Imparzialità, libertà di espressione del magistrato e illecito disciplinare
Malgrado il dovere di imparzialità sia il primo tra quelli posti a carico del magistrato in base all’elenco che ne fa l’art. 1 d.lgs n. 109 del 23 febbraio 2006, secondo il principio di tipizzazione dell’illecito disciplinare a cui si ispira il nostro sistema, il comportamento che appaia anche solo potenzialmente lesivo di esso può essere perseguito solo laddove risulti integrata una delle fattispecie elencate negli artt. 2, 3 e 4 dello stesso d.lgs. L’analisi delle singole disposizioni mira a individuare quali, in concreto, possano essere le condotte riconducibili a un difetto di imparzialità del magistrato ritenute meritevoli di sanzione disciplinare dal legislatore: con la necessaria avvertenza che alle eventuali manchevolezze del sistema può essere solo la volontà legislativa a porre rimedio.
1. Come spesso succede (da ultimo, sempre più frequentemente) nel dibattito pubblico di questo Paese, prima di affrontare l’analisi di un argomento, giuridico e non solo, si pone come necessaria una preliminare operazione di pulizia del linguaggio, così che siano chiari, sin da subito, i termini e gli ambiti del tema affidato. L’argomento a cui è dedicato questo numero della Rivista Trimestrale, l’imparzialità del magistrato, rende doveroso innanzitutto chiarire al lettore ciò di cui si sta parlando: compito che normalmente è trascurato nella maggior parte degli interventi pubblici che sullo stesso si esercitano, che anzi in qualche misura sembrano volere alimentare l’equivoco, confondendo i piani e creando intorno al concetto di “imparzialità” un alone di indeterminatezza e di strumentale confusione, utile per colpire il magistrato di turno “reo” di qualche iniziativa non gradita, o comunque per suscitare nell’opinione pubblica sospetto, sfiducia, disaffezione (per lo Stato di diritto, non solo per la magistratura). Appartiene così ormai al senso comune la narrazione a proposito della necessità che il magistrato non solo sia, ma sempre anche “appaia” imparziale. Giusto e condivisibile postulato, a cui però occorre attribuire il corretto contenuto, per stabilire se i doveri connessi alla funzione debbano andare a permeare ogni aspetto non solo dell’esercizio della giurisdizione, ma della sua stessa condizione di civis facente parte della società in cui vive, fino a inibirne ogni forma partecipativa e anche ogni più indiretta manifestazione di una qualche inclinazione personale, non solo nel campo della politica ma in ogni settore dell’esperienza umana, dietro il quale normalmente si celano contrapposizioni, divisioni, conflitti.
2. Scopo di questo articolo non è quello di sottoporre ad analisi critica la progressiva torsione che nella coscienza pubblica ha dovuto subire la nozione di imparzialità del magistrato, poiché di questo si occuperanno, da vari punti di vista, tanti altri contributi che compongono il numero: più specificamente, lo scritto si propone di fornire al lettore alcuni elementi di conoscenza in un ambito molto specifico, che però risulta essenziale per riempire di contenuti oggettivi, tratti dal sistema positivo delle norme dell’ordinamento statale, la stessa nozione di imparzialità. Perché qui si tratterà, almeno a grandi linee, di quando, per la legge italiana, la mancanza di imparzialità del magistrato merita di essere sanzionata disciplinarmente: quali sono le figure tipizzate dell’illecito relativo, e quali sono gli estremi comportamentali capaci di integrarle. Quando cioè il legislatore ha ritenuto di attribuire rilievo e di approntare una reazione punitiva rispetto a una violazione del dovere di imparzialità che, secondo l’art. 1 d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109, costituisce uno, anzi il primo di una serie di doveri del magistrato nell’esercizio delle funzioni, a cui seguono nell’enunciato legislativo quelli di correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, nonché di rispetto della dignità della persona.
L’ampiezza dell’elenco non tragga però in inganno sui caratteri del sistema della responsabilità disciplinare attualmente in vigore: per precisa scelta normativa, con il citato decreto legislativo n. 109 si è optato per un modello improntato ai principi di tipicità dell’illecito disciplinare, di legalità e tassatività della fattispecie. Venuta meno la generica clausola dell’art. 18 rd.lgs n. 511/1946[1], che attribuiva al giudice disciplinare il potere di identificare gli stessi valori tutelati, le condotte disciplinarmente sanzionabili sono quelle – e solo quelle – previste come tali dal legislatore, e cioè dal codice disciplinare dettato dallo stesso d.lgs n. 109, e non da generiche norme deontologiche, pur se tradotte nel codice etico varato dall’Associazione, che non possono costituire utile paradigma su cui formulare incolpazioni disciplinari[2]. Quindi, perché sia chiaro e non dia adito ad equivoci, che pure sembrano ben radicati, per la legge italiana si applica la sanzione disciplinare solo e tassativamente ai comportamenti che è previsto che la meritino. E dunque, è violazione del dovere di imparzialità disciplinarmente rilevante solo quel comportamento che rientra in una delle varie fattispecie disciplinate dalla norma.
