Magistratura democratica

Pubblico ministero e imparzialità

di Carmelo Sgroi

Una ricognizione del quadro costituzionale e ordinamentale che riguarda il pubblico ministero porta a individuare i caratteri essenziali che ne definiscono l’imparzialità, con significato specifico e in forma autonoma anche se strettamente collegata all’imparzialità del giudice. Lo statuto di indipendenza, il carattere di imparzialità e la funzione di garanzia del pm, enucleati dall’evoluzione dell’interpretazione costituzionale e convenzionale oltre che da una pluralità di direttive di soft law, trovano riflesso anche nell’evoluzione legislativa recente, di ordinamento e processuale, ma appaiono rimessi in discussione dalle proposte di riforma.

1. Premessa. La cornice dei principi costituzionali e sovranazionali / 2. Il significato del canone dell’imparzialità per il pubblico ministero, tra organizzazione e azione e tra merito e legittimità / 2.1. L’organizzazione / 2.2. L’azione / 2.3. La legittimità / 3. Essere e apparire. Le responsabilità / 4. Brevi spunti (critici) di riflessione per il futuro

 

1. Premessa. La cornice dei principi costituzionali e sovranazionali

Definire l’imparzialità, quando si tratta del giudice, appare almeno a prima vista una operazione relativamente semplice, perché le diverse locuzioni che variamente forniscono la nozione di quel carattere – generalmente, nella dimensione del processo, in forma negativa, cioè come assenza: di pregiudizio, di interesse in causa, di aspettative, di partito preso e così via – sono connaturate da sempre all’esercizio della funzione giudicante. Un giudice “parziale” è semplicemente un non-giudice[1]. Meno immediato è descrivere il concetto di imparzialità quando lo si riferisca a un organo come il pubblico ministero.

La differenza deriva, oltre che dal dato universalistico dell’attività del giudicare rispetto alla mutevolezza della figura dell’organo requirente, dal carattere cognitivo della funzione giurisdizionale[2], che si esprime in decisioni, sentenze. Carattere che naturalmente non è storicamente immutabile e che anzi cambia il proprio metodo al variare del modo di essere della funzione di applicazione e di interpretazione del diritto e, con essa, al variare del rapporto tra il giudice e la legge, come nel passaggio dall’esegesi testualistica o del diritto per fattispecie legali alla giurisprudenza per principi e al crescente peso dell’interprete, all’interno dello Stato costituzionale di diritto[3], ma che nell’essenza mantiene una direttrice costante, quella dell’esercizio di un compito di tipo conoscitivo, argomentato secondo la conformità a un sistema di principi e di norme, precostituiti o ricavati per via di interpretazione del diritto, che il giudice espone nella motivazione[4] del proprio provvedimento decisorio.

Questi caratteri essenziali sono esplicitati nella formula del giudice «terzo e imparziale» dell’art. 111 Cost. novellato nel 1999, simmetrica alla definizione dell’art. 6.1 della Cedu[5], in cui l’attributo della terzietà accentua il necessario distinguo concettuale rispetto alla posizione del pubblico ministero, che, se è (e deve essere) imparziale, non è terzo, essendo pur sempre parte, ancorché sui generis, nel processo[6].

La Costituzione menziona l’imparzialità, oltre che nel citato art. 111 con riferimento al solo giudice, anche nell’art. 97, con riferimento all’agire delle pubbliche amministrazioni. Ciò ne esclude l’attinenza con l’ufficio del pubblico ministero, che non è pubblica “amministrazione”, sia soggettivamente, sul piano dell’ordinamento, poiché il pm, magistrato, partecipa come tale del potere giudiziario e del relativo assetto (artt. 102, 104, 105, 106, 107), sia obiettivamente, sul piano della funzione, poiché esso, anche quando ha di mira una determinata conclusione del procedimento e del processo, in attuazione dell’art. 112 Cost., non cura interessi pubblici concreti, di scopo, né pondera esigenze contrapposte in vista della realizzazione di volta in volta di un determinato obiettivo affidato alla cura del potere pubblico, questo essendo il senso della declinazione di imparzialità riguardante l’amministrazione[7].

In breve, quanto al pubblico ministero, il testo costituzionale, se da un lato tace riguardo all’attributo di imparzialità, dall’altro lato menziona espressamente l’organo requirente con la previsione di una riserva di legge organica di ordinamento giudiziario, nell’art. 107, quarto comma («Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario»), così manifestando sul piano descrittivo la scelta di compromesso, talvolta definita ambigua, del Costituente, che ha lasciato aperta la questione controversa della esatta collocazione e delle caratteristiche del pubblico ministero all’interno del potere giudiziario, in particolare per ciò che concerne l’indipendenza esterna[8].

La riserva dell’art. 107, quarto comma, Cost., secondo un orientamento, quale previsione speciale rispetto alle altre del titolo IV che riguardano la magistratura, avrebbe «decostituzionalizzato» la materia, consentendo quindi al legislatore ampia libertà di manovra quanto alle condizioni di indipendenza del pm, alla sola condizione di un intervento sulla legge di ordinamento, operando per tale via un abbassamento del livello – da costituzionale a ordinario – dell’insieme delle garanzie dell’organo[9]. Sulla scorta di questa premessa, l’analisi ricostruttiva dello statuto del pm e, per quanto qui interessa, della sua caratteristica di imparzialità, sul se e sul come, dovrebbe muovere dall’esame della legislazione di ordinamento (e, secondo alcuni, anche della normativa processuale) per farne derivare quali siano e come si atteggino i caratteri dell’indipendenza/imparzialità[10].

Per delineare la cornice nella quale collocare la figura del pm appare invece corretto considerare in primo luogo il disegno costituzionale nel suo complesso, al livello dei principi, per trarne, nei limiti del presente documento, le coordinate fondamentali dell’organo quanto allo statuto e al grado di indipendenza del pm, e ciò sulla duplice premessa: (a) della lettura delle norme di legge primaria, siano esse di ordinamento o processuali, alla luce della Costituzione, non viceversa; (b) soprattutto, della qualificazione dell’indipendenza – cui ha principale riguardo la Carta e la sua interpretazione da parte della Corte costituzionale – quale presupposto indispensabile dell’imparzialità, secondo quanto la medesima Corte ha affermato già mezzo secolo fa (Corte cost., n. 128/1974).

Un magistrato “dipendente” – da altri poteri, da direttive politiche, da variabili esigenze contingenti – non potrebbe essere pienamente imparziale, per il solo fatto di farsi veicolo di quei poteri e interessi; mentre è ben possibile che un magistrato indipendente possa, in concreto, essere parziale, cioè mosso nell’agire da ragioni soggettive, o comunque risultare tale, anche in ragione di precedenti attività svolte nella giurisdizione; ma a risolvere questi casi sono deputate le regole endoprocessuali sull’incompatibilità e quelle sull’astensione/ricusazione, che non rilevano per una definizione costituzionale di imparzialità dell’organo requirente, collocandosi a valle, quali precipitati e non quali fondamenti della nozione.

In detta prospettiva, il tracciato dell’interpretazione costituzionale risulta complessivamente lineare.

