, emise, il 4 marzo 1898, la seguente sentenza di assoluzione:

«Poiché è deplorevole che, in una società ben organizzata, uno dei membri di questa società, soprattutto una madre di famiglia, possa mancare di pane se non per colpa sua; quando tale situazione si presenta, il giudice può e deve interpretare umanamente le rigide prescrizioni della legge. Dato che la fame può togliere ad ogni essere umano una parte del suo libero arbitrio e ridurre in lui la nozione di bene e di male, e che un atto, solitamente riprovevole, perde molto del suo carattere fraudolento quando chi lo commette agisce solo spinto dall’impellente bisogno di procurarsi un alimento di prima necessità; (...) che l’irresponsabilità deve essere ammessa a favore di coloro che hanno agito solo sotto l’impulso irresistibile della fame (…) occorre, pertanto, dichiarare l’imputata non colpevole, dispensandola da ogni spesa».

L’imputata era stata accusata di aver rubato del pane per nutrire suo figlio. Il giudice Magnaud aveva inventato per lei lo “stato di necessità”, che in seguito sarebbe stato integrato nel codice penale. La sentenza ebbe un’ampia eco anche all’estero, e «il buon giudice Magnaud», che rese molte altre decisioni ispirate dalla stessa umanità, divenne famoso e venerato. Al volgere della sua carriera, nel 1912, il suo superiore gerarchico lo dipinse così: «Monsieur Magnaud è rimasto il “buon giudice”, ossia un magistrato penoso, che nulla intende del dovere sociale del magistrato e che ignora tutto della legge che ha avuto il dovere professionale di applicare».

Egli rivendicava espressamente una parte di interpretazione per poter rendere giustizia equamente. «Ritengo», affermava, «che il giudice non sia fatto per applicare la legge in modo meccanico, come uno scolaro che copia delle pagine scritte»[27] respingendo (e così anticipando la valutazione di Paul Martens, più sopra riportata) «la giustizia giuridica, questa piaga sociale».

 

6.2. L’arringa di Baudot

Nell’estate 1974, Oswald Baudot, allora sostituto procuratore della Repubblica di Marsiglia e membro del SM, ha lanciato lo stesso grido d’indignazione di quello – già evocato – di Paul Ricoeur in una «Arringa ai magistrati che si avviano»[28]. Lo scritto, molto personale e diffuso di propria iniziativa dal suo autore, conobbe una certa risonanza a seguito di una campagna di stampa orchestrata dai detrattori del SM.

Colpito dallo stigma della realtà quotidiana della giustizia, questo bel testo, pieno di umorismo ammantato di filosofia, non fu un fulmine anti-deontologico a cielo sereno, ma un arcobaleno umanista in un cielo torbido. Rivelava l’impensabile, o meglio, il non formulato, ciò che non si voleva dire (né sentire): il trattamento giudiziario differenziale dei ricchi e dei poveri, la disuguaglianza nell’accesso ai diritti e alla giustizia, la sovra-rappresentazione nelle carceri delle categorie sociali più povere, e... l’omertà deontologica diffusa – in breve, ciò che solo tre anni prima avevo scoperto diventando magistrata. «Siate di parte, per mantenere l’equilibrio tra il forte e il debole, il ricco e il povero, che non sono pesati sulla stessa bilancia: dovete inclinarla un po’ da un lato... »: tuttora, i detrattori del SM non cessano di stigmatizzarci ricordando, in particolare, questo passo[29]. Una formula provocatoria e paradossale, scelta da Oswald Baudot per esprimere la sua volontà di esercitare la professione preoccupandosi dell’uguaglianza sostanziale davanti alla giustizia, imponendo un’attenzione particolare alla parte debole. Isolando quell’esortazione dal resto del testo, i suoi narratori si rifiutavano (e si rifiutano ancora: un’anomalia che merita di essere denunciata) di guardare in faccia la realtà concreta della macchina giudiziaria, passata al vaglio di un ideale di giustizia. In fondo, alla maniera del pittore belga Magritte, Baudot diceva ironicamente l’opposto di ciò che scriveva: questo era davvero un appello per l’imparzialità – che, però, non poteva essere di pura forma!

 

7. L’antidoto alla parzialità: apparenza e/o trasparenza?

 

7.1. Dietro l’imparzialità, la questione del senso della giustizia

Un’indagine[30] del 2021 rivela che quasi un quarto degli intervistati percepisce la giustizia come ingiusta, ineguale, “a due velocità”, soggetta al giogo di una “parzialità sociale”, a suo tempo già denunciata da La Fontaine. Come rivela l’attuale saggistica[31], la popolazione francese è sempre più sensibile al sentimento di ingiustizia: nulla di nuovo, potrebbe obiettarsi, ma l’ingiustizia risulta qualcosa di incompatibile con le promesse della democrazia e del nostro motto repubblicano: «libertà, eguaglianza, fraternità». Certo, il sentimento di ingiustizia di chi viene condannato o perde il processo non è necessariamente rivelatore di una parzialità del giudice, anche se egli lo vive così. Una decisione giudiziaria opera necessariamente una scelta tra diversi interessi, civili e penali, e, di conseguenza, corre il rischio di scontentare una parte. E questo, anche se il giudice si sforza di essere convincente – ma, bisogna ammetterlo, non è sempre il caso delle decisioni giudiziarie in Francia.

Grande sarà la tentazione, per colui al quale il giudice ha dato torto, di ricercare nella persona stessa del magistrato le cause della sua insoddisfazione, ritenendo che lei/lui nutrisse un pregiudizio.

«La parte che vince trova che il suo senso di giustizia sia soddisfatto e quella che perde trova che il suo senso di giustizia sia offeso. La vittima pensa che il responsabile non espii mai abbastanza, e la pena è sempre troppo pesante per chi ama il colpevole» sottolinea Marie Anne Frison Roche[32].

Si è soliti dire, in Francia, che la parte scontenta ha 48 ore (o 24, a seconda delle versioni) per maledire il suo giudice (oltre, naturalmente, alle vie di ricorso). Ciò non dispensa, tuttavia, il giudice dal prendere una decisione per la quale le norme giuridiche sono strumento necessario; decisione che deve corrispondere a un senso oggettivo di giustizia, garanzia di successo della funzione del giudice di comporre i conflitti. «Il giudice non deve emettere sentenze incomprensibili e spetta a lui organizzare la partecipazione delle persone coinvolte nei procedimenti, che gli consente di accrescere la propria conoscenza – definizione oggettiva del principio del contraddittorio. In sostanza, il giudice deve creare uno spazio entro il quale poter ammettere colui che accetta la legge della discussione, ammettendo in anticipo che gli argomenti che gli saranno opposti non sono privi di pertinenza», raccomanda giustamente Frison Roche[33].

Per rispondere a questa ricerca del giusto, la Corte di Strasburgo (Corte Edu) ha inventato la teoria dell’apparenza.