3. Passando all’esame delle specifiche fattispecie, occorre richiamare innanzitutto la disposizione dell’art. 2, intitolata agli illeciti disciplinari compiuti nell’esercizio delle funzioni: la prima disposizione che viene all’attenzione è quella di cui al comma 1, lett. c, per cui costituisce illecito disciplinare «la consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge». La norma è posta a specifico presidio del dovere di imparzialità, la cui violazione viene fatta corrispondere con il mancato rispetto delle norme, di fonte codicistica (artt. 51 cpc e 36 cpp), che regolano il dovere di astensione del magistrato nel processo. Ciò consente intanto di puntualizzare che la violazione del dovere di imparzialità si ambienta essenzialmente in relazione alla specifica natura del rapporto del magistrato con le parti del processo: dunque non in base a un generico legame di affinità ideale o ideologica, o comunque valoriale, ma per verificate e riscontrabili relazioni personali che dalle norme processuali sono state individuate come ostative a che il magistrato continui a occuparsi di quella singola controversia. È pur vero che sia il codice di procedura penale, sia quello di procedura civile, prevedono come causa di astensione quelle «gravi ragioni di convenienza» che, mentre nel processo penale configurano un obbligo di astensione (art. 36, lett. h, cpp), nel processo civile rappresentano una facoltà, e non un obbligo (art. 51, ult. comma, cpc): in questo secondo caso, peraltro, la giurisprudenza delle sezioni unite della Cassazione ha da tempo precisato che tale facoltà «deve ritenersi abrogata per incompatibilità e sostituita dal corrispondente obbligo, in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, tanto più che la diversa soluzione esporrebbe la norma di cui all’art. 51, comma secondo, cod. proc. civ. al dubbio di costituzionalità, per disparità di trattamento rispetto al giudice penale, su cui incombe l’obbligo di astenersi ai sensi dell’art. 36, comma primo, lett. h), cod. proc. pen., e a tutti i dipendenti della P.A., gravati di identico dovere per effetto dell’art. 6 del D.M. 28 novembre 2000, emanato dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri»[3].
Le gravi ragioni di convenienza vengono però ravvisate sempre e solo laddove ricorre «uno stretto e risalente legame suscettibile di intaccare, per il modo e l’intensità che lo connota, la serenità e capacità del magistrato di essere imparziale, ovvero di ingenerare il sospetto che egli possa rendere una decisione ispirata a fini diversi da quelli istituzionali e diretta, per ragioni private e personali, a favorire o danneggiare i destinatari»[4] (c.vo aggiunto); il legame può avere natura sentimentale[5], personale o familiare[6], ovvero patrimoniale, ma non si spinge sul terreno esterno a quello delimitato dal diretto rapporto tra il magistrato e le parti o i loro difensori.
Sussiste l’illecito disciplinare di cui alla lett. c dell’art. 2 ogni volta che si registri un conflitto, anche solo potenziale, tra l’interesse pubblicistico al perseguimento dei fini istituzionali di giustizia ad esso affidati dall’ordinamento e l’interesse alieno a tali finalità (privato o personale) di cui il magistrato sia portatore in proprio o per conto di terzi[7].
Un’ultima annotazione: nonostante il diverso trattamento riservato dalle norme del codice al pubblico ministero, egli è parimenti sanzionabile per la violazione dell’obbligo di astensione in quegli stessi casi in cui il perseguimento dell’interesse personale contrasta, anche solo astrattamente, con quello del fine di giustizia[8]. Da ultimo, è stato ribadito che la previsione dell’art. 52 cpp, che prevede la facoltà di astensione del pubblico ministero per gravi ragioni di convenienza, va interpretato alla luce dell’art. 323 cp, ove la ricorrenza di «un interesse proprio o di un prossimo congiunto» è posta a base del generale dovere di astensione, in coerenza con il principio di imparzialità dei pubblici ufficiali ex art. 97 Cost., occorrendo altresì equiparare il trattamento del magistrato del pubblico ministero – il cui statuto costituzionale partecipa dell’indipendenza del giudice – al trattamento del giudice penale, obbligato ad astenersi per gravi ragioni di convenienza ai sensi dell’art. 36 cpp[9].
3.1. Le sezioni unite della Corte di cassazione, ancora di recente, hanno avuto modo di ribadire che la violazione del dovere di astensione costituisce, sotto il profilo oggettivo, illecito disciplinare di mera condotta, integrato dal comportamento commissivo di partecipazione a un’attività d’ufficio rispetto alla quale sussisteva l’obbligo di astensione, non occorrendo che dallo stesso derivi uno sviamento di potere o un vantaggio pe sé o per il terzo nel cui interesse il magistrato si sia reso indebitamente portatore: in questo senso, si frappone al pericolo stesso che il magistrato non appaia imparziale. Sotto il profilo soggettivo, non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente la consapevolezza dell’esistenza delle situazioni di fatto in presenza delle quali l’ordinamento esige l’astensione, non occorrendo quindi uno specifico intento finalizzato a favorire o danneggiare una delle parti[10]. Nell’occasione, si è comunque ribadito che «L’immagine stessa del magistrato evoca un modello ideale, rispettoso dell’insieme dei doveri che ne definiscono gli schemi comportamentali (e riempiono di contenuto il modello stesso) e affidatario della tutela dei diritti di ogni consociato; pertanto, i magistrati – più di ogni altra categoria di funzionari pubblici – sono tenuti a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, ma anche ad apparire indipendenti ed imparziali (evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni), con la conseguenza che l’esimente della scarsa rilevanza della violazione del dovere di astensione va esclusa se la condotta dell’incolpato è idonea a compromettere l’immagine del magistrato in relazione ai predetti profili»: è stata pertanto esclusa l’applicabilità dell’esimente della scarsa rilevanza della violazione del dovere di astensione alla condotta di un magistrato – che aveva intrattenuto relazioni sentimentali con curatori fallimentari e legali della curatela, nell’ambito di procedure fallimentari nelle quali rivestiva la funzione di giudice delegato – perché intrinsecamente idonea a ledere il bene giuridico protetto, restando irrilevante, in quanto elemento aleatorio estraneo a detta condotta, lo strepitus fori determinato dalla diffusione della notizia sulla stampa locale[11].
4. Altro corollario rispetto al dovere di imparzialità nel processo viene ravvisato nella fattispecie di cui alla lett. b dell’art. 2, consistente nella omessa comunicazione al Csm, da parte del magistrato, della sussistenza di una delle situazioni di incompatibilità di cui agli artt. 18 e 19 dell’ordinamento giudiziario di cui al rd 30 gennaio 1941, n. 12, e successive modificazioni, come modificati dall’art. 29 dello stesso d.lgs n. 109, e quella parallela di cui alla lett. ee, che riguarda l’omissione della stessa comunicazione da parte del dirigente dell’ufficio.
