Magistratura democratica

Per una concezione “piena” dell’imparzialità

di Luciano Violante

Nella crisi della capacità regolatoria della legge e nella moltiplicazione dei conflitti politici, dei quali è parte anche la crisi dei confini fra politica e giurisdizione, l’imparzialità diventa il fondamento di una moderna legittimazione del giudice, come condizione e garanzia che gli consente di essere pienamente credibile e degno di fiducia nella società in cui vive.

1. Nello Stato liberale e nel regime fascista la sovranità, secondo i canoni ottocenteschi, apparteneva alla politica e alla legge. La giurisdizione era applicazione pedissequa della legge nel quadro dei valori propri della classe dirigente dell’epoca. La legge aveva l’attributo della neutralità. La magistratura era organizzata in base a rigidi criteri gerarchici, selezionata attraverso procedure di cooptazione, subordinata, sul piano sostanziale e formale, al potere politico. 

L’ordinamento repubblicano, frutto di una lotta di Liberazione contro il regime precedente, si ispira a principi opposti, propri della cultura repubblicana[1], innova profondamente nel rapporto tra Stato e cittadini, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, costituisce la giurisdizione come potere dello Stato. 

A fondamento di questo radicale revirement c’è certamente la nuova cultura politica democratica, la sensibilità ai diritti civili, il timore dell’eccesso di concentrazione di poteri in un’unica istituzione, il cd. “complesso del tiranno”. Non solo. C’è un ulteriore decisivo fattore strategico: la particolare condizione politica dell’Italia, che condizionò la definizione dei caratteri dell’ordinamento costituzionale. 

In Assemblea costituente si fronteggiavano due schieramenti, uno filoamericano e l’altro filosovietico. Le prime elezioni politiche repubblicane non avrebbero avuto ad oggetto solo il governo, ma l’intero sistema. Diritti civili, rapporti tra Stato e cittadini, economia, libertà religiosa avrebbero recepito contenuti e discipline assolutamente diversi a seconda del vincitore, filoamericano o filosovietico. I due schieramenti, pur avendo una koinè comune – la partecipazione, in forme diverse, alla lotta di Liberazione – si ispiravano a referenti internazionali contrapposti: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Nessuno si fidava sino in fondo dell’altro; nessuno, soprattutto, si fidava del senior partner dell’avversario: come avrebbe influito l’Unione Sovietica sul blocco social-comunista in caso di vittoria nelle elezioni politiche? Come avrebbero influito gli Stati Uniti sul blocco occidentale in caso di vittoria di quest’ultimo?

Quale sarebbe stata la reazione degli Usa in caso di una vittoria dei filosovietici, che avrebbe sconvolto gli equilibri di Yalta?

Ciascuno temeva che l’avversario, in caso di vittoria, potesse approfittare del proprio potere nelle istituzioni, Parlamento, Governo, Magistratura, per schiacciare il perdente. Derivarono due conseguenze.

La prima conseguenza fu la marginalizzazione di Parlamento e Governo, il cui funzionamento non può non essere regolato da norme rigide, non negoziabili, a favore dei partiti le cui relazioni sono guidate dai principi della convenienza, della negoziazione e del consenso. Nessuno aveva interesse a costruire regole rigide che potessero essere utilizzate dall’avversario, qualora questi avesse governato. Conseguentemente, non fu fissata nessuna regola per la stabilità dei governi; solo il consenso dei partiti avrebbe potuto far funzionare la Repubblica[2].

La seconda conseguenza della reciproca sfiducia tra i due blocchi politici fu il favor jurisdictionis attraverso la costituzione della magistratura ordinaria come potere terzo e non governabile dall’esterno: «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» del quale fanno parte giudici «soggetti soltanto alla legge», titolari dell’accusa indipendenti (per evitare che i vincitori delle elezioni politiche potessero indirizzare l’azione penale contro gli avversari perdenti), l’obbligatorietà dell’azione penale (perché i vincitori non potessero salvaguardare se stessi). 

