Imparzialità del magistrato e credibilità della magistratura
Premesse alcune considerazioni sull’inevitabilità dei giudizi di valore nell’interpretazione delle disposizioni normative, l’Autore tenta di chiarire i termini delle convergenze e delle divergenze tra imparzialità e indipendenza dei magistrati. Il tradizionale concetto di “prestigio” della magistratura, di estrazione autoritaria, dovrebbe sempre essere sostituito da quello di “credibilità”, che evoca il rapporto di fiducia che deve esistere tra magistrati e cittadini. L’imparzialità deve accompagnarsi all’immagine di essa (apparenza) proprio per mantenere viva la fiducia. Quest’ultima non ha, però, motivo di venire meno se il magistrato palesa, anche in pubblico e con energia, la propria adesione ai principi costituzionali di libertà, eguaglianza e tutela della dignità di tutte le persone, senza discriminazione alcuna.
1. I magistrati e i giudizi di valore nell’interpretazione del diritto / 2. Imparzialità e indipendenza: convergenze e differenze / 3. Credibilità della magistratura e immagine dell’imparzialità dei magistrati / 4. Imparzialità e pubblica adesione del magistrato ai principi costituzionali
1. I magistrati e i giudizi di valore nell’interpretazione del diritto
Le ricorrenti polemiche, di origine politico-partitica, sulla politicizzazione della magistratura e sulle esorbitanze che ne deriverebbero sono spesso alimentate da equivoci, più o meno volontari, che creano confusione nell’opinione pubblica. Non è difficile scorgere dietro gli attacchi ai magistrati come singoli e alla magistratura come istituzione la perenne aspirazione del potere politico a liberarsi delle remore e dei fastidi derivanti dalle applicazioni pratiche del principio di legalità, da tutti esaltato in astratto, da molti aborrito in concreto.
Le occasioni per sollevare polemiche – talvolta fondate, il più delle volte pretestuose – si moltiplicano in un contesto sociale, politico e giuridico sempre più frammentario e refrattario rispetto ai princìpi. Il giudice, chiamato a risolvere sempre e comunque le controversie che gli vengono ritualmente sottoposte, dovendo servirsi di un materiale normativo frantumato e sconnesso, svolge, molto spesso suo malgrado, la funzione di “ordinatore del caos”. Ciò significa che deve costruire la norma applicabile nel singolo processo ricavandola da frammenti di disposizioni provenienti da un legislatore incurante della chiarezza e della sistematicità, dedito com’è a inseguire le spinte emozionali ed effimere provenienti dalla soggezione populistica ai sondaggi.
La situazione si è ulteriormente complicata con l’espansione della normativa europea e con il consolidarsi della posizione del giudice italiano come giudice anche della Ue, visto il suo potere di disapplicazione diretta delle leggi interne in contrasto con le norme sovranazionali a effetto immediato (regolamenti e direttive dettagliate). Non ci vuole un grande acume per comprendere che questa ars combinatoria, unita alla pletora e all’oscurità delle leggi vigenti, non può aspirare alla precisione e all’oggettività delle formule matematiche, con la conseguenza che il giudice, se non vuole errare senza meta nella nebbia di un diritto positivo sempre meno conoscibile, deve rifarsi a criteri di orientamento delle proprie scelte non soggettivistici.
Chiunque abbia una pur modesta pratica della giurisdizione, come magistrato o avvocato, sa bene quanto sia possibile mascherare opzioni personali o politiche dietro una finta interpretazione letterale e testualistica delle disposizioni. Con un gioco di prestigio, il soggettivo si trasforma in oggettivo e si forma un diritto vivente in cui le scelte politiche sono spacciate per autentica volontà del legislatore.
I magistrati più responsabili e consapevoli (per fortuna sono molti) rifuggono da tali infingimenti e tendono a palesare i propri giudizi di valore, di modo che i destinatari degli atti giudiziari e il più vasto pubblico possano rendersi conto dell’aderenza delle pronunce giurisdizionali ai principi posti dalla Costituzione (e dagli atti internazionali e sovranazionali cui l’Italia è sottoposta). Già negli anni cinquanta, un profondo filosofo del diritto, Luigi Caiani, argomentava in modo stringente l’inevitabilità dei giudizi di valore nell’interpretazione del diritto. Lo stesso Hans Kelsen, principe del formalismo giuridico del XX secolo, affermava che, nell’ipotesi di ambiguità del testo scritto, la norma applicata nel caso concreto è frutto di una scelta dell’interprete.