Si ritiene però che l’illecito non sia configurabile, per la scarsa rilevanza del fatto e per l’inidoneità della condotta a ledere l’immagine del magistrato nell’ambiente giudiziario in cui opera, nel caso di pregressa segnalazione del rapporto di coniugio o parentela rivolta all’organo di autogoverno, ovvero di sopravvenuta immediata rimozione della causa di incompatibilità.
5. La legge non prevede altre ipotesi di illecito funzionale strutturalmente e direttamente collegate alla mancata osservanza del dovere di imparzialità: a tale direttiva generale possono però essere correlate quelle fattispecie che sanzionano i comportamenti che, da un lato, violando i doveri di cui all’art. 1 nel loro complesso, «arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti» (art. 2, comma 1, lett. a), ovvero che, dall’altro, risultano «abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori» (oltre che «dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti dei magistrati o di altri collaboratori»: art. 2, comma 1, lett. d)[12]. Rispetto a tali ipotesi, il dovere di imparzialità è coinvolto in quanto elemento che concorre a definire lo statuto del magistrato, e la sua violazione si adombra come possibile in relazione alle scorrettezze del magistrato, ovvero a quei comportamenti che, non risultando conformi al novero complessivo dei doveri che gli sono imposti, implicano anche un risultato comunque iniquo, a danno o a vantaggio, per le parti.
6. Da questa sintetica carrellata può desumersi quello che il legislatore prevede come comportamento sanzionabile in quanto riportabile alla violazione del dovere di imparzialità nel processo: un modo di agire, o anche solo di essere, in ragione dei rapporti personali, del magistrato nel ricoprire la sua posizione e nello svolgere la sua funzione, tale da compromettere le aspettative di equidistanza e di neutralità rispetto agli interessi diretti delle parti. La verifica che si richiede nell’occasione non esula quindi dalla stretta vicenda processuale, o comunque dall’esercizio in concreto della giurisdizione, che, come indica la rubrica dell’articolo, costituisce l’oggetto dell’accertamento del giudice disciplinare. Gli illeciti dell’art. 2, in particolare quelli comportanti una pretesa violazione del dovere di imparzialità, hanno di mira i comportamenti – attivi e omissivi – del magistrato nella giurisdizione, e non richiedono la ricerca delle ragioni esterne che ne possano far immaginare l’assoggettamento a una qualche forma di pregiudizio che ne condizioni e ne alteri la serenità di valutazione.
7. Così chiarite le specifiche ipotesi in cui il legislatore riconduce ai comportamenti del magistrato nell’esercizio delle funzioni la violazione dell’obbligo di essere, o di apparire imparziale, si impone l’esame delle fattispecie radunate nell’art. 3 dello stesso d.lgs, destinate a sanzionare gli illeciti commessi «fuori dell’esercizio delle funzioni»: da cui dunque deve trarsi il disegno del legislatore a proposito dei limiti posti al magistrato al di fuori della sua veste strettamente professionale, limiti che, ove superati, ne implicano la responsabilità a fini disciplinari. Sempre avendo ben presente che, se è vero che la violazione dei doveri del magistrato può assumere rilievo in ambiti diversi, etico, deontologico, disciplinare, civile e penale, tendenzialmente non sovrapponibili tra loro, la responsabilità disciplinare discende dalla espressa previsione legislativa, e dunque dalla scelta politica che vi è sottesa.
7.1. A questo proposito, prima di richiamare le singole fattispecie, è necessario rammentare che nella sua originaria formulazione il d.lgs n. 109 individuava come sanzionabile disciplinarmente, tra gli illeciti extrafunzionali, con norma di chiusura, «ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza» (art. 3, lett. l). Tale disposizione è stata abrogata dall’art. 1, comma 2 della l. n. 269 del 24 ottobre 2006, unitamente a quella del comma 2 originariamente apposto all’art. 1, per cui «Il magistrato, anche fuori dell’esercizio delle proprie funzioni, non deve tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio ed il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria».
7.2. L’intervento legislativo ha comportato il venir meno della stessa enunciazione dei doveri ai quali il magistrato è tenuto ad attenersi nello svolgimento della sua vita privata: dunque, gli illeciti extrafunzionali non possono sussistere se non là dove vengono integrati gli elementi costitutivi dei singoli illeciti fissati dalla legge. Sicché, seppur sia comune opinione che tutte le fattispecie previste dall’art. 3, tranne quella di cui alla lett. i[13], siano dirette a reprimere le condotte esterne allo svolgimento della funzione che potenzialmente sono idonee a pregiudicare l’immagine di imparzialità del magistrato, in assenza di una clausola di chiusura che riporti alla materia disciplinare la generalità dei comportamenti aventi tale potenzialità, la sanzione è comminata solo laddove la specifica fattispecie risulti integrata.
7.3. La lettura delle fattispecie di cui all’art. 3 dà adito a un duplice ordine di considerazioni, una conseguente all’altra: la prima riguarda il fatto che l’elencazione dei doveri a cui il magistrato deve conformarsi nella conduzione della sua esistenza privata prevede una serie di condotte connotate da un alto grado di specificità, sicuramente superiore a quello riscontrabile in relazione al catalogo dell’art. 2. Risalta un’unica ipotesi che richiama, quale elemento costitutivo, quello del «concreto pregiudizio all’assolvimento dei doveri disciplinati dall’art. 1», in relazione allo svolgimento di attività extralavorative, unitamente allo svolgimento delle attività incompatibili con la funzione giudiziaria secondo quanto previsto dalla normativa primaria e secondaria: quanto al resto, sono considerate dalla norma condotte tra loro eterogenee e diversamente significative circa la mancata osservanza dei singoli doveri prescritti al magistrato.