 

7.2. Il diritto secondo la Corte Edu

Il quadro giurisprudenziale del nostro diritto relativo all’indispensabile imparzialità è, ormai, ben identificabile e la Corte Edu ne affina, caso per caso, l’applicazione.

I principi generali del requisito necessario dell’imparzialità, ai sensi dell’articolo 6, § 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sono i seguenti: la valutazione oggettiva, consistente nel chiedersi se, a prescindere dalla condotta personale del giudice, alcuni fatti verificabili inducano a sospettare la mancanza di imparzialità di quest’ultimo; ne consegue che, per caratterizzare un difetto d’imparzialità, la visione personale entra in gioco senza svolgere un ruolo decisivo; occorre stabilire se le valutazioni dell’interessato appaiono oggettivamente giustificate, per poi cercare eventuali legami di dipendenza tra uno degli attori del processo e il giudice e/o la giurisdizione coinvolti. In tale ambito, la Corte ritiene che anche le apparenze possono avere importanza – come dice l’adagio inglese: “justice must not only be done; it must also be seen to be done”. Ne va della fiducia che i tribunali di una società democratica devono ispirare ai suoi cittadini.

 

7.3. La tirannia dell’apparenza

Mettendo l’accento sull’“apparenza”, la Corte Edu ci ha reso sensibili al concetto… E tuttavia, come sottolinea Paul Martens, bisogna diffidare della «tirannia dell’apparenza». Analizzando la sentenza Procola[34], ha scritto, molto opportunamente:

«Non è vero che il giudice deve sempre affrontare un caso con la mente “vergine” da qualsiasi opinione». Martens contesta «l’esistenza di un diritto fondamentale alla verginità intellettuale del giudice, che quest’ultimo dovrebbe mantenere intatta fino al giorno della pronuncia della decisione». Per lui «ciò che rende insostenibile il pregiudizio è il fatto che il giudice lo abbia concepito al di fuori del dibattimento, in forza di elementi che non sono stati sottoposti al vaglio del contraddittorio». Sottolineando che «quanto viene deliberato non è che una successione di convinzioni provvisorie», fustiga «i giudici passivi, le sfingi impenetrabili», incitando «i giudici a esprimere opinioni nel corso dei dibattimenti, per consegnarle alla prova del contraddittorio».

 

7.4. Come cavarsela nel quotidiano? La missione non è impossibile, ma è difficile e fa parte dell’esercizio della professione che abbiamo scelto

Scrive Frison Roche:

«L’imparzialità è definita come il principio, per un giudice, di attribuire pertinenza agli argomenti e alle interpretazioni che si svilupperanno dinanzi a lui. (...) Al contrario, vi è parzialità laddove, quali che siano siano i fatti, gli argomenti e le interpretazioni che una parte fa valere, la loro articolazione non avrà alcuna influenza poiché la valutazione, da parte del giudice, del merito della causa è già definitivamente acquisita»[35].

Non si può sottacere che il giudice ben può fingere di ascoltare e prendere in considerazione detti argomenti, e tuttavia, nel suo foro interno, impedire a questi di influire sull’esito della controversia. A questo proposito, la motivazione deve essere un mezzo efficace per combattere l’eventuale tendenza di un magistrato a rimanere preda dei suoi pregiudizi. Nondimeno, conosciamo le motivazioni stereotipate, indotte spesso dalla spinta “produttivista”, e la governance della giustizia basata sui numeri.

Grazie a un’autentica motivazione, invece, la parte in causa, ma anche – in forza della pubblicità del processo – l’opinione pubblica, potranno essere sicuri dell’impatto degli argomenti posti a confronto (che siano stati adottati o scartati). 

Così, affinché la fiducia nella giustizia si possa costruire, la sola maniera di essere imparziali è esserlo pubblicamente e in modo controllabile, basandosi su una motivazione di alto livello qualitativo. È così che concepisco l’«apparenza», evitando che si trasformi in tirannia; a questo proposito, occorre rilevare che un ruolo attivo e impegnato del giudice (vds. infra) è perfettamente compatibile con la concezione appena sviluppata.

In nome dell’imparzialità, alcuni vorrebbero relegare il giudice “fuori dal mondo”, in quanto qualsiasi impegno nel mondo porterebbe alla formazione di pregiudizi.

Il giudice ha delle opinioni personali, non è un essere “disincarnato”. Fatto di carne e sangue, ha necessariamente delle convinzioni. Nessuno desidera che i giudici perdano contatto con la sfera dell’umano. Ricordiamo la conclusione di Platone: solo un uomo morto o Dio potrebbero essere imparziali! 

Noi giudici sappiamo tutti – perché tacere? – di avere preferenze personali, che derivano dalla nostra cultura, dalla nostra educazione, dai valori in cui crediamo. I giudici votano, in Francia possono aderire a un partito e presentarsi alle elezioni politiche (al di fuori della loro circoscrizione), sono credenti, atei, agnostici… Alcuni giudici sono più sensibili ai diritti dei proprietari, altri a quelli degli inquilini; o, ancora, a quelli dei datori di lavoro o dei lavoratori; alla difesa dell’ambiente... L’imparzialità non consiste nel cessare di avere opinioni, ma semplicemente richiede la capacità di essere toccati da un fatto, di essere convinti dagli argomenti o dall’interpretazione giuridica proposti da una parte.

Ciò che l’imparzialità vieta non è di avere un’opinione, bensì il fatto di non poterla cambiare in presenza di una data situazione e di un’argomentazione, di tenersi a distanza dal dibattito giudiziario.

Anche in questo caso, le condizioni di lavoro dei giudici, le modalità di composizione dell’organo (collegiale o meno), lo sviluppo delle udienze a giudice unico, che segue la logica della redditività ad ogni costo, costituiscono ostacoli alla realizzazione di una vera imparzialità. In particolare, il dibattimento collegiale (effettivo), è un potente fattore di attuazione dell’imparzialità.

In conclusione direi che, non meno che l’apparenza – o anche di più –, scelgo la trasparenza. Così il giudice dev’essere in grado di conoscersi, il «conosci te stesso» di Socrate diventa necessario: non gli è chiesto di giudicare al di fuori di se stesso, ma con se stesso, forte della capacità di essere toccato da ciò che viene dibattuto, sottoponendo al principio del contraddittorio tutti gli elementi che possono essere tali da fondare la sua decisione.

 

8. Il giudice dev’essere un “arbitro impegnato”

 

8.1. La necessità di un ruolo attivo del giudice nell’era dei diritti fondamentali

Dopo aver scritto, nel 2008, un articolo in un quaderno collettivo di MEDEL, intitolato «L’imparzialità del giudice non è neutralità: per una concezione impegnata della funzione giurisdizionale»[36], ho avuto la piacevole sorpresa di trovarlo citato in una rivista giuridica canadese. Qui era ripreso il nucleo profondo della la mia riflessione, situandola in un mondo (un universo) dove gravitano i diritti fondamentali. «Bisogna avere la capacità di comprendere l’insieme della realtà sociale, di essere toccati da tutte le sue componenti, per essere in grado di percepire la pertinenza fattuale e giuridica di ogni singolo percorso».