Oggi possiamo dire, superando eccessive complicazioni dottrinali, che il magistrato (giudice o pubblico ministero) deve essere guidato, nella sua attività interpretativa quotidiana, dai principi costituzionali (integrati da quelli europei e internazionali pertinenti), con l’obbligo di illustrare la ragionevolezza del suo operare nelle motivazioni dei suoi provvedimenti, che restano il miglior mezzo di controllo della sua imparzialità. Quest’ultima è l’esatto contrario dell’eccentricità soggettivistica, ma non si identifica neppure con l’acritico adeguamento alla giurisprudenza dominante, senza dubbio più comodo e meno rischioso, ma certamente poco utile al necessario, continuo rinnovamento del sistema normativo all’insegna dell’aderenza all’inesauribile potenzialità generativa dei principi contenuti nella Costituzione e negli atti sovranazionali e internazionali, che traducono in norme giuridiche i valori fondamentali delle democrazie pluralistiche contemporanee.
Prima che come giurista, come cittadino mi sembra preferibile una chiara presa di posizione su questioni cruciali che attengono alla sostanza assiologica dell’ordinamento giuridico, rispetto ad adesioni, tacite e occulte, a dottrine cristallizzate e blocchi di potere dominanti.
Quanto detto sopra non nega in alcun modo la validità della separazione dei poteri. Montesquieu, nel momento in cui definiva il giudice “bouche de la loi”, non era un ingenuo sognatore, ma polemizzava sia con i sostenitori della soggezione dei giudici al potere politico che li voleva ridurre a “bouche du roi”, sia con la casta privilegiata e autoreferenziale dei Parlamenti francesi dei suoi tempi, che si scontrava con il monarca per tutelare interessi ancora più retrivi e che finì anch’essa spazzata via dal vento della Rivoluzione. In questi termini, l’insegnamento montesquiviano è ancora attuale.
Su queste premesse, il problema non è quindi se i magistrati possano o non possano esprimere giudizi di valore nell’interpretazione del diritto o se possano, o no, effettuare delle scelte. Il problema riguarda le forme e i limiti in cui ciò deve avvenire.
2. Imparzialità e indipendenza: convergenze e differenze
Può essere utile fare qualche precisazione di carattere generale e costituzionalistica in tema di imparzialità del magistrato nel contesto dell’ordinamento costituzionale italiano e della tutela giuridica dei diritti fondamentali in ambito europeo.
Le fonti normative cui far riferimento sono essenzialmente:
- l’art. 111 della Costituzione italiana;
- l’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali;
- l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, incorporata nel Trattato sull’Unione europea;
- gli artt. 52 cpc e 36 cpp.
L’imparzialità è strettamente correlata all’indipendenza. La prima attiene all’esercizio della funzione giudiziaria, la seconda allo status del magistrato. Vi è tra l’una e l’altra un nesso di strumentalità, nel senso che l’ordinamento garantisce al magistrato l’indipendenza allo scopo di metterlo nella migliore condizione per essere imparziale. L’imparzialità è il valore, l’indipendenza è la garanzia istituzionale dello stesso.
Sia l’indipendenza che l’imparzialità non sono prerogative attribuite in via esclusiva ai magistrati come singoli e all’ordine giudiziario nel suo complesso. Possono rilevarsi varie combinazioni tra di esse, in rapporto alla natura degli interessi costituzionalmente protetti.
Vi può essere indipendenza senza imparzialità, come nel caso del Parlamento e dei singoli parlamentari. Questi ultimi, in forza dell’art. 67 Cost. (divieto di mandato imperativo), sono posti in una condizione di indipendenza rispetto ai loro stessi elettori (oltre che ad ogni altro potere dello Stato), ma non si può certamente dire che abbiano un dovere di imparzialità. La garanzia di indipendenza tutela quindi la libertà con la quale essi possono esprimere le proprie posizioni di parte.
Vi può essere imparzialità senza indipendenza o con un grado attenuato di quest’ultima. È il caso della pubblica amministrazione, tenuta all’imparzialità – nel senso di uguale trattamento dei cittadini, senza alcuna discriminazione –, ma certamente non indipendente dal Governo e dalle scelte politiche da esso legittimamente operate, da concretizzare nella prassi.