Le ipotesi dell’art. 3[14], dunque, per un verso delineano una serie di possibili comportamenti discrezionalmente scelti dal legislatore per individuare la soglia di intervento disciplinare rispetto alle modalità di vita del magistrato al di fuori della sua funzione; per altro, si può agevolmente comprendere, non riguardano che alcune ristrette e, per vero, non così frequentemente ricorrenti tipologie di condotte che, valutate nel loro insieme, non danno – e non vogliono dare, evidentemente – all’interprete e alla stessa magistratura che ne è destinataria la configurazione di un preciso modello comportamentale. Questo, ancora di più, evidenzia quanto fin qui si è cercato di sottolineare a proposito della totale autonomia della materia disciplinare rispetto al piano più strettamente etico, o pur se si vuole, deontologico. Il legislatore del 2006, nel suo doppio intervento, ha con chiarezza inteso optare per un sistema disciplinare a cui non è affidato il compito di riempire di contenuti il modello deontologico cui i magistrati sono tenuti ad attenersi, preferendo così in qualche modo restringere il raggio dell’intervento disciplinare piuttosto che lasciare spazio a interventi sanzionatori ispirati da un generale, potenzialmente critico intento di reagire alle violazioni degli obblighi, primo fra tutti quello di imparzialità.
8. Soprattutto, quel che colpisce a un primo approccio con la normativa è che essa appare alquanto distante dal terreno di scontro polemico su cui, normalmente, si gioca la partita a proposito dell’imparzialità dei magistrati. E ciò tanto più dovrebbe stupire, in quanto la polemica spesso è agitata da chi dovrebbe eventualmente farsi carico di questa distanza, e intervenire sul tema attraverso scelte mirate da assumersi in sede legislativa.
La verità è che una disciplina positiva che individui chirurgicamente gli estremi comportamentali sintomatici di un difetto di imparzialità non è certo, e non può essere, di semplice e piana elaborazione. Essa, soprattutto, deve tener conto di una serie di indicazioni che provengono dalle fonti di rango superiore, anche eurounitarie, che rendono estremamente difficile e scivolosa l’individuazione del punto di equilibrio tra i diversi valori in gioco.
9. Viene qui in gioco la fondamentale questione della libertà di espressione del magistrato e dei limiti entro i quali la sua esplicazione può comprometterne l’imparzialità, ovvero anche solo l’apparenza di imparzialità. La delimitazione è comunque resa ardua dalla generale difficoltà di tracciare i confini di esercizio concreto di un diritto garantito dalla Costituzione, ma che nel caso dei magistrati presenta l’ulteriore, delicata operazione concernente il necessario bilanciamento tra il diritto di manifestazione del pensiero e quello che è il necessario dovere di riservatezza, e naturalmente anche di imparzialità, correlato all’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Operazione non facile, che ovviamente sottintende alcune scelte di valore, a partire da quella che consiste nell’attribuire alla libertà di manifestazione del pensiero da parte del magistrato il primario significato che le è stato riconosciuto dalle stesse linee-guida emanate dal procuratore generale della Corte di cassazione in data 10 marzo 2022, laddove si prevede espressamente che per il magistrato «come per qualunque altro cittadino, la manifestazione del pensiero è libera e costituzionalmente garantita ai sensi del comma 1 dell’art. 21 della Costituzione» (p. 4 delle linee organizzative).
Una troppo rigorosa limitazione del diritto costituzionale di manifestazione del pensiero nei confronti dei magistrati finisce per entrare in rotta di collisione con un principio cardine della vita democratica, ossia con la «pietra angolare» (come si espresse una risalente sentenza della Corte costituzionale, la n. 84 del 1969), rappresentata dalla libertà garantita proprio dall’art. 21 Cost. È poi vero che la Corte, nei successivi interventi in tema, ha avuto modo di precisare che l’esercizio del diritto di libera espressione del pensiero, potenzialmente suscettibile di entrare in conflitto con la prescrizione dei doveri di imparzialità e di indipendenza, non può essere privo di limiti, secondo una regola deontologica che va osservata in ogni comportamento, al fine di preservare quella considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione (così Corte cost., n. 100/1981): sicché il valore dell’imparzialità e quello dell’indipendenza, posti per dettato costituzionale (artt. 10, comma 2, e 104, comma 1, Cost.), «vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità» (Corte cost., n. 224/2009). Tali illuminanti premesse vanno però ambientate, come si è cercato di dire sino qui, nel vigente contesto legislativo.
10. La stessa Corte Edu, con la sentenza del 9 luglio 2013 (ric. n. 51160/06), Di Giovanni c. Italia, in relazione alla possibile violazione dell’art. 10 della Convenzione in caso di sanzione disciplinare inflitta a magistrato per il contenuto di dichiarazioni rese alla stampa, ha affermato essere suo compito quello di verificare, per ciascuna causa, se sia stato rispettato «un giusto equilibrio tra il diritto fondamentale dell’individuo alla libertà di espressione e l’interesse legittimo di uno Stato democratico a vigilare affinché la sua funzione pubblica operi per le finalità enunciate all’articolo 10 § 2»[15]. Precisa poi la Corte Edu che, «dal momento in cui è in gioco il diritto alla libertà di espressione dei funzionari, i “doveri e le responsabilità” di cui all’articolo 10 § 2 assumono un significato speciale che giustifica un certo margine di apprezzamento lasciato alle autorità dello Stato convenuto per stabilire se l’ingerenza controversa sia o meno proporzionata allo scopo enunciato» (Vogt c. Germania, 26 settembre 1995, § 53, serie A, n. 323, e Ahmed e altri c. Regno Unito, 2 settembre 1998, § 61, Recueil 1998-VI). La Corte Edu ha avuto, in particolare negli ultimi anni, a ragione delle condizioni venutesi a creare in alcuni Stati sottoposti alla sua giurisdizione, molte occasioni per occuparsi del diritto di libertà di espressione dei magistrati. Altri contributi si dedicheranno specificamente all’esame della giurisprudenza venutasi a formare, ma qui sembra utile richiamare, come punto di approdo più recente di questa ricchissima elaborazione, la sentenza Danilet c. Romania, 20 febbraio 2024 (ric. n. 16915/2021)[16], in cui viene ribadita l’osservazione a proposito del «ruolo speciale della magistratura nella società», che comporta che, nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, le «autorità giudiziarie devono esercitare la massima discrezione quando sono chiamate a dispensare giustizia, al fine di garantire la loro immagine di giudici imparziali»: tanto premesso, la Corte ha ritenuto indebite le sanzioni inflitte, in quanto la posizione del ricorrente faceva «chiaramente parte di un dibattito su questioni di interesse generale riguardanti le riforme legislative che riguardano il sistema giudiziario». In questo caso, «qualsiasi interferenza con l’esercizio della libertà di fornire o ricevere informazioni avrebbe dovuto essere soggetta a un controllo rigoroso, essendo il margine di apprezzamento delle autorità dello Stato convenuto ridotto in tali casi». In tal modo, non avendo peraltro affrontato la questione se i giudizi di valore espressi nel caso di specie avessero una base fattuale sufficiente e non essendo sufficientemente dimostrata l’esistenza di un attacco alla dignità e all’onore della professione giudiziaria, i giudici nazionali non hanno attribuito alla libertà di espressione dell’interessato il peso e l’importanza che tale libertà meritava ai sensi della giurisprudenza della Corte, anche in presenza dell’utilizzo di un mezzo di comunicazione (in questo caso un account Facebook accessibile al pubblico) che poteva far sorgere «legittimi interrogativi in merito al rispetto del dovere di riservatezza dei giudici».