In estrema sintesi, la lettura isolata della riserva di ordinamento posta dall’art. 107 cede il passo a una considerazione di sistema, in cui i capisaldi, per quanto riguarda il pubblico ministero, sono costituiti dal principio di obbligatorietà dell’azione penale – predicato del principio di uguaglianza – e dalla inclusione dell’organo all’interno della giurisdizione. La formula dell’art. 107 delinea già di per sé una regola di “competenza”, che esclude che possa darsi una disciplina dello statuto del pm esterna all’assetto della giurisdizione. Dunque, il pm è inevitabilmente un magistrato, parte integrante del potere giudiziario, unitariamente considerato nelle limitazioni poste, appunto, a tutela dell’imparzialità (come il divieto di iscrizione partitica, art. 98 Cost.) e al quale sono accordate le garanzie funzionali e di stato definite negli artt. 104 (ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere), 105 (per la attribuzione esclusiva al Csm delle condizioni di status e della competenza disciplinare), 106 (per l’accesso), 107, commi primo e terzo (quanto all’inamovibilità e alla distinzione solo per diversità di funzioni), onde il corollario della lettura dell’art. 108, sulla indipendenza del pm presso le giurisdizioni speciali, come base dell’argomento a fortiori, pena l’irrazionalità di un sistema con un pm “comune” dipendente e uno “speciale” indipendente. È una linea, quella appena detta in poche parole, che attraversa un arco di tempo ampio e che si consolida anche indipendentemente dal modello processuale (penale) di riferimento, segno che si tratta di connotati costitutivi della figura del pm che prescindono in larga parte dallo schema processuale nel quale esso si trova a svolgere la propria funzione. Corte cost., n. 190/1970, afferma che «si deve riconoscere che il pubblico ministero, in via di principio, non può essere considerato come parte in senso stretto. Magistrato appartenente all’ordine giudiziario, collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere, egli non fa valere interessi particolari, ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge: persegue, come si usa dire, fini di giustizia»[11]. E Corte cost., n. 96/1975, richiamando il precedente, sviluppa l’idea nel senso che «il pubblico ministero – anche se non è investito del potere decisorio onde non può qualificarsi giudice in senso stretto – è, comunque, anch’egli un magistrato, come dimostra la collocazione degli articoli della Costituzione che lo riguardano (in particolare da 104 a 107)» e, pertanto, «nel concetto di “giurisdizione” (…) deve intendersi compresa non solo l’attività decisoria, che è peculiare e propria del giudice, ma anche l’attività di esercizio dell’azione penale, che con la prima si coordina in un rapporto di compenetrazione organica a fine di giustizia e che l’art. 112 della Costituzione, appunto, attribuisce al pubblico ministero».

È conseguenziale la definizione del pm come organo di giustizia, che agisce nell’interesse oggettivo dell’ordinamento (Corte cost., nn. 1 e 375/1996)[12]. Interesse generale all’osservanza della legge, quindi, già enunciato nei precedenti del 1970 e del 1975, che si focalizza nell’attribuzione della titolarità e dell’obbligo di esercizio dell’azione penale, secondo l’art. 112 Cost., quale previsione che risulta la chiave di volta della configurazione costituzionale del pm[13]. Il principio di obbligatorietà è fattore concorrente (Corte cost., n. 84/1979) o costitutivo (Corte cost., n. 420/1995) dell’indipendenza del pm nell’esercizio della funzione, quest’ultima trovando fondamento in quel principio dell’art. 112, definito come il “punto di convergenza” di un complesso di principi di base del sistema costituzionale, in quanto è dal principio di legalità che sorge il dovere di repressione delle violazioni della legge penale, senza differenziazioni, così che l’esigenza imperativa di uguaglianza dei cittadini porta con sé il carattere della doverosità dell’agire affidato all’organo (Corte cost., n. 88/1991)[14], ciò che ricollega pertanto l’obbligatorietà dell’azione sia al principio di legalità sia alla garanzia di una uniforme e imparziale applicazione della legge (Corte cost., n. 230/2022)[15]; tutto ciò dando conferma della tesi secondo cui è l’uguaglianza il vero fondamento costituzionale dell’imparzialità[16], questa essendo strumentale a quella.

Allargando lo sguardo, l’accennato quadro espresso dall’interprete costituzionale trova rilevanti conferme nelle indicazioni in campo internazionale e sovranazionale, secondo previsioni di indirizzo, di soft law, ma talvolta anche di carattere normativo.

Un’ampia serie di atti avvalora l’affermazione, che esprime un sentire comune nei Paesi in cui ha spazio la rule of law e che va oltre il distinguo tra i vari sistemi giuridici, anche quando caratterizzati dalla facoltatività dell’azione penale e nonostante le indiscutibili divergenze di carattere strutturale dei diversi ordinamenti[17].

Si tratta di indicazioni e raccomandazioni che troviamo espresse, ad esempio, nella cd. Carta di Roma[18], che registra la transizione del pm da organo di legalità a «organo di giustizia, promotore dei diritti»[19] che agisce «in nome della società e nell’interesse pubblico per rispettare e proteggere i diritti dell’uomo e le libertà» previsti nelle Carte dei diritti fondamentali, al fine di garantire un’amministrazione della giustizia equa, imparziale ed efficiente, da cui l’esigenza della piena indipendenza del pm come corollario dell’indipendenza dell’intero potere giudiziario e, al contempo, l’aggancio a una legittimazione democratica dell’organo attraverso l’essere realmente indipendente e il dare conto alla collettività della propria attività; ovvero nel parere n. 13/2018 del Consiglio consultivo dei procuratori (CCPE) su «Indipendenza, accountability ed etica del pubblico ministero», del 23 novembre 2018, che rimarca l’esigenza di indipendenza del pm rispetto al potere esecutivo, pena l’incrinatura della legittimità del suo intervento nell’interesse della società e a garanzia del rispetto della legge; o nella raccomandazione n. 19/2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che tratteggia la necessaria indipendenza del pm dal potere esecutivo e la correlativa imparzialità in vista della funzione di vigilare, anche qui a nome della società e nell’interesse generale, sull’applicazione della legge; oppure, ancora, nella cd. “Dichiarazione di Bordeaux” su «Giudici e Procuratori in una società democratica»[20], secondo cui giudici e pm debbono essere entrambi indipendenti e imparziali, giacché «Il ruolo distinto, ma complementare dei giudici e dei procuratori è una garanzia necessaria per una giustizia equa, imparziale ed efficace».

Anche nella dimensione eurounitaria emerge una conforme linea di indirizzo: in particolare, con la creazione della Procura europea (EPPO), modellata nelle fonti istitutive[21], per molti aspetti, sulla configurazione del pm italiano quanto a requisiti di indipendenza nello svolgimento dell’attività oltre che nelle garanzie di stato, tanto da costituire un modello che realizza una occasione di espansione verso altri Paesi dell’idea e dei valori che appunto caratterizzano il pm nell’esperienza italiana[22]. Si tratta di una nuova dimensione, nazionale ed europea al contempo, di pubblico ministero, che appare fonte di cambiamento su scala più ampia, collocando le garanzie di indipendenza e di imparzialità a un livello sovranazionale, verso un possibile modello europeo dell’ufficio, argine di derive involutive in atto in alcuni Paesi dell’Unione.

Analogamente, non è senza significato, a testimonianza di un sentire comune nel quadro delle istituzioni di democrazia costituzionale e rispettose della rule of law, che anche in ambito propriamente internazionale gli statuti delle corti dispongano prescrizioni di indipendenza piena dell’organo requirente[23].

Si può quindi formulare una prima conclusione di assieme, quella che tiene insieme organo requirente e organo giudicante nella dimensione unitaria del potere giurisdizionale, contrassegnato dal metodo dell’imparzialità quale portato della comune indipendenza da qualsiasi condizionamento che non sia il vincolo al rispetto della legge.