Vi è infine l’ordine giudiziario, i cui componenti sono, nello stesso tempo, tenuti all’imparzialità e garantiti dall’indipendenza (artt. 101, 104, 197 e 111 Cost.). Il fondamento dell’imparzialità garantita dall’indipendenza si trova nell’art. 3 della Costituzione, in quanto espressione pratica dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, come affermato, già in tempi risalenti, dalla Corte costituzionale (sent. n. 17/1965). Si tratta di un principio che informa di sé tutti i settori dell’ordinamento costituzionale, ma trova in quello giudiziario la sua massima espressione. I giudici sono così poco vincolati a scelte politiche non egualitarie, pur provenienti dalle stesse leggi in vigore, che possono rivolgersi alla Corte costituzionale nell’ipotesi in cui ravvisino un contrasto tra queste ultime e il principio di eguaglianza. La giurisprudenza costituzionale, dal 1956 ad oggi, dimostra che questo è il parametro maggiormente invocato dai giudici italiani nel sollevare le questioni di legittimità costituzionale. Il loro dovere di assoluta imparzialità sorregge la facoltà di ribellarsi anche alla legge – cui in via generale sono soggetti per il disposto dell’art. 101, secondo comma, Costituzione – che tanto scandalizzò in Assemblea costituente i liberali della vecchia scuola.
L’obbligo di fedeltà alla Costituzione grava su tutti – politici, pubblici funzionari, semplici cittadini –, ma ai magistrati è consegnato uno strumento particolarmente incisivo per avviare un procedimento di rimozione dall’ordinamento della legge ritenuta incostituzionale. Come ha incisivamente affermato, molti anni or sono, Temistocle Martines, dichiarare una legge contraria alla Costituzione, e conseguentemente eliminarla, equivale a dichiarare illegittimo l’indirizzo politico che l’ha generata. Le prevedibili reazioni delle forze politiche dominanti e le eventuali ritorsioni sui magistrati che osservano a tutti i livelli il principio di legalità sono il rischio da evitare con le garanzie di indipendenza. Lo stesso Martines distingueva tra “indirizzo politico” (precluso ai magistrati) e “forza politica”, inevitabilmente sprigionata dai provvedimenti giudiziari, in specie quando gli stessi non si limitano ad applicare pedissequamente le leggi vigenti, ma riaffermano la superiorità della Costituzione (e delle norme sovranazionali e internazionali prevalenti su quelle interne) sulla legislazione ordinaria. Molte vicende, anche recenti, ci confermano quanto questa preoccupazione sia ancora fondata.
3. Credibilità della magistratura e immagine dell’imparzialità dei magistrati
In alcuni atti normativi continua a comparire, come oggetto di tutela, il termine tradizionale “prestigio” della magistratura. La parola evoca un insieme di funzionari posti su di un piedistallo, distaccati dalla massa di cittadini che li devono poter rispettare e ammirare. Una visione democratica, più consona al principio che la giustizia è amministrata in nome del popolo, induce a preferire l’uso del termine “credibilità”, che implica invece un continuo rapporto di fiducia che deve esistere tra magistrati e cittadini. Lo ha detto a chiare lettere la Corte costituzionale (sent. n. 100/1981). La stessa garanzia dell’inamovibilità – una delle principali guarentigie dell’indipendenza dei magistrati – deve essere bilanciata con la credibilità (non con il prestigio) e consentire, in casi gravi e particolari, il trasferimento del magistrato anche contro la sua volontà. I magistrati non devono cercare il consenso, ma devono comunque operare in modo da essere credibili, locuzione che in concreto significa assenza di elementi tali da far dubitare che le loro decisioni, anche sgradite, siano frutto di un corretto e imparziale ragionamento sui fatti e sulle norme ad essi applicabili. Ove si insinui il sospetto di deviazioni da un percorso logico-giuridico scevro da prevenzioni o interessi condizionanti, si rompe quel rapporto di fiducia e trovano spazio attacchi delegittimanti che rendono difficile l’accettazione pacifica degli esiti delle controversie giudiziarie.