11. Poste queste necessarie premesse, e tornando al tema assegnato, nel sistema dell’illecito disciplinare tipizzato, la manifestazione del pensiero da parte del magistrato può ritenersi disciplinarmente rilevante, innanzitutto quando essa integri reato, ossia risulti diffamatoria (art. 4, lett. d, d.lgs n. 109/2006), ovvero corrisponda ad altra fattispecie di reato (ad esempio, vilipendio ex art. 290 cp)[17].
Per quanto riguarda la dichiarazione del magistrato avente valore diffamatorio, va pure sottolineato che essa ha rilevanza disciplinare, in quanto idonea ad incidere sulla credibilità e sull’immagine dell’autore, anche qualora la diffamazione non sia penalmente perseguibile per il difetto della querela o per l’esimente della provocazione, dovendosi esigere da un rappresentante dell’ordine giudiziario un livello di correttezza più alto rispetto al comune cittadino[18].
Posto che dunque il magistrato, al pari degli altri cittadini, gode del diritto di critica quale espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero, valgono anche nei suoi confronti i limiti riconosciuti alla esimente del delitto di diffamazione, la quale presuppone la sussistenza di un interesse pubblico a conoscere le vicende criticate, la verità dei fatti assunti a presupposto delle espressioni critiche, nonché la continenza delle espressioni utilizzate, che non devono trasmodare in frasi ed epiteti umilianti, in attacchi personali consapevolmente lesivi della sfera privata altrui senza alcuna finalità di pubblico interesse, o in espressioni pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca del fatto e della sua critica[19]. La definizione del requisito della continenza, ormai recepita dalla nostra giurisprudenza, risente dell’elaborazione della Corte Edu che, con riferimento alla critica giornalistica, ammette l’uso di toni aspri e pungenti, di idee urticanti, di accenti provocatori, di espressioni esagerate e di affermazioni che disturbano. Pertanto, la giurisprudenza interna ha finito per arretrare la linea di confine, che non può essere impunemente oltrepassata, distinguendo tra provocazione, esagerazione e insulto. Linea individuata, in consonanza con la giurisprudenza europea, nell’attacco personale gratuito, nel ricorso al cd. argumentum ad hominem, nell’affermazione diretta ad attaccare la sfera morale della persona, spesso gratuitamente, senza alcuna finalità di pubblico interesse[20].
Anche la giurisprudenza disciplinare ricorda come il legittimo esercizio della critica politica (in un caso in cui erano state formulate severe critiche nei confronti dei componenti della commissione di concorso per uditore giudiziario), inteso come esimente rilevante anche ai fini della responsabilità civile da ingiuria e/o diffamazione, può contemplare toni aspri e di disapprovazione più pungenti e incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti interpersonali fra privati cittadini, con il limite che la critica non deve palesemente travalicare i confini della convivenza civile, mediante offese gratuite, come tali prive della finalità di pubblico interesse, e l’uso di argomenti che mirino solo all’insulto dell’avversario o ad evocarne una pretesa indegnità personale[21].
La giurisprudenza disciplinare si adegua pertanto agli insegnamenti della giurisprudenza civile, che afferma la liceità di manifestare liberamente il proprio pensiero anche in chiave critica e in presenza di capacità lesive ridotte, anche a costo di sacrificare l’altrui onore e reputazione, dal momento che «qualunque critica che concerna persone è idonea a incidere in qualche modo in senso negativo sulla reputazione di qualcuno e, tuttavia, escludere il diritto di critica ogniqualvolta leda, sia pure in modo minimo, la reputazione di taluno, significherebbe negare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. Pertanto, il diritto di critica può essere esercitato utilizzando espressioni di qualsiasi tipo anche lesive della reputazione altrui, purché non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato»[22].
Questa la situazione attuale del dato di diritto positivo.