Tra le scelte costituzionali frutto di questo favor, quella costituzionalmente più rilevante, anche se poco studiata, è la clausola della immodificabilità della forma repubblicana dello Stato, fissata nell’art. 139 della Costituzione. È una disposizione totalmente politica, che colloca il giuridico in «una zona primaria dell’ordinamento»[3], quale la forma dello Stato. Una eventuale scelta antirepubblicana troverebbe, pertanto, un insuperabile ostacolo giuridico nella Costituzione[4] e nella giurisdizione costituzionale. La scelta non fu pacifica; tanto durante la discussione sulla norma quanto successivamente, si manifestarono forti divergenze circa il carattere solo politico o anche giuridico di quella clausola. Leopoldo Elia trovò un raffinato punto di conciliazione tra le due visioni: «Per impostare con esattezza il problema bisogna rifarsi a concezioni giuridiche, le quali, pur non uscendo dal campo del diritto positivo, sappiano guardare oltre le norme scritte, e, con più viva consapevolezza della realtà storica, si propongano di identificare in una zona più profonda e più remota, i caratteri fondamentali che distinguono tutto un ordinamento; è necessario ricorrere cioè alle recenti ricerche sui concetti di Costituzione e di regime politico»[5]. «Non si esclude naturalmente», continuò il futuro presidente della Corte costituzionale, «che possa esser mutata per via pacifica o anche apparentemente legale (mediante gli organi e le procedure stabilite dalla Costituzione) la forma repubblicana di governo; si esclude soltanto che si resti nel quadro della vigente Costituzione, che l’atto di revisione possa imputarsi alla fonte giuridica degli atti precedenti, che resti immutato il tipo di Stato: ci troveremmo sempre dinanzi ad una instaurazione di fatto»[6].

 

2. Il fattore determinante della montée en puissance dei giudici fu costituito da un’altra innovazione: il circuito tra giudici e Corte costituzionale per verificare la correttezza costituzionale delle leggi approvate dal Parlamento. Si poneva fine al dogma della sovranità della legge quale atto di chiusura dell’intero ordinamento, e si affermava una nuova teoria dello Stato. La legge approvata dal Parlamento, investito della sovranità popolare, può essere messa in discussione e annullata da un circuito che vede le magistrature, ordinaria, amministrativa e contabile, come soggetti attivi e la Corte costituzionale come giudice finale e inappellabile della conformità alla Costituzione della norma approvata dal Parlamento. 

La stabilità dell’ordinamento passa quindi dalle mani del Parlamento a quelle dei giudici, dalla politica alla giurisdizione. È un positivo limite alle eventuali prevaricazioni delle maggioranze parlamentari. Ma è un limite non esente da rischi. La giurisprudenza costituzionale ha a volte acquisito un carattere sostanzialmente rappresentativo che non deriva dal basso, ma procede dall’alto verso il basso, separando il diritto soggettivo dal diritto oggettivo, alla luce della realtà sociale. Lo stesso processo si è verificato nella magistratura ordinaria. È la conseguenza inevitabile dell’abbandono da parte della politica (partiti, istituzioni rappresentative, associazionismo politico) delle proprie specifiche responsabilità costituzionali. 

A questi abbandoni, nella storia politica delle istituzioni, segue spesso il collasso costituzionale, come nel 1992-1993. In questi casi, un altro potere si incarica di esercitare in via di fatto le funzioni di indirizzo politico. Quando quel potere è la giurisdizione, come è avvenuto in Italia, il diritto oggettivo è destinato a eclissarsi in favore di un diritto spesso ispirato, come la politica, dai principi di convenienza, non potendo più fare affidamento sul principio di stretta legalità. 

 

3. Una ulteriore espressione della prevalenza del giuridico si trova nel primo comma dell’art. 24 della Costituzione («Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi»), che rende giustiziabile ogni denuncia di qualsiasi pretesa lesione di diritti o di interessi legittimi. Non c’è alcun giudizio di bilanciamento tra i costi sociali e finanziari di una così vasta tutela attribuita anche a violazioni insignificanti. Prevale la garanzia formale.

Questa espansione del giudiziario ha posto delicati problemi al potere politico, che ha tentato, senza successo, di assicurarsi una sfera di impermeabilità – l’art. 7, comma 1, cpa: «non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico». Ma la Corte costituzionale ha ridimensionato la portata della norma. Con sentenza n. 81/2012, nel riconoscere la natura politica della decisione dell’atto di nomina di un assessore da parte del presidente di una giunta regionale, la Corte si è auto-attribuita anche il potere di sindacare l’atto politico: «Gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate». 

