Magistratura democratica

L’imparzialità rispetto al pregiudizio inconsapevole: lo stereotipo sessista

di Elisabetta Tarquini

Investigatore e narratore, sì, ma imparziale: nella rappresentazione razionale dei fatti, che porta alla motivazione, il giudice ricorre – come ogni attore sociale – a una “conoscenza del mondo”. Quest’ultima, tuttavia, comporta l’attivazione di regole di esperienza, non fondate su saperi empiricamente verificati. Nella misura in cui sono espressione di un gruppo egemone (nel caso qui considerato: gli uomini “bianchi” eterosessuali), esse diventano prescrittive, esponendo il giudice al rischio di stereotipi. Con riferimento alle relazioni di genere, ciò traspare sia dal linguaggio sia dagli argomenti usati per motivare le decisioni – ad esempio, per stabilire quale sia la “vera” vittima di un reato sessuale. A tacere del danno subito dalle persone offese, ad essere intaccata sarà proprio l’imparzialità, e con essa la verità processuale che ne discende.

Scriveva Oscar Wilde che la verità è raramente pura e mai semplice[1]. È un’affermazione che chiunque faccia o abbia fatto il giudice sottoscriverebbe. Eppure il dovere costituzionale del giudice, almeno in un sistema come il nostro di civil law, che non conosce la distinzione di compiti tra giudice e giuria propria dei sistemi di common law, è prima di tutto (che si tratti di tutelare diritti o di punire torti) quello di accertare la verità dei fatti, nel senso, limitato e però necessario, che è proprio del processo. È, cioè, ricostruire una storia – la storia di una relazione tra le parti, la storia di un delitto – sulla base di prove, acquisite secondo regole predeterminate, valutate obiettivamente. Nel processo è vero ciò che è provato secondo le regole processuali.

Il giudice è quindi, a modo suo, un investigatore dei fatti e insieme un narratore, con due caratteristiche peculiari: la prima è che non ha, di regola, una specifica preparazione professionale quanto alla decisione sui fatti (si pensi a un infortunio sul lavoro, della cui dinamica si discuta: il giudice non è un medico legale e non è un ingegnere), poiché la sua formazione riguarda piuttosto le regole giuridiche in base alle quali alcuni di quei fatti assumono rilevanza; la seconda è che egli deve essere un investigatore e un narratore imparziale.

La sua indagine e il racconto che è tenuto a farne non hanno, cioè, alcun obiettivo diverso dalla ricostruzione accurata di quei fatti in vista di una decisione, a sua volta consistente nell’affermazione che tutti o alcuni di quei fatti sono stati dimostrati nel processo, in modo obiettivo e secondo regole predeterminate. 

L’imparzialità è, quindi, non solo «una condizione preliminare per il raggiungimento della verità, ma costituisce anzi una parte integrante e penetrante della stessa», è «condizione necessaria, benché ovviamente non sufficiente della verità» processuale, in quanto il giudice «è davvero imparziale quando ricerca in modo oggettivo la verità dei fatti, facendone il vero ed esclusivo fondamento razionale della decisione»[2]

La motivazione è il racconto, la narrazione di questa ricerca e la spiegazione delle sue conclusioni, e ha perciò una relazione necessaria con l’imparzialità, in quanto serve appunto a rappresentare la razionale giustificazione dell’ordine portato nel dispositivo sulla base dei fatti e delle prove oggettivamente valutati.

E tuttavia è un dato che qualunque narrazione, e così quella del giudice contenuta nella motivazione, si fonda, quanto alla ricostruzione dei fatti, anche «su una cultura ed è costruita per mezzo di una cultura, intesa come conoscenza del mondo»[3], un senso comune, una «Enciclopedia Media», secondo la definizione di Umberto Eco[4], corrispondente a tutti i contenuti che appartengono alla cultura generalmente diffusa, o comunque generalmente accessibile, in una data epoca.