12. È noto che, nella sua originaria formulazione, il d.lgs n. 109 individuava come illeciti comportamenti del magistrato nell’esercizio delle funzioni «il rilasciare dichiarazioni ed interviste in violazione dei criteri di equilibrio e di misura» (art. 2, lett. bb) nonché, tra gli illeciti extrafunzionali, «il rilasciare dichiarazioni ed interviste in violazione dei criteri di equilibrio e di misura» (art. 3, lett. bb) e, con norma di chiusura, di cui già si è detto, «ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza» (art. 3, lett. l). Tali disposizioni sono state abrogate dalla l. n. 269/2006, in quanto ritenute come pericolosamente limitatrici della dignità dei magistrati e della libertà di espressione del pensiero. La chiara scelta politica operata nell’occasione ha comportato dunque che le esternazioni dei magistrati, nel caso in cui non riguardino procedimenti da loro stessi trattati, in relazione ai quali valgono le norme poste a presidio del dovere di riservatezza (art. 2, comma 1, lett. u e v), possano rivestire interesse disciplinare solo quando integrano ipotesi di reato. La considerazione, per quanto necessitata in base alle premesse, non è scontata, e pare sempre negletta nel dibattito pubblico e, a volte, anche nelle iniziative interne agli uffici volte ad ottenere l’intervento della Procura generale e l’attivazione del procedimento disciplinare in relazione a esternazioni del magistrato che paiono semplicemente inappropriate, polemiche, indebitamente critiche: magari denigratorie, ma non diffamatorie. Esse potranno rientrare nell’ambito di applicazione della norma deontologica[23]: mai, se non in presenza dei precisi presupposti di legge, di quella disciplinare.
13. È utile qui ribadire, per l’intanto, che esulano dall’ambito degli illeciti disciplinari quelle dichiarazioni pubbliche che attengono in generale alle tematiche organizzative, in ipotesi coinvolgenti la stessa attività del magistrato, così da poter essere considerate pertinenti alla stessa finalità dell’intervento pubblico, che non oltrepassa l’ambito della sua collocazione istituzionale.
Innanzitutto, va evidenziato che la stessa giurisprudenza delle sezioni unite[24], nel precisare la nozione di «esercizio delle funzioni», ha stabilito che «La manifestazione del pensiero di un magistrato, anche allorquando abbia ad oggetto opinioni relative a temi inerenti alla organizzazione di un ufficio giudiziario e al suo funzionamento, ovvero al comportamento dei soggetti in quell’ufficio operanti, e sempre che la manifestazione del pensiero non si espliciti attraverso riferimenti individualizzanti (nel qual caso, ricorrendo la natura ingiuriosa delle espressioni utilizzate, potrebbe essere configurato il delitto di cui all’art. 595 c.p. e l’illecito di cui all’art. 4, lett. d) del d.lgs. 109/2006), non cessa di costituire espressione di una libertà costituzionale e non diventa esercizio di funzione giurisdizionale».
In particolare, deve comunque escludersi rilievo disciplinare a quelle dichiarazioni che puntano a fornire un legittimo contributo di riflessione sulla situazione degli uffici, nell’intento di individuare un modello di organizzazione giudiziaria efficiente: esse ben possono essere agevolmente ricomprese nell’alveo del “diritto di critica” rispetto alle diverse e non sempre convincenti soluzioni organizzative prospettate dai dirigenti degli uffici giudiziari. Le riflessioni di politica giudiziaria ben possono contenere legittimi accenni critici agli assetti organizzativi vigenti e non per questo sono da interpretare come dichiarazioni delegittimanti e denigratorie nei confronti dei capi degli uffici che abbiano adottato i modelli di organizzazione giudiziaria fatti oggetto di critica. Ciò senz’altro vale anche (e a maggior ragione) quando il contributo critico è inserito nell’ambito della riflessione associativa: il pensiero critico su singoli argomenti di politica giudiziaria, sia pure veicolato attraverso le singole correnti della magistratura associata, costituisce pur sempre una preziosa fonte di arricchimento per l’organizzazione giudiziaria e per la riflessione comune che non può essere equiparata a una indebita modalità di espressione del proprio pensiero. Sotto questa visuale deve dunque escludersi che la comunicazione, anche rivolta all’esterno, concernente non i singoli affari, ma in generale i modelli organizzativi adottati, le carenze, i difetti e le problematicità di gestione, quand’anche formulata in modo critico nei confronti delle scelte operate dai responsabili dell’organizzazione, debbano andare esenti dalla sanzione disciplinare, a meno di integrare la grave scorrettezza di cui alla lettera d dell’art. 2 d.lgs cit., la quale però può dirsi integrata laddove, appunto, in violazione del generale dovere di correttezza, riserbo ed equilibrio, e nel rispetto della dignità delle persone, la critica non si mantenga entro i limiti come sopra tracciati[25].
14. La precisa delimitazione dell’ambito entro il quale può e deve esercitarsi la prerogativa disciplinare in relazione all’esercizio della libertà di espressione del magistrato serve, in parallelo, a definire la praticabilità della sua estrinsecazione attraverso forme di partecipazione attiva alla vita sociale, mediante il suo coinvolgimento personale in pubbliche manifestazioni ovvero nell’attività di associazioni impegnate in varie forme di tali attività. I presupposti di legge per l’intervento disciplinare, si è visto, sono rigorosi e riservati alle ipotesi che implicano responsabilità penale, ovvero che comportano la violazione dei doveri che gravano sul magistrato, ma solo dove risultino integrate le specifiche fattispecie che il legislatore ha individuato come il precipitato di tali violazioni, rilevante sul piano disciplinare. In particolare, per quel che riguarda la personale partecipazione alla vita politica del Paese, essa è sanzionata attraverso la previsione dell’art. 3, lett. h, prima parte, relativa a «l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici»[26], condotta qualificata dal particolare grado di coinvolgimento e di impegno personale del magistrato rispetto all’attività della formazione, non risultando sufficiente una mera adesione pubblica ancorché esplicita, ovvero la occasionale partecipazione a iniziative pubbliche organizzate da un partito, in qualità di autore di relazioni aventi mero contenuto tecnico[27].
In ogni caso, è indispensabile tener presente il presupposto secondo il quale la sanzione disciplinare si giustifica essenzialmente in base alla necessità di preservare la credibilità della funzione e l’imparzialità della giurisdizione nel suo complesso, in modo tale però da preservare in capo al singolo le prerogative che non lo escludono da una sana e auspicabile partecipazione alla realtà sociale a cui egli stesso appartiene.