Ciò non assimila affatto le due figure né altera i loro rispettivi contorni; le differenze esistono e sono ovvie ed evidenti nella diversificazione del ruolo che ciascuna figura istituzionale riveste nel processo (Corte cost., n. 52/1976: «la Costituzione ha distinto gli organi del pubblico ministero da quelli della giurisdizione e, nell’art. 112, ha attribuito al pubblico ministero la titolarità dell’azione penale, che è ben diversa dalla potestà di giudicare») e, d’altra parte, la formula di sintesi del pm quale “organo di giustizia”, espressa nella lettura costituzionale sintetizzata, non equivale al ripristino della impostazione di segno inquisitorio del pm quale duplicato del giudice nella fase istruttoria, dotato di poteri di decisione cautelare e capace di una acquisizione probatoria direttamente versata al giudice. La formula linguistica non autorizza una implicazione di contenuto di questo genere né entra in frizione con la accresciuta connotazione di parte procedimentale e processuale assegnata al pm[24], bensì sta ad esprimere la cornice all’interno della quale occorre che l’attività del requirente si svolga; così, l’irriducibilità del compito dell’uno all’altro dà ragione della sicura impossibilità per il pm di sollevare l’incidente di costituzionalità, effetto specifico dell’assenza in questi di una funzione di giudizio in senso stretto, ossia di un rapporto immediato con il diritto applicabile al fine di adottare una determinazione finale.

Estranea, allora, a un’opzione di tipo ideologico[25], come pure a un’astratta e quindi superflua etichetta in vitro[26], quella locuzione di organo di giustizia, al pari delle varie altre – parte imparziale, parte neutrale, etc. – spese variamente per definire la composita figura, denota il necessario accostamento del pm allo Stato-comunità (alla Repubblica, come da specificativo dell’ufficio) in luogo dell’idea di ufficio astretto da vincoli gerarchico-burocratici, appunto in quanto l’alternativa dell’inquadramento della figura del pm deve sciogliersi in ragione di quella che è la (sola) configurazione idonea a garantire il binomio indipendenza/imparzialità. Non è neppure un “modello” di pm, storicamente variabile, ciò che quella formula sottintende, ma un connotato dell’agire, un metodo appunto, che è la premessa da cui derivano le conseguenze in ordine alla conformazione organizzativa e all’esercizio del potere di azione nell’ambito del processo.

Nato come controllore del giudice in rapporto di dipendenza dal (e nell’interesse del) potere esecutivo, il pm oggi ha spezzato quel legame e fa parte appieno del contesto della giurisdizione, operando in essa per realizzare null’altro che l’applicazione del diritto. 

 

2. Il significato del canone dell’imparzialità per il pubblico ministero, tra organizzazione e azione e tra merito e legittimità

La cornice ora descritta esprime il modo di agire del magistrato del pubblico ministero in termini generali, ma quel dovere occorre che abbia forme operative e che si eserciti in un contesto normativo, sia processuale che organizzativo, definito e coerente rispetto al carattere di indipendenza e di imparzialità.

Ciò apre a una duplice prospettiva di disamina: da un lato, si tratta di considerare se la regolazione legislativa di ordinamento giudiziario, cui ha riguardo l’art. 107, quarto comma, Cost., sia in linea con la garanzia costituzionale in discorso, intesa non soltanto come tutela per il singolo magistrato, ma come esigenza strumentale al servizio di giustizia, perché rivolta a mantenere l’attività requirente immune da torsioni e da alterazioni del metodo imparziale nel suo esercizio, e questo primo profilo involge il tema, oggetto di ampie oscillazioni nel tempo recente, dell’indipendenza interna e della strutturazione organizzativa della figura dell’ufficio requirente; dall’altro lato, si tratta di valutare se l’impianto della legge processuale avvalori o contraddica il connotato di imparzialità della figura, di cui si è detto.

 

2.1. L’organizzazione

Circa il primo aspetto, è nota – e non è necessario ripercorrerla in dettaglio – la parabola legislativa che, muovendo inizialmente dall’impostazione gerarchica “pura” dell’originario art. 70 ord. giud., dopo una serie di temperamenti intermedi[27] ha visto l’impianto gerarchico nuovamente proposto dalla “riforma Castelli” (d.lgs n. 106/2006) collocarsi via via su moduli meno verticistici di quanto in essa previsto, in parte in virtù della “legge Mastella” (n. 269/2006), ma soprattutto per effetto dell’attività di normazione secondaria del Csm, con una serie di risoluzioni e di circolari[28], segnatamente con quella del 16 novembre 2017 in tema di organizzazione degli uffici di procura, fino a pervenire ora allo sbocco della disciplina primaria posta dalla “riforma Cartabia” (l. n. 71/2022, art. 13), con la quale è giunto a compimento un complesso itinerario che, per sintesi, è stato definito di “tabellarizzazione” dell’organizzazione del pubblico ministero[29], secondo una linea quindi di (relativa) assimilazione organizzativa tra pm e giudice. Senza pervenire a una regolazione dell’ufficio pari a quella degli uffici giudicanti, la normativa ha recepito l’impianto e lo spirito delle citate determinazioni consiliari, stemperando la precedente “verticalità” dell’assetto del pm attraverso modalità partecipate e condivise di adozione dei progetti organizzativi e con la indicazione degli obiettivi generali dell’agire dell’ufficio, nell’osservanza del canone fondamentale di legalità (comma 1), vale a dire il corretto, puntuale e uniforme esercizio dell’azione penale, l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato e il rispetto delle norme sul giusto processo da parte dell’ufficio (comma 2); all’interno delle linee di principio ora dette, al titolare dell’ufficio è demandata la determinazione delle misure appropriate di uso delle risorse, dei criteri di assegnazione e revoca dei procedimenti e – punto cruciale – dei criteri di priorità di trattazione delle notizie di reato, questi ultimi nel quadro della cornice costituita da criteri generali affidati alle scelte del legislatore (comma 6, lett. b).

Si è parlato, per questa configurazione, di una «gerarchia funzionale»[30], nella quale alla direzione di vertice si accompagna, appunto, una funzionalizzazione del ruolo dirigente verso l’applicazione di criteri omogenei, frutto di interlocuzione nel circuito del governo autonomo (con l’indirizzo preventivo e l’approvazione successiva dei progetti da parte del Csm), sorretti dalle istanze di legalità e di uniformità dell’azione, in una sorta di pendant concettuale con la funzione di coordinamento affidata dall’art. 6 d.lgs n. 106/2006 agli uffici requirenti dei distretti e con l’impulso del Procuratore generale della Corte di cassazione: l’una rivolta all’esercizio uniforme – imparziale – dell’attività requirente, oltre che nei singoli procedimenti, nell’ambito della realtà territoriale di riferimento, l’altra mirata a impedire disparità orizzontali e su più vasta scala, lesive dei canoni dell’uguaglianza e del primato della legge. Si potrebbe sintetizzare questa evoluzione come l’emersione del coordinamento e della omogeneità delle prassi in luogo del comando gerarchico.