Ho applicato al giudice l’espressione di Raymond Aron, che aveva intitolato uno dei suoi libri «Lo spettatore impegnato», per significare che si può essere sia terzi che impegnati. Il giudice dev’essere un “arbitro impegnato” professionalmente: sia per percepire questa realtà sociale che per essere attivo nel procedimento.

 

8.2. Obbligo di chiarimento e di “dialogo” in capo al giudice. L’esempio pertinente della Germania

I tedeschi hanno una concezione del giudice e del suo ruolo particolarmente interessante, che si riallaccia alla posizione citata sopra da Paul Martens. In base a una pratica specifica, il giudice civile tedesco ha l’obbligo di far conoscere la sua analisi giuridica alle parti con la finalità, per lui obbligatoria, di evitare decisioni a sorpresa. 

Ecco come una collega tedesca descrive questa pratica[37]:

«Il § 139 dello ZPO [il codice di procedura civile tedesco – ndr] contiene un obbligo che si applica a tutti i procedimenti civili, anche quando entrambe le parti sono rappresentate dai propri avvocati. Esso prevede un esame e una discussione con le parti, se necessario. Tale obbligo, che riguarda soltanto la domanda principale, conferisce al giudice un ruolo molto attivo nell’udienza. Il giudice dovrebbe fare una sintesi dei fatti della controversia e porre domande per chiarire alcuni aspetti.

Inoltre, il giudice è tenuto a fornire la sua valutazione giuridica della controversia. Nella prassi, ciò si traduce spesso in una discussione aperta tra il giudice e gli avvocati sui problemi giuridici che pone il caso in esame. Al momento dell’udienza, il giudice non ha l’obbligo di effettuare una valutazione giuridica irremovibile, e può esporre il proprio ragionamento e gli argomenti che lo sostengono, precisando che non si tratta ancora della decisione finale. Inoltre, il giudice non è vincolato dal suo ragionamento: può rivederlo o modificarlo, nel qual caso ha il dovere di informare le parti. Ciò rivela un altro obiettivo della norma: evitare decisioni “a sorpresa”. In questa situazione, il giudice emetterà un provvedimento esplicativo prima di proseguire nel procedimento».

 

8.3. Imparzialità allargata

Antoine Garapon, la cui preoccupazione pare anch’essa legata alla necessità di un ruolo attivo del giudice, ha scritto:

«Il senso della sua [del giudice] nuova missione politica è di garantire, non più personalmente come giudice, ma collettivamente, la capacità riconosciuta a tutti di comportarsi come uomini». Per questo occorre, a mio avviso, poter conoscere “tutti gli uomini”. Egli parla, al riguardo, «dell’imparzialità allargata come [di una] nuova qualità del giudice», che richiede «di abbandonare la concezione tradizionale dell’imparzialità per interessarsi di più alla concretezza delle situazioni vissute dalle parti e verificare chi ha accesso alla giustizia, e a quale costo»[38].

Non sono forse, per un giudice, preoccupazioni quotidiane l’accesso indispensabile alla giustizia, l’uguaglianza necessaria nella difesa, l’equità imperativa nell’imparzialità? Quale giudice non si è trovato di fronte a uno squilibrio nella qualità delle pretese portate davanti alla giustizia? Chi non ha mai riconosciuto l’omissione di questo strumento giuridico [l’imparzialità] essenziale per una parte – in genere la più povera – ? Allora, se il giudice si addentra nel dibattito giudiziario e vi introduce un argomento che cambia tutto, lo fa per partito preso? Perché è condizionato da un pregiudizio? No, in quanto l’imparzialità non si identifica con la neutralità: troppo spesso i due concetti sono confusi. “Neutrale”, in tempo di guerra, è chi non prendere posizione tra i belligeranti. Il giudice, per essenza, deve prendere una posizione attraverso ciò che decide. “Neutro”, nel senso fisico del termine, è un luogo estraneo a qualsiasi corrente. Il giudice non sta fuori dalla società, non è neutro rispetto ad essa, ma vive nella “corrente sociale”. 

Si deve invece esigere neutralità nel funzionamento del servizio pubblico della giustizia, ma si tratta di un’altra questione, declinata in atti quali garantire le parti nel loro accesso al procedimento, fornire informazioni sul suo svolgimento e in merito alle decisioni adottate, consentire, più in generale, l’accesso al sistema giustizia...

 

8.4. L’esempio dei diritti dei consumatori 

A proposito del ruolo direttivo del giudice, può essere citato un esempio significativo in materia di consumo e, più in particolare, di contratti di credito.

Alcuni anni fa, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione francese, il giudice non poteva eccepire d’ufficio una causa di nullità in un tale contratto. Confrontati alla realtà sociale di soggetti che, mediante l’applicazione di tale giurisprudenza, si sono trovati vittime di un debito insanabile, alcuni magistrati hanno deciso, alla fine del 2000, di adire la Corte di giustizia dell’Unione europea (allora “delle Comunità europee”, CGCE) per una questione pregiudiziale sul funzionamento della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993. Nella memoria presentata dinanzi alla Corte dalla società di credito, parte in causa che sosteneva la conformità europea della giurisprudenza della Cassazione, si denunciavano un «clima di ribellione improduttiva» e la «fronda alimentata da alcuni giudici e dai loro sindacati, nonché da alcuni membri del Syndicat de la Magistrature».

Il 21 novembre 2002[39], il Giudice di Lussemburgo, ribaltando la giurisprudenza francese, stabilì che «la tutela che la direttiva europea garantisce ai consumatori si oppone a una disciplina interna la quale, in un’azione intentata da un professionista nei confronti di un consumatore e basata su un contratto concluso tra loro, vieta al giudice nazionale, alla scadenza di un termine perentorio, di rilevare, d’ufficio o in seguito a un’eccezione sollevata dal consumatore, il carattere abusivo di una clausola inserita in detto contratto».

Che cosa era successo? Le «forze immaginanti del diritto» care a Mireille Delmas Marty[40] si erano messe in moto! Decisi a prendere conoscenza della realtà sociale del contenzioso che trattavano, due giudici[41] si sono resi conto che nella maggior parte dei casi i debitori non si presentavano all’udienza e, le rare volte in cui erano presenti, non erano assistiti da un avvocato; di conseguenza, questi giudici si sono mobilitati per trovare una soluzione giuridica soddisfacente. Nel proporre una questione pregiudiziale, dopo varie ricerche, si sono ispirati a una sentenza della Corte di giustizia che riguardava la Spagna. Questo esempio dimostra anche come l’ufficio del giudice sia cambiato grazie all’attuazione del diritto internazionale e, specialmente, del diritto europeo, a livello sia dell’Ue sia del Consiglio d’Europa. Il giudice può ora farsi giudice della legge. Inoltre, la Cedu lo invita a soppesare tutti i diritti in gioco in una causa – ad esempio, da un lato, il diritto di proprietà e, dall’altro lato, il diritto alla vita privata.