Di questa cultura media fanno parte, tuttavia, moltissime cose diverse: per quanto qui interessa, può trattarsi di fatti singoli, accertati empiricamente, di regole scientifiche accreditate e tuttavia di comune conoscenza, almeno nel loro funzionamento, come pure, e molto spesso, di generalizzazioni di senso comune, le cd. “regole di esperienza”, che rappresenterebbero l’id quod plerumque accidit. Queste ultime hanno tuttavia uno status epistemico molto vario, perché in molti casi si basano su generalizzazioni sfornite di qualsiasi conferma in leggi scientifiche o regole conoscitive di qualsiasi genere, si fondano in effetti su luoghi comuni, stereotipi o pregiudizi, diffusi nel senso comune, in quanto consolidati nel gruppo egemone in un dato contesto storico, ma in realtà non supportati dalle acquisizioni di alcun sapere, da alcuna verifica empirica che consenta di attribuire loro attendibilmente valenza generale. Tuttavia, queste supposte regole esperienziali possono essere e sono di fatto impiegate in molti contesti, in chiave non semplicemente descrittiva, ma prescrittiva: per individuare i comportamenti considerati “normali” e, per contro, quelli “anormali” perché inverosimili o indesiderati. E non è difficile comprendere come l’efficacia prescrittiva del concetto di normalità sia maggiore quanto maggiore è l’egemonia del gruppo che ha affermato e condivide la regola che quella normalità afferma. 

Ora è un fatto non seriamente discutibile che praticamente ovunque, seppure in misura varia, e praticamente in ogni ambito della vita sociale, gli uomini, o almeno gli uomini bianchi (almeno apparentemente) eterosessuali siano stati e in larga misura siano ancora gruppo egemone, come tali capaci di produrre e consolidare regole assunte come idonee a individuare comportamenti normali, regole cui in fatto può essere attribuito contenuto esperienziale, anche se sfornite di qualsiasi conferma empirica. Ciò è vero in particolare nell’ambito delle relazioni tra i generi: in questo ambito, infatti, il senso comune, la cultura media sono ancora ampiamente costruiti intorno a un’idea di gerarchia e separatezza, che assegna a uomini e donne ruoli e ambiti di libertà e di autodeterminazione, soprattutto nella vita familiare e sessuale, molto diversi.

Di conseguenza anche il giudice, in quanto vive in un contesto dato e si serve, nella narrazione dei fatti rappresentata nella sua motivazione, (quanto meno anche) della cultura media della sua epoca, è esposto al rischio di utilizzare, ai fini della ricostruzione degli accadimenti di causa, dell’accertamento dei fatti e delle loro relazioni, presunte regole di esperienza in realtà fallaci, perché basate solo sulla loro condivisione nel senso comune, ma sprovviste di qualsiasi attendibile fondamento empirico. E se quasi mai queste regole sono neutre, sicuramente non lo sono quando hanno riguardo ai rapporti tra i sessi, in quanto esse riproducono la relazione gerarchica tra uomini e donne, codificano e naturalizzano le differenze, quanto agli spazi di autodeterminazione, costruite dall’egemonia di uno dei due gruppi.

Che il rischio sia reale lo dimostrano, nella maniera più concreta, le diverse condanne del nostro Paese da parte di organismi e corti internazionali per l’uso di stereotipi sessisti nell’apprezzamento dei fatti e delle prove in alcune decisioni giudiziali[5]

Sia chiaro che il punto non è l’esito dei singoli processi, per quanto in tutti e tre i casi l’uso di presunte regole esperienziali, relative alla prova del consenso all’atto sessuale o dell’idoneità genitoriale della denunciante, abbia condotto a decisioni sfavorevoli alle donne che si affermavano parti offese. Il punto sono, piuttosto, gli argomenti posti dai giudici a fondamento di quelle decisioni, oltre che il linguaggio con cui sono stati espressi.

E ugualmente non si tratta di costruire, in tema di accertamento dei fatti e valutazione delle prove, uno statuto speciale dei processi in cui le donne denuncino violenze, né di negare che le dichiarazioni di queste donne debbano essere vagliate secondo criteri obiettivi, giacché la valutazione obiettiva dei fatti e delle prove è un connotato necessario dell’imparzialità del giudice e della sua narrazione.