Tuttavia, una democrazia non può fare a meno di uno spazio di attività soggetto alla sola responsabilità politica[7].

 

4. Il sistema ha funzionato sino a quando i partiti sono stati in grado di adempiere alle responsabilità affidate loro dalla Costituzione, in pratica sino a tutti gli anni settanta. Quando hanno perso questa capacità, attraverso un declino che comincia con l’assassinio di Aldo Moro, culmina con la caduta del Muro di Berlino, prosegue con alterne vicende nei decenni successivi, l’intero ordinamento ha perso il proprio centro di gravità. Hanno prevalso l’instabilità, lo scontro fine a se stesso, la mancanza di rispetto reciproco, l’assenza di una visione per il futuro del Paese. Nel vuoto, si è progressivamente imposto il terzo potere. Si è verificato un fenomeno tipico delle democrazie contemporanee, dove ordinamento giuridico e ordinamento politico sono confinanti: ad ogni arretramento dell’uno corrisponde un avanzamento dell’altro. È espressione della sovranità della politica la definizione del confine tra i due ordinamenti. Il Parlamento ha il potere di indicare i confini del giuridico attraverso la definizione delle regole per il funzionamento dell’amministrazione della giustizia. I magistrati, applicando quelle regole anche al potere politico, dal quale sono indipendenti, stabiliscono indirettamente anche lo statuto della politica. La determinazione del confine tra politica e giurisdizione è un esercizio proprio della sovranità della politica[8]. Quando la politica non esercita questa funzione, come accadde in Italia, con alterne vicende, a partire dai processi di “Mani pulite”, il confine scompare, la confusione tra diritto e politica prevale, il diritto si scioglie in un contenitore di opzioni politiche prive di coerenza. 

In questi casi le funzioni di indirizzo finiscono inevitabilmente per essere svolte dai magistrati, che non possono non decidere, come invece possono fare le istituzioni politiche. 

 

5. Alla luce della fragilità del quadro storico e costituzionale, l’imparzialità del giudice diventa il terreno principale per la sua legittimazione. Col tempo si è aggiunta una ulteriore motivazione. La legislazione è diventata liquida, confusa, contraddittoria, più espressione di ambizioni che di regolazioni. Il conflitto tra le parti politiche è permanente e sempre più aggressivo. La giustizia diventa uno dei terreni del conflitto per la sovranità; nella incertezza delle leggi, nel succedersi di riforme prive di organicità, nel manifestarsi di fatti di cronaca che attirano l’attenzione dell’opinione pubblica e dei responsabili politici, il magistrato è chiamato a intervenire come risolutore imparziale, ma sottoposto costantemente all’occhio critico dell’una o dell’altra parte politica, pronta ad accusarlo di parzialità quando la pronuncia è insoddisfacente. Alcuni ritengono che il magistrato sia innanzitutto un cittadino e, quindi, non può essere costretto a rinunciare all’esercizio di alcuni diritti fondamentali, la libertà di manifestazione del pensiero e il diritto di riunione, innanzitutto. Conseguentemente, dovrebbe essere giudicato solo sulla base degli atti che compie nell’esercizio delle sue funzioni. Altri ritengono che per i poteri che egli esercita nei confronti della reputazione, della riservatezza, del patrimonio e della libertà personale di altri cittadini, debba necessariamente rinunciare, anche fuori del servizio, a comportamenti che lo farebbero apparire come collocato su uno dei fronti in conflitto e quindi inattendibile nelle sue decisioni. Il contesto è difficile. Una parte significativa del mondo politico, indipendentemente dalle collocazioni partitiche, sembra ritenere che la legittimità ottenuta attraverso il voto debba comportare una sorta di insindacabilità generale. Questa parte del mondo politico contesta il fondamento stesso delle indagini giudiziarie che possano indurre nella società processi di delegittimazione nei confronti di coloro che sono stati investiti dal consenso politico. È una pretesa sbagliata perché legittimità formale e legittimazione sociale sono entità distinte, che poggiano su presupposti diversi: la prima si fonda sulla correttezza del procedimento che ha portato all’elezione; la seconda sulla credibilità della persona eletta.