 

9. L’imparzialità sistematica

 

9.1. L’approccio sociale

Tale approccio merita un approfondimento. Nel corso della storia, infatti, la giustizia è stata spesso vissuta come faziosa poiché era il riflesso della classe dirigente. Così Jean Jaurès, nel 1895, aveva interpellato il Ministro della giustizia nel contesto di uno sciopero emblematico per la storia del movimento operaio in Francia, quello dei vetrai di Carmaux, denunciando l’eccessiva repressione del movimento e criticando i giudici e il Governo, che approfittava dell’attitudine alla severità dei primi: «Questi magistrati, sentendosi “accerchiati” dalle lotte politiche e sociali che imperversano necessariamente nel nostro Paese, si lasciano andare alle loro impressioni, alle loro emozioni e alla loro collera, via via degenerando, se non li si richiama al rispetto della legge e della propria dignità»[42]. Non c’è dubbio che questi giudici applicavano meccanicamente la legge penale, con tutto il margine repressivo che essa gli lasciava a disposizione; tuttavia era la loro “precultura” a orientarli già verso una severità molto forte e, in definitiva, eccessiva.

La questione della rappresentanza, all’interno del corpo della magistratura, delle varie estrazioni sociali rimane attualissima. La creazione, nel 1958, di una Scuola della magistratura repubblicana (ENM) ha incontestabilmente consentito, almeno all’inizio, una maggior diversità sociale di reclutamento; tuttavia, essa resta estremamente limitata. Poiché il concorso di accesso all’ENM si prepara in larghissima parte iscrivendosi a corsi preparatori a pagamento, dal 2008 la Scuola ha istituito dei corsi riservati ai titolari di borsa di studio. Tuttavia, la percentuale degli ammessi che arrivano da quei corsi rimane minima: nel 2024, che ha appena visto una storica promozione di 459 uditori, solo 25 tra loro provengono da quella formazione. Per gli anni a venire sono previsti ingressi massicci, e si dovrà prestare attenzione all’evolversi (o meno) dell’eterogeneità sociale dei futuri magistrati.

Resta un’altra questione fondamentale, ancorché occultata: quella della rappresentanza infinitesimale delle “minoranze visibili” (il caso del collega russo, più sopra richiamato, ne è un esempio). La Francia, per la sua storia, è un Paese multiculturale ed “etnicamente” variegato. La diversificazione delle origini sociali e culturali nella magistratura è estremamente auspicabile, anche se, teoricamente, un giudice non ha bisogno di essere cresciuto nei quartieri difficili per capire le banlieues, né di essere di origine africana per comprendere le realtà umane a sud del Mediterraneo... Ogni essere dotato di ragione deve poter cogliere situazioni anche sociologicamente “lontane”, alle quali non sia possibile accedere sul piano relazionale e “comunitario”. Una conoscenza di questo tipo si costruisce grazie all’immaginazione, che Hannah Arendt[43] descrive come la facoltà che «trasforma un oggetto in qualcosa a cui non ho bisogno di essere direttamente confrontato, ma che ho in qualche modo interiorizzato». La filosofa chiama in causa il pensiero allargato: «pensare mettendosi al posto di ogni altro», e afferma che «[l]’immaginazione predispone al giudizio». Allora il giudice non può restare distante dal “mondo”, dalla realtà sociale, ma deve andar loro incontro. Così, «prendere parte al mondo» porta alla sua necessaria comprensione attraverso la giustizia, rendendone a ciascuno la parte che gli spetta. Un pluralismo sociale della magistratura faciliterebbe questa comprensione e contribuirebbe a consolidare la tanto indispensabile fiducia nella giustizia. Giustizia resa in nome del popolo francese[44], in tutta la sua diversità. E in nome del rispetto dello Stato verso i suoi impegni internazionali, che trovano riscontro nella Cedu e, in generale, in tutti i trattati europei e internazionali che impegnano la Francia.

A tal fine, sono assolutamente necessarie politiche pubbliche volontaristiche e innovative, che assicurino l’accesso ai diritti e alla giustizia per la popolazione francese, nella sua pluralità.

 

9.2. L’approccio organizzativo

Il principio del “giudice naturale” in Francia… non esiste. 

Riconosciuto dalla cultura giuridica francese[45] almeno dal XVI secolo e consacrato in tutti i testi rivoluzionari, il principio del diritto al giudice naturale non è ancora rispettato dal sistema francese, per come è regolato dal Codice dell’organizzazione giudiziaria, mentre oggi fa parte della Costituzione di numerosi Stati europei (in particolare: Italia, Germania, Spagna e Portogallo). È stato abbandonato, in Francia, in circostanze storiche che sono emblematiche della sua funzione di protezione dell’indipendenza dei giudici e di rispetto del principio di imparzialità, poiché fu il regime di Vichy a inferirgli un colpo fatale. Una legge del 14 agosto 1943, firmata da Pierre Laval[46], ha rimesso in discussione questa lunga tradizione, decidendo che la rotazione negli incarichi, fino ad allora definita da una commissione ristretta, sarebbe stata prerogativa del primo presidente, per le corti, e del presidente, per i tribunali di primo grado (dal 2020 denominati “tribunali giudiziari” – TJ): il controllo della scelta dei giudici era strategicamente importante per il regime. Successivamente, quel testo di legge non sarà rimesso in discussione nella sua disposizione essenziale, mantenendo così in capo ai presidenti la scelta dell’assegnazione dei giudici. L’art. L121-3 del Codice di organizzazione giudiziaria è erede di quel testo: «Ogni anno il primo presidente della Corte di cassazione, il primo presidente della Corte d’appello e il presidente del tribunale giudiziario ripartiscono i giudici nei diversi poli specializzati, sezioni e servizi della giurisdizione»[47]. Il parere dell’assemblea generale di tali organi non è vincolante per il presidente. Si potrebbero citare esempi di deliberata esclusione di giudici “sgradevoli” a causa del loro modo di giudicare o, al contrario, di assegnazioni motivate della prevedibilità decisionale di certi magistrati. In tal modo, un superiore gerarchico può designare uno o più giudici per trattare un determinato contenzioso in funzione della giurisprudenza che, si presume – considerate le loro pratiche abituali –, adotteranno. L’imputato si troverà, così, faccia a faccia con un giudice che è stato scelto per la “preoccupazione” suscitata dal suo caso.

Citiamo la raccomandazione del Consiglio d’Europa agli Stati membri sui giudici: «[I]ndipendenza, efficacia e responsabilità» [CM/Rec(2010)12], del 17 novembre 2010: «La distribuzione degli affari all’interno di un tribunale deve seguire criteri oggettivi predeterminati, al fine di garantire il diritto a un giudice indipendente e imparziale. Non deve essere influenzata dai desideri di una parte in causa, né di qualsiasi altra persona interessata all’esito dell’affare».

