Magistratura democratica

Su imparzialità e indipendenza del magistrato: concetti, principi, casi

di Vincenzo Roppo

È imparziale il magistrato che nei suoi atti ricerca la veritiera ricostruzione del fatto e la corretta applicazione del diritto secondo le regole del giusto processo, senza farsene deviare da interessi estranei. È indipendente il magistrato immune da influenze potenzialmente capaci di renderlo non imparziale nel concreto esercizio della giurisdizione. Il magistrato privo di indipendenza esteriore soffre la presunzione assoluta di non essere imparziale. Non così chi abbia tale indipendenza: ma per sfuggire ad ogni sospetto di parzialità egli ha l’onere di provare la propria indipendenza interiore. Il modo è la motivazione dei suoi atti, che si attende di qualità tanto più elevata quanto più il magistrato partecipi, sia pure col giusto “stile”, al pubblico dibattito delle idee. Su questi criteri, la giudice Apostolico non merita alcun addebito di parzialità riconducibile alle sue visioni del fenomeno migratorio; al contrario, con le sue esternazioni il magistrato Degni ha pregiudicato gravemente la propria immagine di indipendenza.

1. Indipendenza e imparzialità: due concetti distinti / 2. L’indipendenza esteriore / 3. L’indipendenza interiore / 4. Statuti differenziati: per l’indipendenza esteriore… / 5. … e per l’indipendenza interiore / 6. [Segue] Centralità della motivazione / 7. “Essere” e “apparire” magistrato imparziale / 8. Questione di stile / 9. Libertà e responsabilità del magistrato che partecipa al dibattito pubblico / 10. I casi: Apostolico e Degni 

 

1. Indipendenza e imparzialità: due concetti distinti

Mi sembra opportuno preliminarmente distinguere fra i due concetti.

Imparzialità è concetto dinamico, inscritto nella dimensione dell’attualità e dell’effettività: si riferisce all’azione del magistrato, al suo modo di operare concretamente nella giurisdizione. Un magistrato è imparziale quando, nei suoi atti giurisdizionali, ricerca esclusivamente la veritiera ricostruzione del fatto e la corretta applicazione del diritto secondo le regole del giusto processo, senza farsene deviare da interessi estranei.

Indipendenza è invece concetto statico, che rileva sotto il profilo della potenzialità piuttosto che dell’effettività: indica (non un modo di agire ma) un modo di essere del magistrato, la sua posizione rispetto a fattori potenzialmente capaci di renderlo non imparziale nel concreto esercizio della giurisdizione.

I fattori lesivi dell’indipendenza (e quindi potenzialmente lesivi dell’imparzialità) possono essere esteriori oppure interiori. 

 

2. L’indipendenza esteriore 

Sono fattori esteriori quelli che si manifestano in situazioni, fatti o atti dotati di una consistenza oggettiva che va al di là della sfera soggettiva della persona. Il difetto di indipendenza esteriore si declina in una scala che va dal particolare al generale, e in relazione a ciò presenta ambiti di rilevanza più ampi o più ristretti – qualcosa come dei cerchi concentrici. Nel cerchio più stretto, coincidente con un singolo individuale giudizio, l’indipendenza sarebbe esclusa, per esempio, dal legame familiare del magistrato che in un caso specifico si trovi a giudicare o agire nei confronti del coniuge o del fratello. 

In un cerchio a raggio più ampio, l’indipendenza del magistrato è pregiudicata o messa a rischio dalla sua significativa partecipazione a organizzazioni rappresentative di interessi o valori suscettibili di costituire materia controversa all’interno di giudizi portati davanti a lui. Ecco perché non risulta indipendente il magistrato iscritto a un partito politico: i partiti (la cui “parzialità” è inscritta già nel nome) esprimono visioni ideali e interessi sociali contrapposti ad altre visioni e altri interessi, ma soprattutto sono il veicolo con cui – nel circuito della rappresentanza democratica (art. 49 Cost.) – certe visioni e interessi “di parte” prevalgono su altri, facendosi maggioranza parlamentare e di governo, assumendo poteri legislativi ed esecutivi, plasmando le istituzioni nel loro complesso. A più forte ragione, perderebbe indipendenza il magistrato iscritto a un’organizzazione che tali obiettivi “sistemici” persegua non nella forma trasparente del partito politico, ma in quella occulta di un’associazione segreta (chi pensasse alla P2 non sarebbe fuori strada).