15. D’altronde, è opinione comune, dotata di un certo fondamento, quella per cui, soprattutto dopo l’intervento legislativo operato con la l. n. 269 cit., l’introduzione di un sistema fondato sulla tipizzazione degli illeciti ha costituito, accanto a un auspicabile rafforzamento della garanzia contro iniziative strumentali e arbitrarie, un non irrilevante depotenziamento dello strumento disciplinare, dal momento che sono state relegate fuori dal confine della sanzionabilità tutte quelle condotte del magistrato «non rientranti in alcune delle fattispecie tassativamente descritte e che tuttavia possono ledere il bene giuridico dalle stesse tutelato»[28], posto che a tale lacuna, come detto sopra, non sopperisce l’elencazione dei doveri contenuta nell’art. 1 d.lgs n. 109/2006, che non ha che «una funzione prevalentemente simbolica (o se si vuole “pedagogica” e deontologica)»[29]. In particolare, da parte dei titolari dell’azione disciplinare, ricorrentemente in sede istituzionale si è messa in evidenza la necessità di un intervento legislativo «volto ad assicurare il bilanciamento tra la tutela dell’imparzialità e dell’indipendenza e il diritto alla libera espressione del pensiero», così che sia la fonte legislativa a stabilire se l’esternazione abbia rappresentato esplicazione della libertà, ovvero abuso, in quanto idonea – per contenuto, modi e tempi – a compromettere la fiducia nei valori fondanti della giurisdizione e, di riflesso, il prestigio dell’Ordine giudiziario[30]. Si è anche osservato che i più recenti interventi riformatori, in particolare operati con la legge n. 71 del 2022 (cd. “riforma Cartabia”)[31], sono rimasti indifferenti ai ripetuti richiami alla necessità di un intervento additivo rispetto al catalogo degli illeciti, tale da comprimere gli spazi vuoti non compatibili con una seria volontà di tutela della stessa indipendenza della magistratura attraverso la sanzionabilità delle condotte che costituiscono pregiudizio alla sua immagine di imparzialità. Sicché allo stato, nonostante le richieste che provengono dalle stesse rappresentanze istituzionali della magistratura, e che muovono dalla diretta esperienza della limitatezza, in alcuni casi, dello strumento disciplinare laddove si verificano condotte che in concreto violano il dovere di imparzialità del magistrato, l’attore politico non ha avuto la volontà, o forse la capacità, di mettere mano al complesso normativo.
1. Alla stregua del quale «Il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari secondo le disposizioni degli articoli seguenti».
2. Cass., sez. unite, n. 6827 del 24 marzo 2014: «Per tutti gli illeciti disciplinari previsti dal d.lgs. 24 febbraio 2006, n. 109 – ad eccezione di quelli contemplati dagli artt. 2, comma 2, lett. a), e 3, comma 1, lett. d) – è la stessa legge ad individuare, tipizzandole, le condotte disciplinarmente rilevanti assunte dal magistrato in contrasto con i doveri di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 109 cit., sicché l’accertamento della loro specifica violazione, mentre non rileva sul piano della verifica della sussistenza dell’illecito, essendo tale profilo assorbito da una valutazione compiuta “ex ante” dal legislatore per cui è esaustivo il confronto tra la fattispecie astratta e la condotta del magistrato a prescindere dalla finalità da questi perseguita, conserva invece efficacia sul piano deontologico, in relazione alla possibilità di applicazione – rimessa all’apprezzamento del giudice disciplinare – di clausole generali come la scarsa rilevanza del fatto, ovvero la scusabilità o giustificabilità della condotta dell’incolpato».
3. Cass., sez. unite, 13 novembre 2012, n. 19704.
4. Cass., sez. unite, 28 gennaio 2019, n. 2301.
5. Cass., sez. unite, 8 marzo 2022, n. 7497.
6. Cass., sez. unite, 26 marzo 2021, n. 8563.
7. Cass., sez. unite, 3 settembre 2020, n. 18302.
8. Cass., sez. unite, 12 maggio 2010, n. 11431.
9. Cass., sez. unite, 26 marzo 2021, n. 8563. Sembra prematuro qui affrontare compiutamente l’esame degli effetti riconducibili all’abrogazione del disposto dell’art. 323 cp («Abuso d’ufficio») da parte del ddl n. 808 (cd. “ddl Nordio”), già approvato in prima lettura dal Senato nella seduta del 12 febbraio 2024, anche se occorre segnalarne l’inevitabile incidenza anche rispetto alla perseguibilità delle condotte del magistrato.
10. Cass., sez. unite, 7 agosto 2023, n. 24038.
11. Cass., sez. unite, 6 ottobre 2023, n. 28167.
12. Esemplificativamente, per citare casi più recenti, con provvedimenti di archiviazione ex art. 16, comma 5-bis d.lgs n. 109/2006, le cui massime sono reperibili nel sito web della Procura generale (www.procuracassazione.it/it/massime_di_archiviazione.page), si è precisato che possono avere rilevanza disciplinare le espressioni utilizzate dal pubblico ministero in un atto redatto a sostegno delle proprie determinazioni processuali solo quando consistano in intemperanze verbali del tutto estranee alla finalità della decisione o rivelatrici di uno scopo diverso da quello di giustizia; che l’utilizzo, da parte del giudice per le indagini preliminari, di valutazioni poco lusinghiere nei confronti dell’indagato nel provvedimento di archiviazione – salvo che siano configurabili illeciti disciplinari relativamente alla definizione del procedimento per violazione dei doveri di cui agli artt. 1 e 2 d.lgs n. 109/2006 – non integra responsabilità disciplinare quando la motivazione non esorbiti dal perimetro di competenza del giudice o esprima considerazioni negative sul conto dell’indagato prive del requisito della pertinenza rispetto al thema decidendum; i comportamenti devono comunque riferirsi ai rapporti personali tra colleghi all’interno dello stesso ufficio e investire le relazioni di tipo personale che intercorrono con soggetti che tali relazioni hanno intessuto con il magistrato per il ruolo che questi svolge, dal momento che il bene giuridico specifico tutelato dalla richiamata norma consiste essenzialmente in quello del buon andamento dell’ufficio giudiziario e della sua stessa unitarietà funzionale.