 

10. Fine-partita provvisorio: le più alte istanze giurisdizionali possono essere parziali?

 

10.1. La Corte di cassazione… sì!

In una sentenza pronunciata dalla Corte Edu il 14 dicembre 2023, Sindacato nazionale dei giornalisti et al. c. Francia (n. 41236/18)[48], la Francia è stata condannata per violazione del diritto a un equo processo a causa del mancato rispetto dell’esigenza di imparzialità da parte della Corte di cassazione, basato sulla omessa sostituzione di tre consiglieri che compongono la Corte.

Nel 2018, i dibattiti sull’imparzialità della Suprema corte nel caso in questione (Wolters Kluwer) avevano riempito le pagine della cronaca scientifica e mediatica francese. La Chambre sociale della Corte di cassazione aveva, il 28 febbraio 2018, annullato senza rinvio una sentenza della Corte d’appello di Versailles del 2016, che condannava l’editore Wolters Kluwer France (WKF – specializzata nella formazione professionale, in particolare giuridica). La Corte d’appello aveva ritenuto che Wolters Kluwer avesse artificialmente indebitato la sua controllata francese in un’operazione di ottimizzazione fiscale, per non versare, dal 2007 al 2015, partecipazioni agli utili dovuti ai dipendenti. Pur sottolineando che il contributo dei magistrati alla diffusione del diritto rientra nell’ambito delle loro funzioni, il Giudice di Strasburgo ha constatato che le relazioni professionali di tre consiglieri componenti la Chambre sociale con una delle parti del procedimento erano regolari, strette e retribuite, deducendo che ciò era sufficiente a dimostrare che avrebbero dovuto astenersi e che i timori dei ricorrenti quanto alla loro mancanza di imparzialità potevano essere, nel caso in esame, oggettivamente giustificati. Ne è seguita una constatazione di violazione dell’art. 6, primo paragrafo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Il 19 dicembre 2019, il Csm, adito dai sindacati, aveva emesso una decisione che offriva una solida base argomentativa alla Corte Edu – la quale, tuttavia, non aveva (a differenza del Csm) da pronunciarsi in merito a un’infrazione disciplinare dei tre consiglieri. Il Csm ha considerato che la loro partecipazione regolare e remunerata ai corsi di formazione giuridica organizzati dalla WKF costituisse un legame d’interesse, che ben poteva far sorgere un dubbio legittimo sulla loro imparzialità: di conseguenza, secondo il Consiglio, i tre magistrati avrebbero dovuto astenersi. Tuttavia, il Csm ha ritenuto che l’inosservanza delle norme deontologiche da parte dei consiglieri non fosse sufficientemente grave da integrare un illecito disciplinare. 

 

10.2. … E il Consiglio costituzionale? Forse

Un comitato delle Nazioni Unite, cd. “Comitato di Aarhus”, incaricato del controllo dell’applicazione della Convenzione sull’accesso all’informazione alla giustizia in materia ambientale, è stato adito da tre associazioni francesi, France Nature Environnement, Greenpeace France e La Sphinx, per una contestazione relativa al funzionamento del Consiglio costituzionale. 

Sulla questione, Laureline Fontaine, Thomas Perroud e Dominique Rousseau, docenti universitari di Diritto pubblico, lo scorso ottobre hanno presentato al Comitato una serie di osservazioni[49].

In un articolo apparso il 17 gennaio su Le Monde[50], essi riassumono la loro posizione, sottolineando le lacune che riguardano il Consiglio costituzionale, in particolare la sua composizione e, quindi, la sua mancanza d’imparzialità:

«È importante ricordare che violazioni di principio della democrazia risultano dalla composizione e dal funzionamento del Consiglio costituzionale: parzialità e incompetenza dei “giudici”, mancanza d’indipendenza effettiva nei confronti dei poteri che esso stesso controlla, gravi carenze nella formulazione delle decisioni. Queste critiche sono già state fatte, ma la constatazione rimane. Un caso ben si presta, all’occasione, ad essere citato. La situazione del Consiglio è attualmente sottoposta all’esame di un comitato ONU, il Comitato di Aarhus, il cui compito è quello di monitorare l’applicazione della Convenzione omonima, che riguarda in particolare la questione dell’accesso alla giustizia ai fini della protezione dell’ambiente. Il 10 aprile 2022, il Consiglio costituzionale aveva emesso una decisione a proposito della legge relativa allo sviluppo dell’edilizia abitativa, della pianificazione e del digitale su una questione di costituzionalità sollevata dall’associazione La Sphinx. Il Consiglio confermò allora la costituzionalità della disposizione che privava le associazioni della possibilità di ricorrere contro le concessioni edilizie, qualora dette associazioni fossero costituite da meno di un anno (...). Tra gli addebiti rivolti dalle tre associazioni al Consiglio costituzionale dinanzi al Comitato ONU, figurano le condizioni in cui è stata emessa la decisione del 10 aprile 2022: in primis, si rileva l’assenza di imparzialità del Consiglio, un’assenza aggravata da norme procedurali inadeguate e da una forma di dipendenza dai poteri controllati».

La decisione, qualunque essa sia, sarà di sicuro interesse.

 

11. Conclusioni

 

11.1. Imparzialità: un concetto a elevata densità e di ampia portata

Al termine di queste dieci “sequenze”, altre componenti dell’imparzialità avrebbero sicuramente meritato un richiamo, identificandone le sfumature o, addirittura, le varianti. 

Queste ultime possono declinarsi, in tutti gli ordinamenti giudiziari, secondo: a) la natura delle funzioni (giudicante o requirente); b) la giurisdizione (penale, civile o amministrativa, compresa quella speciale per il diritto di asilo); c) il tipo di legittimazione , che cambia in base alle qualifiche soggettive: professionisti, rappresentanti dei settori economici, imprenditori commerciali (tribunali di commercio), datori di lavoro o lavoratori dipendenti (Conseil des prud’hommes), o anche deputati, per quanto riguarda i membri della Corte di giustizia della Repubblica...

Per una maggiore completezza, sarebbe necessario un esame comparativo con le giurisdizioni internazionali, la cui imparzialità meriterebbe di essere messa in discussione: Corte internazionale di giustizia, Corte penale internazionale, Corte di giustizia dell’Unione europea e Corte europea dei diritti dell’uomo... Molto altro giustificherebbe un approfondimento, come l’imparzialità nelle procedure amichevoli, in quelle assicurate dal giudice[51], ma anche da terzi in veste mediatori o conciliatori. Ancora, meriterebbe un’attenzione particolare il ruolo giocato dell’emozione, molto più positivo di quanto si è soliti affermare[52]

L’inserimento del presente contributo in uno scritto più esaustivo porterà, sicuramente, ulteriori complementi. 

 

11.2. Un passato che non passa

In principio era la ricerca del giusto, di una “buona giustizia”, e l’imparzialità era una necessità. Con il suo perpetuo divenire, la storia ha dimostrato le vicissitudini di questo concetto nel tempo.