Indipendentemente dalle possibili notazioni problematiche che ancora possono svolgersi in ordine al sistema così delineato, ai fini del test di coerenza con l’esigenza costituzionale dell’imparzialità dell’organo sembra doversi pervenire a un esito di segno positivo, atto a superare i dubbi di conformità a Costituzione della precedente conformazione gerarchica dell’ufficio del pm in quanto tale da intaccare il minimum di indipendenza interna imposto dall’assetto sistematico della Carta[31] e ad assegnare una veste al passo con i tempi alle formule larghe dell’originario impianto dell’ordinamento giudiziario del 1941, segnatamente all’art. 73. L’assetto, formalmente gerarchico, nel senso dell’esistenza di una direzione di vertice, è però indirizzato a scelte organizzative e di uso delle risorse congruenti con le finalità costituzionali – l’azione uniforme, il giusto processo –, così che il potere affidato, risultato di procedimenti di discussione e confronto interno ed esterno, tiene conto delle plurime esigenze, limitazioni e garanzie che lo attorniano, dall’autonomia dei magistrati (art. 107 Cost.) espressa nei meccanismi di assegnazione, revoca e distribuzione degli affari, all’esercizio imparziale dell’attività nel suo complesso (artt. 111 e 112 Cost.). Si tratta quindi di un modello complessivamente in linea con i principi costituzionali[32], che trova eco ad esempio nella giurisprudenza del giudice delle leggi, là dove attribuisce all’ufficio del pm nella sua interezza le garanzie che presidiano l’indipendenza dell’organo (Corte cost., n. 52/1976), e che esclude sia solipsismi di vertice – veicoli per transitare l’assetto delle procure verso forme di lesione dell’indipendenza esterna e di soggezione a poteri altri, di per sé antagoniste dell’imparzialità – sia pure spontaneismi del potere diffuso, privi di coordinamento con le finalità più generali che al potere requirente sono correlate. In particolare, su quest’ultimo aspetto, deve essere sottolineata l’emersione sistematica di una esigenza duplice, polarizzata tra ragioni di uniformità e prevedibilità dell’agire – le quali impongono coordinamento, predefinizione di obiettivi e di regole operative conformi alla legge processuale (art. 1, comma 2, e art. 6 d.lgs n. 106/2006, come novellato dalla riforma del 2022) – e necessità di scelte investigative e di esercizio dell’azione.

L’esigenza della uniformità e prevedibilità si atteggia in maniera parzialmente diversa rispetto al giudice, perché per quest’ultimo essa si manifesta nell’attività di giudizio e perciò si incentra sui temi del valore e dell’efficacia del precedente, dell’ambito dell’interpretazione giuridica e del linite di estensione della libertà interpretativa, garantita dalla soggezione soltanto alla legge (art. 101 Cost.) ancorché temperata da vincoli giuridici interni al processo[33]; per il pm, invece, la focale dell’esigenza di uniformità e uguaglianza si colloca prima dell’interpretazione del diritto, nell’agire dell’ufficio quanto alle determinazioni che precedono il processo, dunque nell’indagine e nella sua conduzione verso l’opzione tra azione e non-azione, fase anch’essa collocata sotto la copertura di principio dell’art. 112 Cost. (Corte cost., n. 88/1991). Per il pubblico ministero, i caratteri dell’organizzazione condizionano quindi in maniera più marcata rispetto al giudice i presupposti del suo agire. Caratteristica del pm è quella di svolgere un compito pratico, operativo: acquisire la notizia di reato, valutarne la plausibilità, svolgere l’indagine con la direzione della polizia giudiziaria, formulare domande cautelari e di ricerca della prova soggette alla verifica nelle “finestre” di controllo del giudice per le indagini preliminari, dare infine impulso al processo per ivi svolgere un compito dialettico più strettamente di parte, e questo assieme di attività ne denota la «componente materiale di modificazione della realtà»[34]; il pm è «più organo dell’azione, che di interpretazione»[35], ed è appunto per questo tratto che assume specifica importanza una definizione del modo di operare del pm che ne renda l’agire da subito coerente con le prescrizioni di principio e costituzionali richiamate.

Tale esigenza trova sede anche nell’elaborazione della cd. nomofilachia delle prassi, cioè in quegli strumenti di coordinamento affidati alla Procura generale della Cassazione e alle procure generali dei distretti dall’art. 6 d.lgs n. 106/2006 per realizzare una tendenziale uniformità di approccio all’azione, nell’ottica della prevedibilità dei provvedimenti e della certezza – ancorché relativa – del diritto, a tutela non dell’istituzione, ma dei cittadini[36].

Ma, come per il giudice l’evoluzione dell’ordinamento multilivello ne accresce il compito di interpretazione e applicazione del diritto, così per il pubblico ministero le stesse condizioni evolutive – oltre alla persistente ipertrofia della materia penale – ne determinano l’espansione dell’ambito di attività, rendendo recessive le idee di ridimensionamento del ruolo della giurisdizione, rispetto agli altri poteri, ruolo che non è una variabile indipendente ma che è in diretta correlazione con quella stessa accresciuta esigenza di giustiziabilità e di garanzia crescente dei diritti e con la insufficienza dell’appello alla sola legalità formale. La discrezionalità interpretativa del giudice si appaia alla discrezionalità dell’agire del pubblico ministero, e ciò implica inevitabilmente delle scelte e la previsione di criteri che presiedano ad esse. 

Entra dunque in gioco il delicato tema del rapporto tra discrezionalità e principio di obbligatorietà dell’azione ex art. 112 Cost., che investe il fondamento della legittimazione dell’azione del pm e la relativa responsabilità.

Senza poter qui affrontare a fondo il complesso tema[37], ai fini della riflessione sull’imparzialità del pm, ritengo sia sufficiente constatare che è entrata nel patrimonio comune l’idea dell’impossibilità di un esercizio dell’azione “sempre e comunque”, non solo per limitatezza di risorse e squilibrio tra numeri e capacità di gestione degli stessi, quanto soprattutto per l’irragionevolezza di una prospettiva, per così dire, “onnivora”. Già Corte cost., n. 88/1991 aveva del resto tracciato questa linea[38]. Linea che si è allargata, dall’ambito del singolo procedimento, verso un piano di politica generale della giurisdizione, nella necessità di individuare i criteri di priorità dell’esercizio dell’azione, in una prospettiva di obbligatorietà «sostenibile», per usare le parole del Csm[39], e ciò si salda concettualmente anche con una nuova e diversa conformazione del compito “prognostico” cui è chiamato il pm nel procedimento (vds. infra).

Qui è sufficiente dire che la riforma portata dalla legge n. 71/2022 dà base normativa a questa esigenza di selezione cronologica e non numerica, del resto messa in atto da tempo presso tutti gli uffici requirenti del Paese: i criteri in discorso divengono elemento necessario del modulo organizzativo dell’ufficio, soggetto (nuovamente) all’approvazione del Csm e nel quale devono essere individuate e selezionate le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, in relazione a parametri stabiliti per legge – e cioè tenendo conto del carico di affari da trattare, delle specificità territoriali e della criminalità che vi opera, nonché delle risorse disponibili (art. 1, comma 6, lett. b d.lgs n. 196/2006) –, ma ciò «nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge»; a cascata, è prescritta la conformazione del singolo magistrato dell’ufficio ai criteri posti nel documento di organizzazione (art. 3-bis disp. att. cpp). La inevitabile discrezionalità unanimemente riconosciuta all’agire del PM si incanala su direttrici predefinite, frutto di un dialogo e di una collaborazione istituzionale orizzontale (con il dirigente dell’ufficio giudicante di riferimento, con l’avvocatura, con il consiglio giudiziario) nonché della interlocuzione con l’organo di governo autonomo che ne approva l’adozione all’esito della valutazione delle eventuali osservazioni del Ministro della giustizia. Così, si accentua il tratto di discrezionalità tecnica dell’operato del requirente, quale connotato del dovere istituzionale espresso dall’art. 112 Cost., assegnando invece all’istanza parlamentare la discrezionalità – politica, appunto – della determinazione della cornice dei criteri generali.