Si tratta al contrario di vigilare, da parte del giudice stesso in primis, proprio sull’effettiva obiettività, cioè razionalità e adeguatezza rispetto a regole conoscitive validate, dei criteri con cui i fatti sono ricostruiti e le prove apprezzate, in un contesto in cui normalità e anormalità sono invece molto spesso affermate in base a generalizzazioni giustificate solo da stereotipi e pregiudizi, privi di fondamento empirico, che riproducono e “naturalizzano” la condizione di minorità delle donne nelle relazioni di genere. Perché c’è da chiedersi, per esempio, con quale fondamento, sulla base di quali conoscenze del comportamento umano si assume (come si è letto) che una “vera” vittima di violenza sessuale denuncia subito o che resiste strenuamente e non resta immobile o, ancora, che non raccoglie nell’immediatezza le prove della violenza? Come si può dire (come invece è stato detto) che è difficile che vi sia stata violenza perché la presunta vittima non era avvenente? Non c’è alcuna regola fondata su alcuna acquisizione scientifica che affermi cose del genere (sull’ultima, poi, un bagaglio di conoscenze anche solo da scuola superiore fornisce bastevoli evidenze di come lo stupro non c’entri niente con il desiderio, ma solo con il dominio e con l’umiliazione), e nondimeno queste e altre presunte massime di esperienza talvolta sono poste a fondamento della decisione sull’attendibilità delle denuncianti, senza apparentemente alcun vaglio critico sulla loro tenuta, perché evidentemente radicate in un pre-giudizio (sui generi e i rapporti tra di loro) che appartiene al giudice come alla cultura media cui egli attinge.

Questo è obiettivamente un problema, non solo in quanto espone le persone offese di reati connessi al genere al rischio di vittimizzazione secondaria (come hanno ricordato anche le citate decisioni delle corti internazionali), ma più generalmente perché a essere messa a rischio è l’imparzialità del giudice, cioè il suo dovere di ricostruire i fatti in modo razionale e obiettivo, perciò fondato su regole di giudizio dotate di adeguata attendibilità. 

 D’altra parte, poiché le radici del problema sono culturali, il primo e più efficace rimedio non può essere che la formazione, che non può consistere solo nella somministrazione di nozioni tecnico-giuridiche, ma deve riguardare anche i saperi extragiuridici (psicologici, socio-linguistici – per dirne solo alcuni), dei quali giudici e pubblici ministeri devono necessariamente fare uso nell’esercizio della giurisdizione, e prima ancora il nostro ragionare, il modo in cui formiamo il nostro “libero convincimento”, in cui ricostruiamo i fatti e le loro relazioni e come e quanto questi meccanismi cognitivi siano influenzati da fattori esterni (a partire da convinzioni diffuse e stereotipi che permeano la cultura media del nostro tempo). Una formazione, in ultima analisi, alla complessità e alla vigilanza su di sé.

 

 

1. The Importance of Being Earnest, A Trivial Comedy for Serious People, Xist Publishing, Rosenberg (Texas), 2016, p. 19.

2. Tutte le citazioni sono da M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la ricostruzione dei fatti, Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 119-120.

3. Ancora M. Taruffo, op. ult. cit., p. 58.

4. U. Eco, Dall’Albero al Labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazione, La nave di Teseo, Milano, p. 97.

5. Si tratta delle sentenze della Corte Edu J.L. c. Italia, ric. n. 5671/16, 27 maggio 2021, relativa a un processo per violenza sessuale di gruppo, definito con sentenza di assoluzione in appello, e D.M. e N. c. Italia, ric. n. 60083/19, 20 gennaio 2022, avente ad oggetto un caso di dichiarazione di adottabilità di una minore, oltre che dell’opinione del Comitato CEDAW del 22 giugno 2022, resa in un caso di denunciata violenza sessuale, anch’esso conclusosi con l’assoluzione dell’imputato.