Nell’esperienza francese, trascorso il momento rivoluzionario che aveva, in nome dell’applicazione “meccanica” della legge, negato al giudice un ruolo nella sentenza, è stato riattribuito alla giurisprudenza il suo diritto di cittadinanza. Tuttavia, la forza di questa negazione originaria non è scomparsa da un gran numero di coscienze; il sospetto di parzialità, dietro il pretesto del pregiudizio ideologico, sorge ancora troppo spesso quando una sentenza non piace.

Dopo la Seconda guerra mondiale, provocata da regimi politici totalitari che si abbandonavano a pratiche omicide e di sterminio di popoli, fu eretto a diritto fondamentale dell’uomo il diritto a un giudice indipendente e imparziale, presente nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e ripreso dall’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale esigenza è stata seguita dall’Unione europea che, considerando il valore dello Stato di diritto come parte dell’identità stessa dell’Unione, imponeva agli Stati membri il rispetto del diritto a un tribunale indipendente e imparziale (si vedano, in proposito, tutte le decisioni passate relative alla giustizia in Polonia).

Attualmente la Francia è china sul suo passato, sta riabilitando nel suo pantheon i combattenti di origine extraeuropea[53] che hanno servito la causa nazionale e sottoponendo a un esame legittimamente severo l’applicazione, da parte delle diverse giurisdizioni, delle leggi antisemite del regime di Vichy[54].

I giudici sono giunti a questo risultato: «accettando di applicare e interpretare le norme che definivano l’“Ebreo”, hanno contribuito all’accettazione dell’idea – quasi che fosse un’evidenza – che gli ebrei erano di una specie, di una “razza” diversa, che non erano cittadini né soggetti di diritto come gli altri. Che, in ultima analisi, non erano uomini come gli altri»[55]. Rifiutando di applicare un diritto antisemita, di fare dell’ignominia la normalità dell’ordine giuridico costituito, i giudici sarebbero stati parziali? 

 

11.3. L’imparzialità dei magistrati e la logica verticale del riarmo

Il termine “riarmo” è nell’aria del tempo. È un mantra politico al più alto livello dello Stato, associato ad ogni sorta di argomento (morale, sicurezza, economia, demografia... ).

Al giuramento in occasione della “storica” promozione dei futuri magistrati (cfr. supra, par. 9.1.), il 9 febbraio 2024, il Presidente della Repubblica ha proclamato la necessità di riarmare il potere giudiziario nei seguenti termini: «L’ordine e il progresso sono alla radice della nostra Repubblica, dei suoi stessi principi. Ecco perché ho avviato questo riarmo dello Stato: riarmo delle nostre forze di sicurezza interne, con la legge di programmazione, riarmo dei nostri eserciti, riarmo dell’autorità giudiziaria».

Scrive Bénédicte Chéron, specialista di storia militare[56]: «Per quei dirigenti politici che provano un certo sgomento di fronte alla moltiplicazione delle crisi, utilizzare un lessico militare costituisce un modo assai visivo per manifestare l’autorità dello Stato e della sua forza sovrana». E constatiamo che una simile espressione, enunciata dal Capo del potere esecutivo e associata all’«autorità giudiziaria» (cioè al potere giudiziario), è incompatibile con il principio costituzionale della separazione dei poteri.

In quel discorso, molto solenne, il Presidente ha esplicitato la sua visione dell’imparzialità: «Nella Repubblica, il popolo è sovrano, e presto renderete giustizia in suo nome. Ora, il giuramento di magistrato obbliga quest’ultimo a “svolgere le sue funzioni con indipendenza, imparzialità, umanità” (...). Qui si gioca la fiducia che tutti devono avere nell’imparzialità dei magistrati, ma anche nel rigoroso rispetto del loro dovere di riservatezza, garanzia della loro indipendenza di spirito e di giudizio. La libertà di espressione dei magistrati è una libertà costituzionale e nessuno pensa di metterla in discussione. Essa deve avere per corollario uno “scarto” sistematico, da parte loro, per giudicare una causa quando la loro precedente parola pubblica lasci legittimamente dubitare il soggetto interessato che sarà giudicato da un giudice imparziale» – un’allusione a Mayotte?

Inoltre, il Capo dello Stato ha annunciato una riflessione futura sulla questione della libertà di espressione pubblica (individuale o collettiva) dei magistrati, che peraltro si riteneva ben ponderata e apprezzata nel parere del Csm del 13 dicembre 2023. Tali dichiarazioni, mentre una carta deontologica attende di essere elaborata in applicazione della legge del 23 novembre 2023, dimostrano più che mai come la questione, associata a quella dell’imparzialità, rimanga di bruciante attualità, e necessiti del richiamo ai principi fondamentali.

È importante far uscire la questione dell’imparzialità dall’“esclusiva deontologica” per poterne approfondire in pieno la complessità. Essa implica, oltre al dovere del magistrato stesso, quello dello Stato, del potere politico, che deve garantire effettivamente l’indipendenza della giustizia e il suo buon funzionamento, in particolare assicurando mezzi necessari e condizioni dignitose di lavoro per i magistrati[57]. Sono altresì necessarie, per garantire un’imparzialità ampia e sistematica, politiche pubbliche[58] destinate soprattutto a incrementare l’accesso alla giustizia e a permettere alle giurisdizioni di adeguarsi a profili socialmente diversificati, alle più varie esigenze e alla disparità dei mezzi individuali. Senza contare la necessità di aprire finalmente le porte, nel nostro diritto, al principio del “giudice naturale”.

In ogni caso, l’imparzialità non può essere sottoposta alla logica verticale del «riarmo» dello Stato.

 

11.4. La decisione della Corte Edu del 20 febbraio 2024 chiuderà il dibattito sulla libertà di espressione dei magistrati?

Con la sentenza Danilet c. Romania[59], il 20 febbraio scorso la Corte di Strasburgo ha condannato lo Stato rumeno in applicazione dell’art. 10 Cedu, che tutela la libertà di espressione, a causa della sanzione disciplinare inflitta a un giudice rumeno per le sue affermazioni su Facebook. Sul suo profilo (molto seguito), quest’ultimo si era mostrato particolarmente critico nei confronti di una riforma giudiziaria in corso, nonché della classe politica e della sua presunta influenza sulla polizia, la magistratura e l’esercito. Questa decisione sottolinea, una volta di più, la piena legittimità dei magistrati a partecipare in maniera attiva e impegnata – e anche molto critica, come in quel caso – al dibattito democratico in corso nello spazio pubblico. Essa ha, inoltre, offerto precisazioni sull’ambito della libertà di espressione e del dovere di riserbo dei magistrati. La Corte, infatti, ha riaffermato «il principio secondo cui si è in diritto di attendersi da un magistrato che egli utilizzi con moderazione la propria libertà di espressione, essendo l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario suscettibili di essere messe in discussione. Tuttavia, nella fattispecie non si trattava di affermazioni manifestamente illecite, diffamatorie, incitanti all’odio o alla violenza».

In qualche modo, la Corte ha fatto della libertà di espressione dei giudici un “santuario” protetto e ha integrato il parere del Csm più sopra citato, ponendo come limiti a tale libertà l’illiceità, l’odio, l’appello alla violenza, la diffamazione. 