È presto per apprezzare l’innovazione, non essendo ancora adottata la legge-cornice in parola; ma si può azzardare una valutazione, sotto il profilo della riduzione della tensione istituzionale tra giurisdizione e politica, una volta che a quest’ultima sia affidata non solo l’approvazione della legislazione penale, che a essa compete, ma anche l’individuazione dei campi (si può pensare all’ambiente, al codice rosso, ai reati economici, ai delitti di criminalità organizzata, a quelli informatici e così via) e dei livelli (edittali o secondo altro parametro) in cui è necessaria un’iniziativa più tempestiva del pubblico ministero, secondo un disegno che risulta confermare l’analisi in base alla quale, senza indulgere a visioni astratte, ma confrontandosi con la realtà: (a) da un lato, nei contesti delle democrazie costituzionali si assiste a un progressivo avvicinamento tra la figura di pubblico ministero che agisce secondo opportunità, ossia usufruendo di una discrezionalità che è però orientata da linee-guida prestabilite, e la figura dell’organo requirente che si muove bensì in una dimensione di obbligatorietà, ma “temperata e realistica”; (b) dall’altro, la riduzione del divario tra le due precondizioni – discrezionalità/obbligatorietà – porta a superare i luoghi comuni della totale arbitrarietà dell’iniziativa discrezionale del pm e, in connessione, della necessità di abolire il presidio dell’obbligatorietà, perché – si dice – inutile e superato nei fatti[40].

D’altra parte, l’accennata linea dell’ordinamento risulta, a ben vedere, congruente con la natura di principio costituzionale dell’obbligatorietà, che, mentre irradia la propria portata e il proprio significato sugli istituti posti dalla legislazione comune, imponendone una lettura armonica ad esso e impedendo l’immissione di istituti e regole di fonte primaria tali da contraddirlo, appunto in quanto principio è suscettibile di una valutazione e composizione con esigenze – in questo caso, della giurisdizione e dei cittadini che vi accedono – anch’esse aventi copertura costituzionale, tra cui ad esempio la durata ragionevole del processo, o la garanzia di diritti fondamentali di libertà individuale, come la libertà personale, la privacy, la libertà di comunicazione. Il nucleo duro dell’art. 112, ancora una volta, rimanda all’esigenza – questa non bilanciabile – dell’uguaglianza, ma “uguaglianza” non significa trattamento eguale e indifferenziato di casi tra loro diversi, ed è a questa logica che fisiologicamente la previsione dei criteri di priorità deve rispondere.

 

2.2. L’azione

L’altra dimensione problematica dell’imparzialità declinata per il pm è quella che si manifesta all’interno del procedimento e del processo, con l’attività e l’azione dell’organo nel suo concreto svolgersi presso il giudice. 

Si è accennato sopra al distinguo concettuale tra l’esercizio cognitivo del giudice e la prevalente connotazione pratica dell’attività del pm (di merito), in particolare prima delle – e fino alle – determinazioni sull’azione in giudizio, trattandosi di un’attività in cui, se certamente non mancano aspetti di interpretazione (sulle ipotesi penalmente rilevanti, sulla sussistenza di esimenti, su profili procedimentali), tuttavia, è apparsa predominante una discrezionalità qualificata da scelte strettamente legate alla dimensione del fatto: se iscrivere oppure no una notizia, e quando; in quale verso indirizzare l’indagine, con quali supporti e mezzi di ricerca della prova; come profilare un’accusa da portare dinanzi al giudice assistita da adeguato materiale investigativo di conferma della stessa. In questi momenti dell’agire si esprime il tasso di discrezionalità assegnato alla funzione dell’organo requirente e, di conseguenza, è l’atteggiarsi delle norme e delle prassi pertinenti che dà la misura del grado di effettiva imparzialità dell’agire del pm. 

Il tema eccede la portata della presente riflessione. Tuttavia, è possibile delineare una linea di tendenza dell’ordinamento che vale a ridurre la forbice di quella distinzione pm/giudice e ad avvicinare, invece, da un peculiare punto di vista, il percorso dinamico della funzione requirente a quella del giudizio, così privando quantomeno di sostenibilità talune sottolineature astratte circa l’accento posto esclusivamente sul ruolo di «parte» del pm, rivolte in sostanza a promuovere esiti di separatezza istituzionale e ordinamentale (su cui infra, par. 4) in vista del rientro dell’organo nell’alveo di un altro potere, che è generalmente e tradizionalmente l’esecutivo (non essendo invero ipotizzabile una scissione del pm dall’ambito della giurisdizione senza una ricollocazione presso un altro potere istituzionale, quasi si trattasse di una funzione sospesa nel vuoto, o interstiziale).

Si vuol dire, in sintesi, che anche la legge processuale, che definisce il modo imparziale e conforme a diritto di agire per il pubblico ministero, appare oggi più che nel passato orientata a pretendere dal pm opzioni e valutazioni – in diritto, non solo in fatto – che possono riconoscersi analoghe, nella struttura e nel loro manifestarsi, a quelle che appartengono all’attività cognitiva del giudice. La riforma recata a numerosi istituti del rito dal d.lgs n. 150/2022, per quanto qui rileva, ha toccato gli accennati snodi nevralgici della discrezionalità valutativa del pm intervenendo, tra l’altro: (a) sulla disciplina dell’iscrizione della notizia di reato, sia quanto ai presupposti sostanziali sia quanto al tempo, essendo ora sottoposta l’iscrizione a controllo giurisdizionale postumo e con la possibilità di retrodatazione, incidente sui termini di indagine (artt. 335, 335-ter, 335-quater); (b) sul criterio della scelta tra azione e inazione (archiviazione), anche attraverso strumenti di controllo sull’inerzia dell’organo (avocazione, art. 412 cpp) nonché sulla tempestività delle determinazioni conclusive del pm (artt. 415-bis e 415-ter cpp, art. 127 disp. att. cpp).

Le condizioni dell’iscrizione immediata della notizia, più stringenti, esigono ora un apprezzamento circa la rappresentazione di un fatto «determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice» e, quanto all’iscrizione nominativa, esigono che risultino indizi – non semplici sospetti – a carico della persona; e al PM è data la possibilità di un ripensamento ex post, con la retrodatazione dell’esordio del termine per l’indagine.

Il criterio di giudizio in merito alla scelta tra l’azione e l’inazione, soprattutto, viene ridefinito attraverso un distinguo di carattere prospettico. Non si tratta più della previsione della sostenibilità dell’accusa in giudizio, come da abrogato art. 125 disp. att. cpp, criterio che in definitiva ratificava una scelta di agire imperniata sull’iniziativa “dovuta” al pari della iscrizione da cui aveva origine, ma, ora, della proiezione circa l’idoneità del quadro degli elementi raccolti a sostenere un esito di condanna, come da nuova formulazione dell’art. 408 cpp. L’infondatezza della notizia di reato, che tuttora definisce la rubrica dell’art. 408 e che comporta la richiesta di archiviazione, si colloca in una dimensione diversa, giacché il pubblico ministero è tenuto ad assumere un punto di vista cognitivo, anche se di natura prognostica, orientando la propria determinazione verso il risultato, e non l’ingresso, della fase processuale. Il pm deve mettersi nei panni del giudice e in questa mutata prospettiva risiede una rilevante trasformazione del suo ruolo, poiché l’azzardo di proporre una imputazione caduca e di attivare così un processo inutile vede innalzarsi l’asticella del rischio. In tale meccanismo proiettivo, il canone valutativo fondamentale espresso nella disposizione che il pm è chiamato ad applicare è quello della ragionevolezza, che, da principio di tono costituzionale applicato per la valutazione della costituzionalità intrinseca di una norma, entra nel procedimento penale impegnando l’organo requirente a collocarsi in un segmento processuale avanzato, a mettere le lenti del giudice – analogamente a quanto fa il giudice dell’udienza preliminare, ex art. 425, comma 3, cpp – e a considerare se l’attività svolta abbia la consistenza necessaria per dire non solo possibile ma probabile un risultato del giudizio nel senso della affermazione di responsabilità. Nell’esercizio di tale operazione prognostica è il sistema a offrire le coordinate di una simile operazione concettuale, poiché in quella valutazione, che il pm è chiamato ad adottare entro i termini di indagine, egli dovrà (ragionevolmente) tener conto anche degli istituti che, nel giudizio, dirottano un possibile esito di condanna in astratto verso soluzioni liberatorie in concreto, connesse cioè a situazioni diverse dalla sola considerazione della fattispecie incriminatrice, come la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cp – che chiama a una considerazione di fattori esterni o successivi alla condotta – e, forse, come l’accesso a istituti quali l’estinzione per remissione implicita della querela in sede di cd. giustizia riparativa o la messa alla prova con effetto estintivo ex art. 168-bis cp[41].