Chiaro che sarebbe invece irrilevante, ai fini dell’indipendenza esteriore del magistrato, la sua appartenenza a organizzazioni che non abbiano natura politico-istituzionale, ma si rivolgano ad ambiti specifici della vita sociale, culturale, eventualmente religiosa. Certo non pregiudica l’indipendenza del magistrato essere iscritto e attivamente partecipe alla Lega italiana per la lotta contro i tumori o all’Associazione “Amici del jazz”.

Dubbi possono sorgere per il coinvolgimento del magistrato in organizzazioni non direttamente politiche, e tuttavia esponenziali di interessi sociali estesi e rilevanti, suscettibili di entrare nelle dinamiche della giurisdizione. Per esempio: perde indipendenza esteriore il magistrato inserito in qualche organo consultivo o di fiancheggiamento di un sindacato dei lavoratori o di un’associazione imprenditoriale? In generale, la risposta può essere dubbia. Ma forse dovrebbe orientarsi in senso affermativo se il magistrato fosse un giudice del lavoro. Allo stesso modo, potrebbe dubitarsi dell’indipendenza esteriore di un magistrato civile che, chiamato frequentemente a conoscere di liti fra imprese e consumatori, risultasse attivista di un’associazione consumeristica.

Una precisazione significativa. L’appartenenza a un’organizzazione non è l’unico fattore capace di ledere l’indipendenza esteriore del magistrato. Lo stesso effetto può prodursi per fatti, atti o comportamenti del magistrato che esprimano una posizione “di parte” con significato politico e siano manifestati pubblicamente. Qualcosa di più preciso sul punto si cercherà di dire nel seguito.

 

3. L’indipendenza interiore

All’indipendenza esteriore si affianca un’indipendenza interiore: quella che – per usare le parole di Enrico Scoditti – attraverso «continui esercizi di auto-trascendimento» rende il magistrato «indipendente da sé stesso»[1]. Cioè dalle sue idee, dalle sue visioni del mondo, dal suo vissuto.

Come qualunque uomo, il magistrato potrà avere, legittimamente, sue idee e visioni del mondo; e ha, inevitabilmente, sue esperienze di vita. Esserne “indipendente” significa avere la capacità di non farsene condizionare quando egli abbia a compiere atti di giurisdizione su materie correlate a quelle idee, quelle visioni, quelle esperienze. Se chiamato a giudicare di liti fra imprese e consumatori, deve sterilizzare la sua istintiva simpatia per la parte consumatrice, deve “dimenticare” di avere subito in passato – quale consumatore lui stesso – qualche vessazione ad opera di un’impresa. Se giudicante in una causa di separazione coniugale, deve “dimenticare” di essere stato anch’egli coinvolto anni prima in analoga vicenda con esiti da lui avvertiti come ingiustamente e dolorosamente penalizzanti: vicenda personale che può avere sedimentato in lui sentimenti avversi al genere di appartenenza del coniuge.

 

4. Statuti differenziati: per l’indipendenza esteriore…

L’indipendenza esteriore e quella interiore non stanno però sul medesimo piano: c’è fra loro una significativa asimmetria riconducibile al fatto che la prima c’è o non c’è, in ragione di dati tendenzialmente palesi o comunque accertabili su basi oggettive; la seconda no, perché sta tutta in interiore homine. E questo spiega i diversi atteggiamenti del sistema legale nei confronti dell’una e dell’altra.