 

 

*  Traduzione dal francese a cura di Mosè Carrara Sutour.

1. «C’erano dei giudici prima che vi fossero delle leggi»: discorso di Portalis al corpo legislativo per sostenere l’articolo 6 del codice civile, che vieta al giudice il rifiuto di giudicare con il pretesto del silenzio, dell’oscurità o dell’insufficienza della legge – 23 Frimaio, anno X, 14 dicembre 1801.

2. Protestante, fu falsamente accusato di aver assassinato il proprio figlio per evitare che quest’ultimo si convertisse al cattolicesimo.

3. Giurisprudenza del Parlement di Tolosa, 1665.

4. Ead., L’impartialité au cœur de l’autorité du Juge? Approches philosophiques, in Cahiers de la justice, n. 4/2020, pp. 661-672. 

5. P. Ricœur, Le Juste, Esprit, Parigi, 1995.

6. P. Rosanvallon, La légitimité démocratique. Impartialité, réflexivité, proximité, Seuil, Parigi, 2008.

7. Intervista con N. Truong, Le Monde, 2 marzo 2017.

8. L. Fontaine, Le Conseil constitutionnel « sauve » les droits, au prix d’une incroyable lâcheté, in Mediapart.fr (blog), 27 gennaio 2024 (https://blogs.mediapart.fr/laureline-fontaine/blog/270124/le-conseil-constitutionnel-sauve-les-droits-au-prix-d-une-incroyable-lachete).

9. Ivi. Vds. anche Loi « immigration » : « Des digues ont sauté face à la xénophobie et à la remise en cause de l’Etat de droit », Le Monde, 15 febbraio 2024 (www.lemonde.fr/idees/article/2024/02/15/loi-immigration-des-digues-ont-saute-face-a-la-xenophobie-et-a-la-remise-en-cause-de-l-etat-de-droit_6216711_3232.html). 

10. Ordinanza 2 novembre 1945, n. 45-2658, disciplina dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri in Francia. 

11. Che ci ha lasciati lo scorso 9 febbraio. Vds. C. Lazerges, Hommage à Robert Badinter: l’exigence de justice, in Revue des droits de l’homme, 15 febbraio 2024 (https://journals.openedition.org/revdh/19590#quotation).

12. «La France est une République indivisible, laïque, démocratique et sociale. Elle assure l’égalité devant la loi de tous les citoyens sans distinction d’origine, de race ou de religion».

13. Territorio dipartimentale della Repubblica francese, Mayotte richiederebbe, di per sé, numerose spiegazioni e una riflessione sulla volontà dei pubblici poteri di una parzialità sistematica, dato che questo Dipartimento costituisce terreno di eccezioni legali ancora accentuate dall’ultima legge sull’immigrazione. Piccola isola dell’Oceano Indiano appartenente all’arcipelago delle Comore, facente interamente parte dell’impero coloniale francese, con il referendum del 1974 aveva rifiutato l’indipendenza, mentre le altre isole l’avevano auspicata e acquisita. Questa scissione di un’entità territoriale coerente ha portato l’ONU a non riconoscere la sovranità francese sull’isola per la necessità di rispettare l’unità e l’integrità territoriale dell’arcipelago delle Comore.

14. Un esempio: «Il Governo fa il possibile per riportare l’ordine inviando rinforzi di polizia. Ha anche deciso di distruggere una baraccopoli insalubre, che ospita emigranti comoriani, ma non si farà. Infatti (…) la ex-presidente del Tribunale di Mayotte, gli ha opposto il suo veto. La sua personalità chiarisce la sua decisione. È membro del Sindacato della Magistratura e ne è stata vicepresidente. Pretende, così, di difendere i “diritti umani dei migranti”» – così B. Rayski, Mayotte: le Syndicat de la magistrature à la manoeuvre… , Atlantico, 30 aprile 2023 (https://atlantico.fr/article/decryptage/mayotte-le-syndicat-de-la-magistrature-a-la-manoeuvre-justice-france-immigration-migrants-mineurs-isoles-insecurite-comores-operation-wuambushu-benoit-rayski). 

15. Ord. n. 2022-SGA-1441, 2 dicembre 2022.

16. www.conseil-superieur-magistrature.fr/actualites/avis-de-la-formation-pleniere-du-conseil-superieur-de-la-magistrature-du-13-decembre-2023.

17. https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-225022%22]}.

18. https://medelnet.eu/after-poland-and-hungary-france/.

19. R. Jacob, Le serment des juges ou l’invention de la conscience judiciaire, in R. Verdier et al. (a cura di), Le Serment, Edizioni del CNRS, Parigi, 1991, pp. 439-457. 

20. L’unico articolo della Costituzione che evoca la funzione giurisdizionale del Consiglio di Stato deriva dall’introduzione, nel luglio 2008, della «questione prioritaria di costituzionalità» (QPC), con l’aggiunta dell’art. 61-1 («Lorsque, à l’occasion d’une instance en cours devant une juridiction, il est soutenu qu’une disposition législative porte atteinte aux droits et libertés que la Constitution garantit, le Conseil constitutionnel peut être saisi de cette question sur renvoi du Conseil d’État ou de la Cour de cassation qui se prononce dans un délai déterminé»).

21. Vds. S. Gaboriau, La Repubblica francese sconvolta, in questa Rivista trimestrale, Speciale Terrorismo, 2016, pp. 305-327, part. p. 320 (www.questionegiustizia.it/data/speciale/articoli/702/qg-speciale_2016-1_22.pdf).

22. Vds. J.-P. Jean, Le serment de fidélité au maréchal Pétain, péché originel des juge ?, in Cahiers de la Justice, n. 2/ 2013, pp. 7-11.

23. In un lontano passato, sotto il Consolato (1799-1804), diversi presidenti del Consiglio di Stato prestarono giuramento davanti ai consoli.

24. Giuramento prestato dai magistrati di Normandia all’Échiquier (parlement di Rouen), 1485.

25. www.justice-en-ligne.be/article188.html.

26. A.-D. Houte, Le bon juge Magnaud et l’imaginaire de la magistrature à l’aube du XX siècle, in Délibérée, n. 3/2018, pp. 38-42 (www.cairn.info/revue-deliberee-2018-3-page-38.htm).

27. Paul Magnaud, Le juge contemporain, Le Journal, 16 luglio 1905.

28. A.-D. Houte, Le bon juge, op. cit.

29. Vds., ad esempio, J.-É. Schoettl (ex-segretario generale del Consiglio costituzionale), La démocratie au péril des prétoires : de l’État de droit au gouvernement des juges, Gallimard, Parigi, 2022.

30. www.senat.fr/fileadmin/import/files/fileadmin/Fichiers/Images/redaction_multimedia/2021/2021-Documents_PDF/20210928_Rapport_complet_CSA.pdf.