Il mutamento di visuale è profondo. Indipendentemente dalla considerazione che se ne voglia dare sul piano teorico e su quello della politica repressiva dei reati[42], sembra indubbio che l’assetto ora sintetizzato avvicini fortemente il modo di essere del pm a quello del giudice, proprio nel momento essenziale dell’agire del primo, ossia all’atto di assumere la scelta sull’iniziativa penale. Il pm chiede al giudice un giudizio ch’egli stesso deve formulare in forma provvisoria, anticipata, allo stesso modo in cui una parte chiede al giudice una pronuncia facendo valere una posizione soggettiva tutelabile secondo diritto e che sia sostenibile in causa. La regola di valutazione diviene comune a parte pubblica e giudice e ciò, oltre a profilare un possibile ripensamento sulla persistente esistenza nel sistema di un favor actionis[43], assimila i caratteri di imparzialità delle due rispettive funzioni all’interno del processo.

Se è così, non solo ne viene rafforzata l’idea tutt’altro che marginale di un’appartenenza comune alla cultura della giurisdizione, ma ne viene meglio definita anche la prescrizione dell’art. 358 cpp, che fonda il dovere del pm di svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini. Nell’accennata ottica prognostica, ora imperniata sulla potenziale e ragionevole conclusione dell’iter processuale, questa disposizione, riflessa in una corrispondente regola deontologica (art. 13 del codice etico dei magistrati, del 13 novembre 2010[44]) benché non assistita da sanzione processuale per il caso in cui non sia rispettata[45], acquista una concretezza che spesso in precedenza era stata messa in dubbio, perché considerata quale espressione di paternalismo o di una contraddizione intrinseca, di un pm parte processuale che fa e disfa operando contemporaneamente in due direzioni antitetiche[46]. Proprio nel raccordo con il criterio di scelta tra azione e inazione, la prescrizione in discorso esprime semplicemente la necessità, per un pm che guardi in proiezione oltre la soglia dell’indagine, di sottoporre a test di resistenza e di attendibilità l’ipotesi investigativa e accusatoria, così che l’art. 358 si ricollega coerentemente a quanto stabilisce l’art. 326 cpp, essendo evidentemente necessaria quella verifica globale degli elementi per poter corrispondere alla finalità dell’indagine preliminare, che è quella di porre le basi per la determinazione sull’esercizio o meno dell’azione.

Sembra allora che il quadro specifico della odierna disciplina processuale si caratterizzi anch’esso nel segno di una discrezionalità non già rivolta verso se stessa, ma attenta alla posizione di chi è coinvolto, decantando la presunta contraddizione del pm tra l’essere una parte e il dovere di imparzialità, e rafforzando la natura di organo di giustizia dello stesso, quale ufficio il cui obiettivo è la ricerca della verità (processuale) e l’attuazione della legge, a garanzia di un interesse della collettività intestato a un soggetto pubblico che non potrebbe operare nel procedimento altrimenti che come «parte», dinanzi e presso il giudice, in posizione di monopolio[47] quanto alla titolarità di tale potere di azione (Corte cost., n. 114/1982). 

Essere imparziale equivale semplicemente – ma certo faticosamente, poiché è compito complesso – a rispettare l’assetto descritto, che, sotto altro profilo, avvicina la figura del pm penale alla sua corrispondente funzione nella materia civile, generalmente meno analizzata in dottrina.

È nel campo civile che la definizione del pm come «organo di giustizia» ha trovato inizialmente spazio[48]. Ciò è derivato dall’esame dei casi, definiti in maniera stretta dalle norme processuali (artt. 69-72 cpc), nei quali al pubblico ministero è attribuito un potere – tassativo – di azione o di intervento, in un campo tendenzialmente caratterizzato dalla disponibilità dei diritti e dalla iniziativa privata per la correlativa tutela; azione e intervento, infatti, sono rimessi al pm in settori nei quali si staglia un’opzione legislativa di interesse, in ragione della loro natura: cause in materia di famiglia e di stato delle persone, procedimenti relativi alla protezione di minori o di soggetti deboli a vario titolo.

Senza dover analizzare nel dettaglio la disciplina, frammentata in diversi istituti e norme del codice e di leggi speciali[49], per ciò che interessa in questa disamina è significativo osservare che, anche nel campo civile, l’“ambiguità” della figura, portatrice di un interesse pubblico e al contempo atteggiata come parte nel processo, ha indotto a fornirne classificazioni tra loro differenti ma unite dalla necessità di comporre quella stessa ambiguità, nella luce della funzione di vigilanza («veglia») all’osservanza della legge attribuitagli dall’art. 73 ord. giud. Così, di volta in volta, il pm è stato descritto bensì tecnicamente come una parte – affidataria, talvolta, di una posizione sostitutiva rispetto al titolare del diritto azionato –, ma funzionalmente un interprete degli interessi pubblici, ovvero una figura avente un ruolo consultivo-collaborativo del giudice, o ancora quale organo prossimo al giudice perché schiettamente giurisdizionale, o ancora quale ufficio intermedio tra giudice e parte, o infine – appunto – quale organo di giustizia[50].

È interessante constatare il percorso di avvicinamento e di uniformazione della figura nei due ambiti, tradizionalmente separati, della materia penale e di quella civile. Nell’una, l’interesse al rispetto della legalità penale si esprime in una generale obbligatorietà di azione mediante un organo affidatario del potere, alle condizioni e nei limiti detti; nell’altra, gli interessi pubblicistici di rilievo non minore – la continuità imprenditoriale, le relazioni parentali, etc. – trovano un “rappresentante” processuale che se ne fa doverosamente portatore[51]; nel rispetto, nell’uno come nell’altro contesto, della regola ne procedat iudex ex officio.

La convergenza di obiettivi – non di funzioni – nel segno della comune imparzialità e finalità di attuazione del diritto, tra pm che chiede e giudice che dispone, appare chiara, infine, se si esamina il ruolo del pubblico ministero in sede di legittimità.

 

2.3. La legittimità

In sede di legittimità, infatti, la comunanza di obiettivi e, con essa, la corrispondenza di metodo nella funzione di applicazione del diritto si manifesta piena. Il pubblico ministero, dinanzi alla Corte di cassazione, sia nella materia penale che in quella civile, assume esattamente il punto di vista della corretta applicazione del diritto, nei termini in cui è affidato al giudice.

Qui, allora, la soggezione alla legge (art. 101 Cost.) si manifesta identica per l’organo requirente e per quello giudicante. L’interpretazione e applicazione esatta – o, se si preferisce, nel quadro della crescita della componente interpretativa nella giurisprudenza per principi, la più esatta possibile – del dato normativo che l’ordinamento giudiziario, nell’art. 65, indica quale compito proprio del giudice di legittimità, si appunta allo stesso modo sul pubblico ministero, nelle sedi in cui è prescritto[52] o consentito[53] il suo intervento, che ha di mira la medesima finalità nomofilattica.

L’apporto del pm di legittimità è del tutto indipendente anche da quelle che sono state le conclusioni degli uffici requirenti nei gradi precedenti, in sede penale, poiché egli svolge con piena libertà di valutazione, senza vincoli, il compito di proporre alla Corte di cassazione la soluzione legittima, conforme a Costituzione e ai principi, senza avere di mira un determinato risultato concreto che non sia quello della adozione di una sentenza giusta, perché giuridicamente valida[54].