 

6. Nel 1999, con la legge costituzionale n. 2, l’imparzialità è entrata nell’ordinamento costituzionale. Il nuovo articolo 111 Cost. prescrive, tra l’altro: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale» (c.vo aggiunto). Questa norma introduce per la prima volta il dovere costituzionale di imparzialità. Il significato è evidente. Il cittadino accusato deve avere ragione di ritenere che chi lo giudicherà non abbia mai tenuto comportamenti che denotino propensione per una parte o per una determinata posizione ideale in conflitto palese con altre. Questa clausola ha, per ragioni logiche, una portata generale perché una eventuale parzialità extrafunzionale non può che riverberarsi sulla credibilità nell’esercizio delle funzioni, tanto più che la norma parla di giudice imparziale, non di funzioni esercitate in modo imparziale, e impegna quindi il giudice sia nell’esercizio delle funzioni sia nella vita privata e pubblica. 

L’art. 1 del successivo decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 riprende il tema, ma lo limita all’esercizio delle funzioni, stabilendo che il magistrato «esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità». Il principio della imparzialità limitato all’esercizio delle funzioni è ripreso anche nel cd. “codice etico” approvato dall’Anm nel 2010: «Nell’esercizio delle funzioni (il magistrato) opera per rendere effettivo il valore dell’imparzialità, agendo con lealtà e impegnandosi a superare i pregiudizi culturali che possono incidere sulla comprensione e valutazione dei fatti e sull’interpretazione ed applicazione delle norme. Assicura inoltre che nell’esercizio delle funzioni la sua immagine di imparzialità sia sempre pienamente garantita. A tal fine valuta con il massimo rigore la ricorrenza di situazioni di possibile astensione per gravi ragioni di opportunità».

 

7. Forse le parole più chiare sul tema sono state pronunciate dalle sezioni unite civili della Cassazione, con una decisione del 1998[9]: «l’esercizio della funzione giurisdizionale impone al giudice il dovere non soltanto di “essere” imparziale, ma anche di “apparire” tale; gli impone non soltanto di essere esente da ogni “parzialità”, ma anche di essere “al di sopra di ogni sospetto di parzialità”. Mentre l’essere imparziale si declina in relazione al concreto processo, l’apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l’esercizio della giurisdizione come funzione sovrana: l’essere magistrato implica una “immagine pubblica di imparzialità”».

Anche in base a questa sentenza, l’imparzialità riguarda la credibilità complessiva del magistrato e la fiducia della quale egli deve godere; pertanto, non può essere confinata nell’esercizio delle funzioni. Infatti, comportamenti nella vita privata o pubblica non adeguati all’“onore” (art. 54 Cost.) mettono in dubbio il rapporto di fiducia con i cittadini, violano il principio di imparzialità e rischiano di ferire anche l’indipendenza che nell’imparzialità trova il suo fondamento. Al grave carico di responsabilità e di discrezionalità che oggi pesa sul magistrato devono corrispondere comportamenti istituzionalmente adeguati, dovunque tenuti; l’imparzialità diventa fondamento dell’ indipendenza proprio perché a un alto livello di potere deve corrispondere un altrettanto elevato livello di consapevolezza. Nella crisi della capacità regolatoria della legge e nella moltiplicazione dei conflitti politici, l’imparzialità diventa il fondamento di una moderna legittimazione, come condizione e garanzia che consente al giudice di essere pienamente credibile e degno di fiducia nella società in cui vive.

 

8. Intendo aggiungere un secondo argomento, che riguarda la salvaguardia dell’unità politica attraverso processi di integrazione tra società e Stato, attivati dai cittadini e da chi esercita pubbliche funzioni. Le costituzioni sono figlie della storia; la partecipazione di parti di popolo e di parti delle classi dirigenti alla lotta di Liberazione portò a tradurre in principi costituzionali quello che era già avvenuto nella società. La nostra democrazia non si sarebbe esaurita nell’equilibrio tra i poteri; ai cittadini, pubblici funzionari o privati, la Costituzione chiedeva di non essere spettatori, ma protagonisti della crescita della democrazia, con specifici diritti e specifici doveri nei confronti della società e delle istituzioni.