31. Vds. P. Rosanvallon, Les Epreuves de la vie. Comprendre autrement les Français, Le Seuil, Parigi, 2021; N. Duvoux, L’Avenir confisqué, PUF, Parigi, 2023; C. Fleury, La Clinique de la dignité, Le Seuil, Parigi, 2023.

32. Le juge et le sentiment de justice, in Aa.Vv., Mélanges en l’honneur de Pierre Bézard: le juge et le droit de l’économie, Montchrestien, Parigi, 2002, pp. 41-53.

33. Ivi.

34. La tyrannie de l’apparence, in Revue trimestrielle des droits de l’homme, n. 28, 1996, p. 627 (www.rtdh.eu/fr/journal/revtrimdrh/1996-28/index.html#back/).

35. L’impartialité du juge, in Recueil Dalloz, n. 6/1999, pp. 53-57.

36. https://medelnet.eu/wp-content/uploads/2012/06/Gaboriau.pdf.

37. Vds. Gabrielle Scotten (giudice del Tribunale distrettuale di Colonia), La conciliation par le juge : vers quels horizons ?, in La semaine juridique, supplemento al n. 24, 19 giugno 2023, pp. 45 e 46.

38. Vds. MEDEL, Pour une nouvelle justice civile. La crise d’efficacité de la justice en Europe, Annonces de la Seine, Parigi, 1999 (incontro del 29 e 30 gennaio).

39. Cgue, Cofidis c. Fredout, C-473/00 (https://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf;jsessionid=FB3AA70449B8B66B42D1BBC78E122515?text=&docid=47530&pageIndex=0&doclang=FR&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=2247451).

40. Le Relatif et l’Universel. Les Forces imaginantes du droit, tomo I, Le Seuil, Parigi, 2004.

41. www.lemonde.fr/festival/article/2016/08/02/comment-deux-petits-juges-ont-decroche-l-anneau-de-gollum_4977371_4415198.html.

42. Cfr. N. Olszak, Mouvement ouvrier et système judiciaire (1830-1950), tesi di dottorato, Strasburgo, 1987, p. 223.

43. Juger. Sur la philosophie de Kant, cit. da M. Revault d’Allonnes, L’impartialité du juge. Une problématique de tous les temps, in S. Gaboriau e H. Pauliat (a cura di), L’Ethique des gens de justice, in Entretiens d’Aguesseau, Presses Universitaires de Limoges, Limoges, 2001 (www.daguesseau.fr/lethique-des-gens-de-justice/).

44. La giustizia in Francia è stata originariamente resa in nome di Dio, poi del Re e in seguito, in particolare sotto il Secondo Impero, in nome del Capo dello Stato. Solo poco a poco (fin dalla Prima Repubblica per i giudici ordinari; molto più tardi per quelli di diritto pubblico), si è riconosciuto che la giustizia si rendeva “in nome del popolo francese”»: così M. Touzeil-Divina, Institutions juridictionnelles en 9 thèmes, Dalloz, Parigi, 2022, cap. 1.

45. S. Gaboriau e H.-E. Böttcher, Le juge naturel, un principe oublié en France et sacré par la Constitution en Allemagne, colloqui di MEDEL (L’administration de la justice : un enjeu démocratique, 24 giugno 2022) – di prossima pubblicazione.

46. Capo del Governo sotto Philippe Pétain e uno degli artefici della politica di collaborazione con la Germania nazista, fuggì al momento della Liberazione. Arrestato e condannato a morte dall’Alta Corte di giustizia, fu giustiziato il 15 ottobre 1945. Pétain, condannato a morte, fu graziato dal Generale De Gaulle.

47. Per un approfondimento di sintesi, cfr.: www.diritto.it/le-grandi-riforme-in-corso-nellordinamento-giudiziario-francese/.

48. https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-229417%22]}.

49. https://questions-constitutionnelles.fr/limpartialite-des-membres-du-conseil-constitutionnel-en-question/.

50. www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/17/incompetence-des-juges-absence-d-independance-reelle-les-entorses-du-conseil-constitutionnel-a-la-democratie_6211253_3232.html.

51. Vds. La semaine juridique supplemento al n. 24, 19 giugno 2023: La conciliation par le juge : vers quels horizons ?, atti del 30 marzo 2023, dove il tema dell’imparzialità è trattato a più riprese; vds. altresì, si vis, S. Gaboriau, La conciliation par le juge en France : un rendez-vous manqué ?, pp. 15-22, dove sottolineo in che misura il giudice conciliatore attivi tutti i requisiti della sua funzione di giudice, in primo luogo l’imparzialità (www.assas-universite.fr/sites/default/files/sjg231024.pdf).

52. Si domanda Emmanuel Jeuland: «Non è pericoloso mettere a distanza le proprie emozioni (…) per giungere al giudizio? (…) Sembra acquisito, a seguito delle scoperte delle neuroscienze, che Cartesio si sia sbagliato a distinguere corpo e mente, ragione ed emozione (...). Una ragione priva di emozione conduce a decisioni sbagliate, emozioni mal gestite conducono a cattive intuizioni», cit. da S. Gaboriau, Liberté et humanité du juge : deux valeurs cardinales de la justice. La justice numérique permettra-t-elle la fidélité à ces valeurs ? Quelques réflexions illustrées par l’expérience française, intervento al Convegno di Bari, «Giustizia predittiva e prevedibilità delle decisioni. Dalla certezza del diritto alla certezza dell’algoritmo», Università “Aldo Moro”, 5 ottobre 2018. 

53. Cfr. B. Gurrey, Missak et Melinée Manouchian entrent au Panthéon à l’issue d’une cérémonie émouvante et engagée, Le Monde, 22 febbraio 2024 (www.lemonde.fr/politique/article/2024/02/22/missak-et-melinee-manouchian-entrent-au-pantheon-a-l-issue-d-une-ceremonie-emouvante-et-engagee_6217869_823448.html).

54. Cfr. F. Johannès, Les pratiiques zélées du Conseil d’État vis-à-vis des juifs sous le régime de Vichy, Le Monde, 6 febbraio 2024 (www.lemonde.fr/societe/article/2024/02/06/les-pratiques-zelees-du-conseil-d-etat-vis-a-vis-des-juifs-sous-le-regime-de-vichy_6214973_3224.html). 

55. D. Lochak, Le juge doit-il appliquer une loi inique ?, Le Genre humain, vol. n. 28, n. 1/1994, pp. 29-39. 

56. Cit. da M.-O. Bherer, Le Monde, 14 febbraio 2024 (www.lemonde.fr/idees/article/2024/02/14/en-invoquant-le-rearmement-emmanuel-macron-tente-de-sauver-une-rhetorique-qui-s-use-avec-le-temps_6216440_3232.html).

57. https://start.lesechos.fr/travailler-mieux/metiers-reconversion/dans-lenfer-du-quotidien-des-magistrats-1942531.

58. https://gip-ierdj.fr/fr/actualites/appel-a-communications-deuxieme-rendez-vous-international-de-linnovation-en-justice/.

59. https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22itemid%22:[%22001-231084%22]}.