Vi è dunque complementarietà e sintonia di intenti, tra PM e giudice, nella comune direttrice della imparziale attuazione del diritto e, per questo, la locuzione “organo di giustizia” più volte richiamata si adatta specificamente al pm della Cassazione, vale a dire al soggetto che – privo di poteri di impulso processuale – coopera con la Corte facendosi portatore dell’interesse pubblico alla difesa del diritto e della sua unità, sia che si tratti di annullare una decisione viziata per ragioni sostanziali o processuali, sia che occorra prospettare una nuova lettura del dato legislativo. Se il pm nel merito, come si è detto, guarda all’esito possibile del giudizio come prospettiva di condanna, assumendo il punto di vista del giudice sul piano della valutazione del fatto e del diritto che a quel fatto è applicabile, il pm nella legittimità assume il punto di vista del giudice cui accede, in un rapporto dialettico con questi e indipendente dalle posizioni delle parti private coinvolte.

Una finalità “promozionale” di diritti, quella in esame, che si arricchisce e sviluppa nell’ambito di istituti come la proposizione dell’istanza per l’enunciazione del principio di diritto (art. 363 cpc) ovvero con la sollecitazione a una simile enunciazione in caso di inammissibilità sopravvenuta dell’impugnazione in cassazione (art. 618, comma 3, cpp), nei quali è evidente la natura di contributo esclusivamente rivolto all’interpretazione giuridica e all’orientamento futuro della giurisdizione su un determinato tema; o come il nuovo strumento della revocazione delle decisioni passate in giudicato per accertata violazione di una norma della Cedu (art. 391-quater cpc), in cui l’attribuzione al Procuratore generale della Cassazione della legittimazione ad attivare detto istituto (art. 397, comma 2, cpc) fa risaltare il riconoscimento al pm di un ruolo attivo nella garanzia di diritti, in questo caso di rango sovranazionale, nell’ottica di una coordinata evoluzione della giurisprudenza in un contesto di costituzionalismo integrato su più livelli; o, ancora, come nella prevista forma “rafforzata” dell’intervento in sede di udienza di trattazione di un rinvio pregiudiziale (art. 363-bis cpc), dove è richiesta dalla disposizione una conclusione scritta del pubblico ministero, in relazione al connotato di nomofilachia “preventiva” e di indirizzo che è proprio di questo nuovo istituto. La previsione innovativa della pubblicità delle conclusioni del pm sul sito della Corte, quale contributo di discussione nella comunità dei giuristi (art. 137-ter disp. att. cpc), completa l’idea.   

Non appare necessario andare oltre[55] per considerare che, presso il giudice di legittimità, la direzione dell’attività del pubblico ministero è armonica a quella del giudice, tanto da profilarne una sostanziale assimilazione alle figure che nelle corti europee svolgono compiti analoghi[56].

 

3. Essere e apparire. Le responsabilità

L’insieme dei compiti che sono stati ricordati fin qui definisce anche il confine dell’imparzialità, nel come e nel quando, che il pm deve rispettare esercitando i compiti che la legge gli affida: così, sarà imparziale un magistrato requirente che effettuerà l’iscrizione solo quando saranno raggiunti indizi di reità nei confronti di taluno, che svolgerà le indagini sottoponendo autonomamente a controprova l’ipotesi dell’accusa da formulare, che proporrà il giudizio quando avrà raccolto elementi adeguati perché un giudizio si svolga con probabilità ragionevoli di condanna; e sarà imparziale il pubblico ministero di legittimità che, scevro dagli interessi sottostanti, formulerà alla Cassazione richieste coerenti con la norma applicabile, nell’interpretazione portata fino al suo limite intrinseco. Non si tratta solo dell’osservanza legalistica o formale dei doveri professionali disegnati in astratto, il che è ovvio, ma della declinazione dell’imparzialità in concreto, proprio perché quelle disposizioni che attribuiscono talvolta ampie scelte discrezionali, ambiti di valutazione, possibilità ermeneutiche su tutti gli aspetti di fatto e di diritto che confluiscono nel processo, hanno carattere strumentale ed esigono che ne venga garantita l’applicazione perché sia realizzato, di volta in volta, il fine di imparzialità dell’agire giudiziario. L’imputato o la parte che abbiano conoscenza del rispetto di quelle prescrizioni considereranno di avere ricevuto un giudizio o subito un processo di carattere imparziale. 

Accanto all’imparzialità realizzata, è noto, vi è l’imparzialità rappresentata e percepita, e ciò coinvolge il tema della “apparenza” e dei suoi aspetti, in particolare quello della comunicazione, istituzionale o personale, e della manifestazione di opinioni da parte del magistrato.

Il tema è antico e ha visto momenti di particolare tensione istituzionale, legati a stagioni ricorrenti di contrapposizione tra la giurisdizione e altri poteri, e la letteratura in materia è amplissima. Credo sia possibile delimitare la visuale sulla base di una considerazione pratica: quella secondo cui esiste un contesto di previsioni normative e paranormative relativamente recenti, che permette di collocare il tema su terreni regolati, così offrendo un contesto meno contingente, e che permette di identificare le regole di fondo circa l’imparzialità obiettiva che il magistrato, specie quello del pubblico ministero, è tenuto a manifestare nell’esercizio delle sue libertà in ragione della fiducia di cui è accreditato presso cittadini e utenti; fiducia che costituisce, del resto, il fondamento di legittimazione del “terribile” potere che gli è attribuito.

Si possono tracciare schematicamente, e per estrema sintesi, le seguenti acquisizioni.

(a) Apparire, per chi eserciti una funzione nel campo della giustizia, è rilevante quanto l’essere, secondo una moltitudine di affermazioni della giurisprudenza, costituzionale e sovranazionale[57].

Le apparenze hanno importanza, in primo luogo, per la Corte Edu, che, previa distinzione tra una dimensione soggettiva e una oggettiva dell’imparzialità[58], numerose volte ha indicato l’esigenza di tutela di tale aspetto esterno e obiettivo dell’imparzialità sulla base del reiterato principio secondo il quale occorre non solo che giustizia sia fatta, ma che appaia anche che giustizia sia stata fatta[59]. L’assieme dei principi convenzionali posti negli artt. 6, 9 e 10 della Cedu, nella convergenza tra imparzialità della giurisdizione, libertà di pensiero e di espressione, porta a ricercare punti di equilibrio tra i diritti all’informazione dell’opinione pubblica sulle questioni di interesse generale, inclusa la giustizia, attraverso la stampa[60] e i media, la reputazione da accordare alla giurisdizione e il dovere di riserbo generale dei magistrati, aspetto quest’ultimo che – ferma la libertà di espressione – consente di porre limiti di contenuto e di forma, nell’ottica della bilanciata proporzione con l’esigenza di preservare autorità, indipendenza e imparzialità degli appartenenti all’ordine giudiziario. Detta esigenza comporta, per la Corte europea, che il riserbo dei magistrati permanga anche quando si tratti di critiche o provocazioni di cui sono destinatari[61]. Pendant del dovere di riserbo è il dovere del sistema di apprestare strumenti di protezione dagli attacchi infondati dei poteri o di singoli, così da rendere legittimo accordare ai magistrati un livello più elevato di tutela rispetto ad altri soggetti, appunto in quanto le accuse di imparzialità intaccano oltre al singolo la fiducia della collettività nell’istituzione. Su questa linea di tutela del magistrato meritano attenzione alcuni indirizzi che, riferiti a contesti di regressione democratica, allargano lo spazio espressivo e critico del magistrato anche verso istituzioni o sistemi dei quali egli fa parte, quando vi sia ragione di una critica politica o giuridica di interesse generale a fronte di intimidazioni (cd. “chilling effect”) suscettibili di condizionare proprio l’imparzialità e l’indipendenza della giurisdizione, casi in cui la limitazione espressiva – normalmente richiesta in condizioni “fisiologiche” a tutela dell’imparzialità – si trasforma nel suo opposto, in quanto finisce per costituire essa un vulnus alla indipendenza del potere giudiziario – Corte Edu [GC], Baka c. Ungheria, 23 giugno 2016.