13. Che riguarda «l’uso strumentale della qualità che, per la posizione del magistrato o per le modalità di realizzazione, è diretto a condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste».
14. Che consistono ne: l’uso della qualità di magistrato a fini di vantaggio ingiusto, la frequentazione di persone coinvolte – a certe condizioni tassative – in procedimenti penali, l’assunzione di incarichi extragiudiziari non autorizzati, l’ottenere prestiti o agevolazioni da talune categorie di persone – sempre tassativamente individuate – coinvolte in procedimenti giudiziari comunque contigui al magistrato, la partecipazione ad associazioni segrete o i cui vincoli sono oggettivamente incompatibili con l’esercizio delle funzioni giudiziarie, l’iscrizione a partiti politici o il coinvolgimento in attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario «che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato».
15. L’art. 10, § 2, sancisce che «L’esercizio di queste libertà [libertà d’espressione, che include «la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera» – ndr], poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario».
16. In cui viene operata un’accurata ricognizione della giurisprudenza e delle fonti legali sovranazionali e convenzionali e dei documenti eurounitari sulla libertà di espressione dei magistrati. Da ultimo, si segnala il parere sulla libertà di espressione dei giudici emesso il 22 dicembre 2022 dal CCJE («Consultative Council of European Judges»), secondo cui: «Il giudice gode della libertà di espressione come ogni altro cittadino. Non solo, nei casi in cui sono sotto attacco la democrazia, la separazione dei poteri o lo Stato di diritto, i giudici hanno il dovere di prendere posizione pubblica in difesa dell’indipendenza della magistratura, dell’ordine costituzionale e del mantenimento della democrazia. Nell’esercizio della loro libertà di espressione, i magistrati devono tenere in conto le loro specifiche responsabilità e i loro doveri nella società, e limitare l’espressione delle loro opinioni in ogni circostanza in cui, agli occhi di un osservatore privo di prevenzioni, le loro dichiarazioni potrebbero compromettere la loro indipendenza o imparzialità, la dignità dell’ufficio, o mettere a repentaglio l’autorità del sistema giudiziario: in particolare, il limite riguarda il coinvolgimento in pubbliche discussioni o in attività di natura politica che potrebbero compromettere la loro indipendenza o imparzialità, o la reputazione dell’ordine giudiziario».
17. Csm, sez. disc., n. 39/2009.
18. Cass., sez. unite, 26 maggio 2015, n. 10796.
19. Csm, sez. disc., n. 82/2011.
20. Cass., sez. V pen., n. 14644/2019.
21. Csm, sez. disc., n. 120/2011.
22. Cass., sez. III civ., 16 maggio 2008, n. 12420, richiamata da Csm, sent. ult. cit.
23. In particolare, il comma 3 dell’art. 6 del codice deontologico Anm, alla stregua del quale: «Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione».
24. Cass., sez. unite, 17 marzo 2017, n. 6965.
25. Cass., sez. unite, 23 ottobre 2017, n. 24969: «Il comportamento del magistrato del P.M. che, nel corso di una conversazione privata e confidenziale con un solo altro interlocutore, abbia usato espressioni di non condivisione di una disposizione organizzativa del procuratore capo e, più in generale, di prassi ritenute proprie anche degli uffici superiori, non integra gli estremi della grave scorrettezza, ex art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, se ed in quanto la critica si sia manifestata con toni oggettivamente non offensivi, né derisori, rientrando essa nella libertà di manifestazione del pensiero costituzionalmente garantita anche al magistrato, sia pure temperata in relazione agli specifici doveri incombenti sullo stesso». Vds. anche n. 6965/2017, cit.
26. Norma fatta salva da dubbi di costituzionalità dalla Corte cost., n. 224/2009, che ha escluso «alcuna violazione dei parametri costituzionali invocati dal giudice rimettente, perché, nel disegno costituzionale, l’estraneità del magistrato alla politica dei partiti e dei suoi metodi è un valore di particolare rilievo e mira a salvaguardare l’indipendente ed imparziale esercizio delle funzioni giudiziarie, dovendo il cittadino essere rassicurato sul fatto che l’attività del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, non sia guidata dal desiderio di far prevalere una parte politica (…). Il legislatore, piuttosto, è stato spinto dall’esigenza di porre una tutela rafforzata dell’immagine di indipendenza del magistrato, la quale può essere posta in pericolo tanto dall’essere il magistrato politicamente impegnato e vincolato ad una struttura partitica, quanto dai condizionamenti, anche sotto il profilo dell’immagine, derivanti dal coinvolgimento nella attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario».
27. Massima del 31 gennaio 2024 (www.procuracassazione.it/it/massime_di_archiviazione.page).
28. Vds. il discorso del Procuratore generale L. Salvato sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2023, part. pp. 228 ss., in cui si riprendono anche le osservazioni contenute nelle relazioni degli anni precedenti (www.procuracassazione.it/resources/cms/documents/Intervento_del_Procuratore_generale_sullamministrazione_della_giustizia_nellanno_2023_1.pdf).
29. Così Cass., sez. unite, n. 6827/2014, cit.
30. Vds., nel dettaglio, il discorso del Procuratore generale G. Salvi sull’amministrazione della giustizia nel 2021, part. pp. 187 ss. (www.procuracassazione.it/resources/cms/documents/PGC_Interni_layout_04_1.pdf).
31. Vds. S. Perelli, L’impatto della riforma Cartabia sul procedimento disciplinare, in questa Rivista trimestrale, n. 2-3/2022, pp. 189-197 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/1041/2-3_2022_qg_perelli.pdf).