Nulla esclude che il magistrato privo di indipendenza esteriore per via di qualche sua posizione o azione possa dare prova, in qualche singolo caso o anche in generale, di indipendenza interiore e, in virtù di questa, comportarsi imparzialmente nell’esercizio della giurisdizione: ben potrebbe accadere che il magistrato investito della lite fra un proprio familiare e un terzo giudichi, nella sua imparzialità, a favore di quest’ultimo ritenendolo dalla parte della ragione; così pure, il magistrato iscritto a un partito o suo conclamato simpatizzante ben potrebbe non farsene condizionare, e prendere decisioni “giuste” ai suoi occhi ancorché avverse al suo partito.

Ebbene, nella logica del sistema questa astratta possibilità non sembra in grado di giustificare una fiduciosa aspettativa circa la concreta capacità del magistrato di far prevalere la propria indipendenza interiore sul fattore di dipendenza esteriore da cui egli sia oggettivamente affetto. È come se – fissata la giusta soglia dell’indipendenza esteriore – scattasse una presunzione assoluta di incapacità del magistrato di vincerla con un impegno di indipendenza interiore: il magistrato affetto da mancanza di indipendenza esteriore si considera per ciò stesso (a troppo alto rischio di mostrarsi) non imparziale nell’esercizio della giurisdizione. 

A veder bene, la logica non è troppo diversa da quella che presiede alla disciplina legale dei casi di astensione/ricusazione del giudice o dell’arbitro, e – su un terreno contiguo – dei casi di incapacità a rendere testimonianza. In questa disciplina ricorrono casi in cui il difetto di indipendenza è tipizzato in fattispecie puntuali, come per esempio il vincolo familiare o la pendenza di una causa di cui all’art. 51, comma 1, n. 2 e, rispettivamente, n. 3 cpc. E altri in cui è invece scolpito in concetti elastici come quelli di «interesse nella causa» o «grave inimicizia» (art. 51, comma 1, n. 1 e, rispettivamente, n. 2 cpc). Rispetto a questi, come sempre accade con le clausole generali, si richiede un lavoro di Konkretisierung che fa tutt’uno con la definizione del livello minimo desiderabile di indipendenza (quello che poco fa, con riferimento a situazioni borderline o comunque dubbie, ho definito la “giusta soglia dell’indipendenza esteriore”).

 

5. … e per l’indipendenza interiore 

Nelle situazioni in cui non ricorre nessun fattore di dipendenza esteriore, o in cui si tratti di un fattore di dipendenza esteriore non abbastanza grave da pregiudicare la “giusta soglia dell’indipendenza”, il magistrato potrebbe essere pur sempre condizionato da fattori collocati nella sua sfera soggettiva: le idee, le visioni del mondo, le esperienze di vita delle quali sia portatore.

Ebbene, per contrastare questi fattori, per garantire che essi non pregiudichino l’imparzialità del magistrato nel compimento di concreti atti della giurisdizione, il sistema non ha altro mezzo che affidarsi alla capacità di indipendenza interiore del magistrato stesso.

Come il magistrato affetto da dipendenza esteriore subisce qualcosa come una presunzione assoluta di (essere a troppo alto rischio di) parzialità nella sua azione giurisdizionale, così il magistrato che sia invece in posizione di indipendenza esteriore è assistito da una opposta presunzione di indipendenza anche interiore – di “indipendenza da sé stesso” - che lo indurrà a tenere nei suoi processi comportamenti imparziali.

Questa è, però, una presunzione non assoluta ma relativa. Non può escludersi che un magistrato non militante né fiancheggiatore di alcun partito, ma semplicemente portatore nel suo foro interno di visioni affini a quelle di uno schieramento politico e contrastanti con quelle dello schieramento politico avverso, da questo bias si faccia – consapevolmente o inconsapevolmente – condizionare e orientare ad atti giurisdizionali vantaggiosi per la “sua” parte e penalizzante per la parte opposta. Con ciò mostrandosi, in concreto, non imparziale.