Si è detto e ripetuto che il dovere di imparzialità è strettamente collegato all’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, assurto a principio costituzionale ed enunciato dall’art. 111, sesto comma della Costituzione. La credibilità del provvedimento e del magistrato (o dei magistrati) che lo ha emanato dipende dalla sua potenzialità di convinzione del pubblico. Si tratta, com’è noto, della funzione extraprocessuale della motivazione – particolarmente importante per le supreme magistrature, i cui atti non sono impugnabili –, tanto più efficace quanto più vi sia consonanza tra i suoi svolgimenti e la cultura diffusa in una comunità in un dato momento storico. Se un’accettazione sociale generalizzata e uniforme non è possibile, e nemmeno auspicabile, motivazioni eccentriche e inutilmente provocatorie concorrono a creare, o aumentare, un distacco tra cittadini e magistrati che nuoce allo Stato costituzionale, in cui democrazia e legalità si sorreggono a vicenda.
Se la credibilità della magistratura è basata sulla fiducia dei cittadini, allora viene in primo piano l’immagine dell’imparzialità, giacché a poco varrebbe lamentare una scarsa accettazione sociale dei provvedimenti giurisdizionali se si dovessero registrare comportamenti dei magistrati che li hanno posti in essere tali da ingenerare ragionevoli perplessità sull’assenza di prevenzioni ideali e condizionamenti pratici, in grado di inquinare il processo formativo delle decisioni. D’altra parte, la figura tradizionale (e da sempre fittizia) del magistrato disincarnato, privo di idee e passioni, è stata da tempo demistificata. L’apparente estraneità dei giudici alla dialettica culturale e politica in atto nella società era in realtà scontata adesione degli stessi al blocco storico-politico dominante, da cui scaturiva una convinta dipendenza, mentale e comportamentale, dal potere politico. L’unica imparzialità ammessa – anzi imposta – era quella particolare rispetto alle parti del processo, che contribuiva debolmente a un’autentica imparzialità delle decisioni, influenzate, nel loro complesso, da una serie di pre-giudizi interpretativi e sistematici.
Con l’avvento della democrazia pluralista, basata sui principi della Costituzione del 1948, la finzione autoritaria del giudice senza opinioni – perché allineato naturalmente alle opinioni dei detentori del potere politico – venne dissolta, anche ad opera del circolo virtuoso istauratosi tra un numero crescente di magistrati e il “nuovo” organo di garanzia, la Corte costituzionale.
Senza indugiare, in questa sede, in una disamina dettagliata della giurisprudenza costituzionale in materia, si può citare un’affermazione molto netta del giudice delle leggi, che supera totalmente la vecchia impostazione:
«Deve riconoscersi – e non sono possibili dubbi in proposito – che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino e che quindi possono, com’è ovvio, non solo condividere un’idea politica, ma anche espressamente manifestare le proprie opinioni al riguardo» (sent. n. 224/2009).
Sulla base di questa asserzione generale di principio, la Corte ha giudicato non costituzionalmente illegittimo il divieto legislativo di iscrizione dei magistrati a partiti politici o di partecipazione sistematica e continuativa alle loro attività, avallando così un’interpretazione drastica dell’art. 98, terzo comma della Costituzione. La stessa pronuncia aggiunge che l’imparzialità non è soltanto un dovere funzionale del magistrato, ma anche «regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità».
Come risolvere il problema dell’apparente contrasto tra il diritto fondamentale del magistrato alla libera manifestazione del pensiero e il suo dovere di non apparire condizionato da pregiudizi politici o ideologici? La Corte costituzionale ha dato una risposta in una successiva pronuncia, dove si precisa che il magistrato può «manifestare legittimamente le proprie idee, anche di natura politica, a condizione che ciò avvenga con l’equilibrio e la misura che non possono non caratterizzare ogni suo comportamento di rilevanza pubblica» (sent. n. 170/2018).
4. Imparzialità e pubblica adesione del magistrato ai principi costituzionali
Come si vede, tutto ruota attorno all’immagine dell’imparzialità, alla sua “apparenza”, non alla sua sostanza effettiva. Con il mantenimento dell’apparenza di imparzialità non si garantisce quest’ultima (che si tutela con mezzi istituzionali e processuali appositi), ma la fiducia dei cittadini nella giustizia. La Corte di Strasburgo si è posta da lungo tempo su questa linea:
«In materia, anche le apparenze possono rivestire una certa importanza. Ne va della fiducia che i tribunali di una società democratica devono ispirare a chi è sottoposto al loro giudizio» (Castello Algar c. Spagna, 28 ottobre 1998; in senso conforme, già in precedenza, Piersack c. Belgio, 1° ottobre 1982, e Delcourt c. Belgio, 17 gennaio 1970).