Quei diritti e quei doveri hanno fondamenti pre-politici. Il fondamento pre-politico del riconoscimento dei diritti fondamentali trae origine dal personalismo cattolico, più che dalla tradizione illuministica. Il fondamento pre-politico dei doveri sta, invece, nella solidarietà propria della concezione repubblicana. L’intreccio tra i diritti e i doveri costituzionali è costruito in modo tale da favorire l’integrazione tra i cittadini e le istituzioni e, quindi, l’unità politica. La Costituzione distingue tra i doveri del comune cittadino e quelli del cittadino incaricato di funzioni pubbliche[10]. Per l’art. 4, «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». L’art. 54 stabilisce l’obbligo di fedeltà alla Repubblica e fissa un modello di etica pubblica: «i cittadini cui siano affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore». Si tratta delle due dimensioni nelle quali si articola la cittadinanza repubblicana: la partecipazione al progresso della società e il dovere di adempiere correttamente alle funzioni pubbliche. Al funzionario pubblico è richiesto di adempiere ai propri compiti «con disciplina e onore» non per ragioni retoriche, ma perché deve concorrere all’integrazione tra società e istituzioni. La disciplina è il complesso di comportamenti che si connette all’onore. E l’onore va inteso come la reputazione della quale chi riveste pubbliche funzioni – funzionario, magistrato, politico – deve rendersi meritevole per favorire l’integrazione tra istituzioni e società. Al contrario, il funzionario pubblico corrotto o fazioso, il dirigente politico senza onore, superficiale o incapace, il magistrato immeritevole di fiducia, il cittadino disinteressato alla cosa pubblica diventano fattori di disintegrazione dell’unità politica del Paese.

Una concezione “piena” dell’imparzialità, non dimezzata, è infine necessaria per l’inscindibilità della reputazione professionale dalla reputazione sociale del magistrato e risponde al suo dovere costituzionale di favorire l’integrazione tra società e istituzioni, presupposto per l’unità politica della Repubblica. 

 

 

1. L. Violante, La democrazia ha bisogno di cittadini democratici, in Questione giustizia online, 9 gennaio 2024 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-democrazia-ha-bisogno-di-cittadini-democratici). 

2. «Questo sistema (...) è stato strutturalmente predisposto sulla premessa di un contrappeso reciproco di poteri e quindi di un funzionamento complesso, lento e raro, sì come quello di uno stato che non avesse da compiere che pochi e infrequenti atti sia normativi che esecutivi, perché non tenuto ad adempiere un’azione di mediazione delle forze sociali, e tanto meno... un’azione continua di reformatio, di propulsione del corpo sociale (...)»: così Giuseppe Dossetti si espresse nel 1951, solo tre anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Cfr. Id., Funzioni e ordinamento dello Stato moderno – Relazione al III Convegno nazionale di studi UGCI, 12 novembre 1951, in E. Balboni (a cura di), Non abbiate paura dello Stato, Vita e Pensiero, Milano, 2014, p. 32. 

3. C. Pinelli, La scelta per la Repubblica, in L. Violante (a cura di), Ricomporre le parti: fratture e continuità nella storia delle istituzioni repubblicane, numero speciale de Il Politico, 2019, pp. 25 ss. 

4. Così L. Elia, Possibilità di un mutamento istituzionale in Italia [1949], in Aa.Vv., Costituzione, partiti, istituzioni, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 12, cit. da C. Pinelli, La scelta, op. cit.

5. L. Elia, op. ult. cit., p. 12.

6. Ibid.

7. Risponde a questo criterio la legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 2, che ha introdotto per i reati ministeriali l’autorizzazione a procedere di una delle due Camere. L’autorizzazione è negata, con decisione insindacabile, qualora l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo (art. 9, comma 3).

8. B. De Giovanni, Elogio della sovranità politica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2015, pp. 8 ss.

9. Cass. civ, sez. unite, sent. 14 maggio 1998, n. 8906.

10. L. Violante, La democrazia, op. cit.