 

6. [Segue] Centralità della motivazione

Quando ciò accade, per che via può emergere? Su che base la presunzione (relativa) di imparzialità può essere smentita, lasciando il campo al riconoscimento che in quel certo caso il magistrato ha agito, effettivamente, in modo parziale? La risposta appropriata rinvia a quanto suggerito nei recenti interventi di Nello Rossi e di Enrico Scoditti, e s’identifica con un preciso elemento: la motivazione dell’atto giurisdizionale che di volta in volta venga in gioco[2].

Se l’atto si regge su una motivazione incoerente, poco razionale, affetta da palesi contraddizioni o da evidenti errori di fatto o di diritto, allora è legittimo pensare che il magistrato sia incorso, per così dire, in un eccesso o sviamento del suo potere giurisdizionale, macchiandosi di una parzialità risalente al mancato esercizio della necessaria “indipendenza da sé stesso”.

Ma se invece l’atto si presenta sufficientemente motivato in termini razionali e coerenti, secondo una sensata ricostruzione del fatto e un’accettabile interpretazione del diritto, allora la presunzione di imparzialità del magistrato regge e nessuno potrà decentemente sostenere che egli si sia fatto condizionare e deviare da suoi pregiudizi politici o culturali.

Si badi. Questa conclusione vale anche se l’atto non sia immune da possibili critiche, sulla base di una ricostruzione del fatto o un’interpretazione del diritto diverse da quelle assunte nel provvedimento, secondo la normale dialettica di opinioni diverse che caratterizza fisiologicamente i giudizi in cui si tratta di applicare norme a fatti. Un provvedimento può essere frutto di un giudizio imparziale, anche se sia valutabile come “sbagliato”. Per giustificare un addebito di parzialità, l’atto deve essere qualcosa di più che opinabile: deve essere prima facie, grossolanamente, indiscutibilmente sbagliato in punto di fatto o di diritto. Solo in questi casi estremi il magistrato autore di esso potrà additarsi come incapace di rendersi indipendente da sé stesso, e dunque come magistrato non imparziale.

 

7. “Essere” e “apparire” magistrato imparziale

Così impostato il tema, è agevole accostarsi alla distinzione/contrapposizione – sovente evocata e dibattuta – fra “essere” e “apparire” magistrato imparziale.

Il magistrato affetto da qualche fattore di dipendenza esteriore appare, già per questo, come un magistrato non imparziale, o a forte rischio di non essere imparziale: se il magistrato milita in un partito politico, chiunque potrà sospettare che nei giudizi politicamente sensibili egli sia portato a provvedere in termini politicamente vantaggiosi per il suo partito. Il difetto di indipendenza esteriore determina, insomma, un’apparenza di parzialità, che – proprio in quanto “apparenza” – si basa su dati palesi, percepibili oggettivamente, ed è riconoscibile ex ante.

Se invece il magistrato è munito di indipendenza esteriore, egli non appare parziale, perché non c’è nulla che a priori lo faccia sospettare tale. Ma nemmeno appare tout court imparziale, perché esiste pur sempre il rischio che egli sia incapace di neutralizzare, con un efficace esercizio di “indipendenza interiore”, visioni, pregiudizi, sentimenti coltivati nel suo foro interno, che possono portarlo a provvedere con parzialità. Se egli sia effettivamente un magistrato imparziale o, invece, parziale non appare da nulla che sia esteriormente percepibile, e non può sapersi ex ante. Si potrà sapere solo ex post, sulla base dei provvedimenti che in concreto assumerà, e più di preciso sulla base della loro motivazione, nel senso che si è detto sopra. È solo a questo punto che egli – contemporaneamente – sarà e apparirà un magistrato imparziale.