Viene così in campo qualcosa di impalpabile, di difficile definizione e ancor più difficile realizzazione. Quando la fiducia si manifesta in un atto, ad esempio in un voto (come avviene per la fiducia parlamentare nei confronti del Governo), allora si può constatare con certezza la sua presenza o mancanza e vi sono atti e procedimenti istituiti per ottenerla, concederla o negarla. Se invece non esistono tali mezzi di formalizzazione, si entra nel mare senza sponde delle impressioni, delle reazioni emozionali, degli ondeggiamenti di un’opinione pubblica che si esprime in sondaggi contraddittori. La riprova di questa osservazione si trova nelle stesse espressioni che la Corte costituzionale italiana è stata costretta ad usare per tracciare i confini della libera manifestazione del pensiero da parte dei magistrati: “equilibrio” e “moderazione”. Troppo giusto. Difficile trovare chi sia disposto a sostenere che il magistrato possa esprimere le proprie convinzioni, anche politiche, in modo squilibrato e smodato. La vaghezza dell’indicazione di metodo comporta, purtroppo, l’estrema difficoltà del controllo. Quest’ultimo, se non vuole degenerare in censura incostituzionale, finisce per dover restringersi a casi estremi di rara evenienza. Quasi impossibile evitare che una manifestazione di pensiero politico da parte di un magistrato provochi l’indignata reazione delle forze politiche che sostengono opposte opinioni. Del resto, non si registrano casi in cui, per puro amore di correttezza istituzionale, un politico attacchi un magistrato che ha espresso opinioni conformi alle sue. I magistrati sono imparziali quando sono d’accordo con me, mentre sono faziosi se non lo sono.
Non mi sento di condannare né il magistrato che manifesta, anche con vivacità, le proprie idee né il politico di idee opposte che lo critica invocando la neutralità. Sono gli inconvenienti di una società libera, democratica e pluralista. In un regime autoritario non vi sarebbero né magistrati parlanti né politici criticanti. Forse è ciò che qualcuno desidera.
La tutela del principio di imparzialità dei magistrati e i rimedi per evitare la sua violazione sono incerti, empirici e spesso basati su valutazioni, in sede di controllo, talmente vaghe e discrezionali da diventare esse stesse una lesione dell’imparzialità. Come procedere allora per mantenere viva quella fiducia che comunque deve sussistere tra cittadini e magistrati in una società democratica? A mio sommesso avviso, non servono le “grandi riforme”, delle quali a ogni piè sospinto si chiacchiera in Italia. Si sanzionino i casi eclatanti (pochi) e si osservino rigorosamente le regole tabellari, che continuano a essere la risposta istituzionale più efficace all’inevitabile varietà di orientamenti culturali e opinioni politiche presente nell’ordine giudiziario. Il principio del giudice naturale, preso sul serio, impedisce il più grave dei mali che possono affliggere la giurisdizione: il giudice ad hoc. I risultati saranno sempre imperfetti. Sono stato, tuttavia, sempre diffidente nei confronti dei cultori della perfezione, ingenui o troppo furbi.
La realistica constatazione che precede non significa che io, come tanti altri, non provi fastidio di fronte a magistrati logorroici e tuttologi. L’antidoto a questo malvezzo non mi sembra, però, che debba essere l’impossibile inseguimento di una imparzialità astratta difficile da precisare, anche perché il suo contrario è facilmente occultabile. Il miglior rimedio rimane pur sempre la formazione e l’incremento di una solida cultura della giurisdizione. Si tratta di espressione purtroppo abusata nelle diatribe mediatiche. Tuttavia resta essenziale, se intesa correttamente come coscienza interiorizzata e vissuta del proprio ruolo nelle istituzioni e nella società, soprattutto mediante l’assimilazione dei principi del costituzionalismo contemporaneo, che fonde le garanzie liberali della tradizione con il pluralismo politico e sociale, nel rispetto integrale della dignità della persona umana. Se poi un magistrato pubblicamente proclama la sua adesione a questi valori, ben venga!