 

8. Questione di stile

Inserisco qui una considerazione, richiamando il precedente rilievo per cui può integrare difetto di indipendenza esteriore non solo la formale iscrizione a un’organizzazione “di tendenza”, ma anche un insieme di atteggiamenti o prese di posizione che, per la loro frequenza, intensità e natura inducano a carico del magistrato un forte sospetto di parzialità.

Epperò ogni magistrato, anche privo di appartenenze organiche, ben potrà avere sue idee e visioni lato sensu politico-culturali. E in linea di principio è del tutto legittimo che le manifesti nel dibattito pubblico. Sorge allora una domanda: dove passa il discrimine fra manifestazioni pubbliche di un orientamento politico-culturale idonee a generare un forte sospetto di parzialità a carico del magistrato manifestante, e manifestazioni pubbliche che invece un tale sospetto non generano?

Tentando una risposta di sintesi, vorrei dire che è questione di stile. Già la Corte costituzionale aveva detto che al magistrato è consentito esprimere pubblicamente le proprie idee politiche, purché ciò egli faccia «con l’equilibrio e la misura» che si attendono da chi sia investito di una funzione pubblica, tanto più se delicata e sensibile come la giurisdizione[3]. Desiderando maggiore precisione, soccorrono le indicazioni di chi al magistrato partecipe del dibattito politico-culturale raccomanda che «parli e argomenti in modo chiaro e comprensibile, che partecipi al discorso pubblico come un attore razionale, capace di ascolto degli argomenti altrui e di repliche meditate; che non prorompa nell’urlo fazioso, nell’invettiva, nella semplificazione magari brillante ma brutale e fuorviante»[4].

Sono parole che faccio totalmente mie, riconoscendo che il magistrato il quale partecipa al dibattito pubblico con queste modalità esercita il suo diritto: ha piena facoltà di farlo. 

 

9. Libertà e responsabilità del magistrato che partecipa al dibattito pubblico

Facoltà tuttavia, non obbligo: egli sceglie di partecipare al dibattito pubblico anziché di astenersi dal farlo. Come ogni libera scelta, anche questa ha conseguenze e implica responsabilità. La sua conseguenza è che, quando il magistrato manifesti pubblicamente le sue opzioni politico-culturali (sia pure con il garbo e la misura suggeriti da Nello Rossi) e si trovi poi investito di un caso che, in qualche modo, tocca la materia cui tali opzioni si riferiscono, deve sapere che inevitabilmente sorge negli osservatori della sua azione giurisdizionale un’attesa speciale, un sovrappiù di attenzione che non accompagnano invece l’azione del magistrato rimasto estraneo al dibattito pubblico. 

Di qui (non certo motivi di riprovazione del suo agire, bensì solo) una sua speciale responsabilità, un sovrappiù di impegno a suo carico nel perseguire la realtà e l’apparenza dell’imparzialità. In concreto. Se quel magistrato provvederà (come è ben possibile) in senso contrario alle personali opzioni politico-culturali pubblicamente manifestate, nulla quaestio: quale prova migliore della sua imparzialità? Se invece provvederà in senso conforme a quelle sue opzioni, dovrà moltiplicare lo sforzo di motivare la soluzione prescelta in modo quanto più possibile solido e accurato.

 

10. I casi: Apostolico e Degni

Proviamo ad applicare questo piccolo set di principi e criteri ai due casi recenti, nei quali è venuto in gioco con prepotenza il tema dell’indipendenza e imparzialità del magistrato: il caso Apostolico e il caso Degni. In estrema sintesi.

Sappiamo che la giudice Iolanda Apostolico è intervenuta nel dibattito pubblico in materia di trattamento dei migranti: lo ha fatto in modo intenso e marcato (come lo è partecipare a una manifestazione che contesta scelte del Governo), ma al tempo stesso in modo serio e composto, sicché non è venuta meno la sua indipendenza esteriore. Si è poi trovata a giudicare di un caso implicante l’applicazione di un provvedimento governativo in quella stessa materia, e ha preso una decisione tanto avversa all’ispirazione politica del provvedimento quanto allineata alla propria visione. Ma il punto non è questo. 

Il punto è che la giudice ha motivato il suo provvedimento in modo assolutamente appropriato e persuasivo nel fatto e nel diritto, raccogliendo ampio consenso e condivisione circa la sua correttezza legale. Solo un’irrimediabile bêtise tecnico-giuridica spiega le sguaiate critiche sollevate dai commentatori di destra quando gridavano all’atto eversivo di un giudice che osa “disapplicare” la legge e ha la spudoratezza di dichiararlo apertamente: bisognerebbe spiegare loro che la “disapplicazione” della legge non esprimeva in quel caso la furia iconoclasta di un giudice incurante della separazione dei poteri e dell’art. 101, comma 2 Cost. («I giudici sono soggetti… alla legge»), ma – trattandosi di legge nazionale (motivatamente ritenuta) contraria al diritto dell’Unione europea – disapplicarla costituiva un obbligo imposto al giudice dall’ordinamento multi-livello quo utimur.

E dunque: la giudice Apostolico è stata, ed è apparsa, una giudice imparziale.

Sono noti i termini del caso Degni. Questo magistrato della Corte dei conti, “taggando” la segretaria del Pd, aveva postato sul social medium “X” un commento circa la discussione parlamentare in corso sulla legge di bilancio. Commentare una siffatta vicenda politica è, di per sé, nella piena libertà del magistrato: ma si tratta di vedere, concretamente, in che termini si svolge il commento. Ebbene, i termini erano grossolanamente inappropriati. Prima di tutto sotto il profilo dell’oggetto e del contenuto: auspicare una manovra parlamentare come l’ostruzionismo, finalizzata a impedire che il provvedimento sia approvato in tempo utile così da spingere i conti pubblici nel regime di esercizio provvisorio non è manifestazione di un orientamento politico-culturale, è bensì segno di faziosità politica. E poi anche dal punto di vista dello stile comunicativo, riflesso in una frase come «Potevamo farli sbavare di rabbia sulla cosiddetta manovra blindata»: usare la seconda persona plurale (“potevamo…”) significa non semplicemente condividere idee e valori politico-culturali, ma immedesimarsi totalmente in un partito, nelle specifiche tattiche e mosse della sua azione quotidiana; e auspicare che la parte politica identificata chiaramente come l’avversario da battere abbia a “sbavare di rabbia” esibisce un’incontinenza verbale lontanissima dai moduli espressivi raccomandati da Nello Rossi.

Nei confronti di Marcello Degni pendono un procedimento disciplinare avviato dalla Procura generale della Corte dei conti e un deferimento ai Probiviri dell’Associazione (dei magistrati della Corte dei conti) cui egli appartiene: se ne vedrà l’esito. Quel che fin d’ora può dirsi è che la sua esternazione rappresenta un vulnus formidabile alla figura di magistrato indipendente e imparziale.

 

 

1. E. Scoditti, Il giudice e il dovere di indipendenza da sé stesso, in Foro it., vol. 145, 2020, V, cc. 217 ss.

2. N. Rossi, Il caso Apostolico: essere e apparire imparziali nell’epoca dell’emergenza migratoria, in Questione giustizia online, 10 ottobre 2023, p. 4 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-apostolico-essere-e-apparire-imparziali-nell-epoca-dell-emergenza-migratoria); E. Scoditti, Magistrato e cittadino: l’imparzialità dell’interprete in discussione, ivi, 22 novembre 2023, p. 3 (www.questionegiustizia.it/articolo/magistrato-e-cittadino-l-imparzialita-dell-interprete-in-discussione), ora entrambi in questo fascicolo.

3. Corte cost., 20 luglio 2018, n. 170.

4. N. Rossi, Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2018, p. 250 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/568/qg_2018-4_25.pdf), ripreso in Il caso Apostolico, op. cit., p. 4.