La Corte costituzionale, d’altra parte, ha enucleato i punti fermi della tematica in parola.

Quanto alla libertà espressiva e comunicativa in generale, è arcinota la pronuncia n. 100/1981, punto di riferimento di ogni analisi sul tema: i magistrati – dice la pronuncia – godono degli stessi diritti di libertà dei cittadini, tra cui la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), ma le funzioni da loro esercitate non sono indifferenti per l’ordinamento costituzionale e perciò quelle libertà incontrano limiti, posti o desumibili da altri precetti della Carta. I valori suscettibili di entrare in gioco sono quelli che impegnano i magistrati a un esercizio indipendente e imparziale (artt. 101 e 104) e che, come tali, rilevano non solo nell’esercizio della funzione, ma anche come «regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento, al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità nell’adempimento del loro compito. I principi anzidetti sono quindi volti a tutelare anche la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione; assicurano, al contempo, quella dignità dell’intero ordine giudiziario (…) che si concreta nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa». L’esito di questo bilanciamento si traduce nella linea prescrittiva della legittima compressione della libertà solo quando di essa si faccia abuso, «esercizio anomalo».

Parallelamente, quanto alla libertà di partecipazione politica, che si raccorda alla libertà di pensiero e di espressione, la Corte costituzionale ha avvalorato la restrizione posta dalla normativa disciplinare (art. 3, comma 1, lett. h, d.lgs n. 109/2006) con il divieto di iscrizione a un partito politico o con il suo equivalente di fatto della partecipazione sistematica e continuativa all’attività partitica. Con due pronunce, nn. 224/2009 e 170/2018, essa ha considerato che detto divieto ha fondamento costituzionale; anche qui, al pieno riconoscimento dei diritti di libertà propri di ogni cittadino, si accompagna la considerazione della rilevanza della funzione svolta, che non è indifferente per l’ordinamento: «la Costituzione consente che il legislatore ordinario introduca, a tutela dell’imparzialità e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, il divieto di iscrizione dei magistrati ai partiti politici (…) in quanto, nel disegno costituzionale, l’estraneità del magistrato alla politica dei partiti è un valore di particolare rilievo, che mira a salvaguardare l’indipendente esercizio delle funzioni giudiziarie (…) dovendo il cittadino essere rassicurato sul fatto che l’attività del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, non sia guidata dal desiderio di far prevalere una parte politica» (n. 224/2009, c.vo aggiunto). Il valore dell’imparzialità unito alla constatazione della delicatezza della funzione assume rango preminente, in linea con il precedente di Corte cost., n. 100/1981, e si sviluppa nella successiva decisione del 2018: il divieto è ragionevole nel quadro dell’art. 98 Cost. perché esprime il bilanciamento – demandato dalla Costituzione al legislatore – tra la libertà dei magistrati di associarsi in partiti e l’esigenza di assicurarne l’indipendenza e l’imparzialità, anche davanti all’opinione pubblica, al fine di impedire i condizionamenti dell’attività giudiziaria che potrebbero derivare dal legame stabile che i magistrati contrarrebbero iscrivendosi a un partito o partecipando in misura significativa alla sua attività. È ribadita la doverosità di tutelare i caratteri di indipendenza e di imparzialità in ogni momento e in ogni comportamento di rilievo pubblico dei magistrati, tra cui il legame stabile e organico con un’organizzazione di partito, che comprometterebbe non solo l’indipendenza e l’imparzialità, ma «anche [l’]apparenza di queste ultime»[62] (c.vo aggiunto). Trova così spazio l’idea di speciali doveri di chi svolge la professione di magistrato, irriducibile interamente alla sfera dei funzionari pubblici (Corte cost., n. 172/1982), quale modo di espressione della necessaria credibilità dell’agire giudiziario (Corte cost., n. 289/1992), incrinata obiettivamente dalla “doppia fedeltà” del magistrato alla Repubblica e a una organizzazione partitica. 

(b) Nella considerazione del quadro regolativo della materia, poi, entrano in gioco previsioni di soft law o propriamente deontologiche.

Quanto a queste ultime, si tratta del codice deontologico dei magistrati, aggiornato il 13 novembre 2010. Vi si stabilisce, oltre al rispetto dei valori di imparzialità e indipendenza (art. 1), l’obbligo di particolare cautela nei rapporti con i media (art. 6)[63], quello di garantire sia dentro che fuori dell’ordine una «immagine di imparzialità e di indipendenza» (art. 8), con l’impegno di assicurare «che nell’esercizio delle funzioni la sua immagine di imparzialità sia sempre pienamente garantita» (art. 9). Con specifico riguardo al pm, questi «si comporta con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo. Indirizza la sua indagine alla ricerca della verità acquisendo anche gli elementi di prova a favore dell’indagato e non tace al giudice l’esistenza di fatti a vantaggio dell’indagato o dell’imputato. Evita di esprimere valutazioni sulle persone delle parti, dei testimoni e dei terzi, che non siano conferenti rispetto alla decisione del giudice, e si astiene da critiche o apprezzamenti sulla professionalità del giudice e dei difensori» (art. 13).

Ampio, poi, è il novero delle raccomandazioni e direttive poste da organismi consultivi in sedi sovranazionali, prive di portata cogente ma valevoli come essenziali punti di riferimento e di orientamento. I pareri e le raccomandazioni del Comitato consultivo dei procuratori europei presso il Consiglio d’Europa hanno specifico rilievo: tra tali atti, la raccomandazione CCPE n. 19/2000, che si è occupata per prima del tema in discorso dal punto di vista dell’esigenza di corretta informazione esterna, cioè nel rapporto PM-pubblico, enucleando il più moderno punto di vista sulla questione, dell’informazione come dovere e del riserbo come concomitante obbligo del magistrato; la già citata Dichiarazione di Bordeaux (parere congiunto tra CCPE e CCJE), del 18 novembre 2009[64]; la raccomandazione n. 11/2012 sul ruolo del pm al di fuori dei sistemi di giustizia penale; il parere n. 8 del 9 ottobre 2013, «Sui rapporti tra il pubblico ministero e i mezzi di informazione», che, tra l’altro: (i) impegna gli Stati a realizzare una politica dell’informazione per fare sì che i media abbiano accesso a informazioni adeguate, per informare – ancora, si noti, come dovere – il pubblico sul lavoro del pm, anche attraverso linee-guida da includere nei codici di comportamento dei procuratori; (ii) esige un rapporto tra pubblico ministero e media basato sul rispetto reciproco, la fiducia, la responsabilità e il rispetto per le decisioni giudiziarie; (iii) richiede un impegno reattivo dei pm quanto alle richieste dei media, ma anche un approccio cd. proattivo, con iniziative autonome di informazione su eventi giudiziari di rilievo; (iv) individua nella comunicazione dell’ufficio la minimizzazione del rischio che le attività del pm siano personalizzate e che, corrispondentemente, lo siano le critiche dell’opinione pubblica, cosicché le reazioni rispetto a informazioni inesatte o a campagne di stampa scorrette verso i pm dovrebbero, di conseguenza, essere veicolate dal titolare dell’ufficio o da altra autorità di vertice; ancora, il parere n. 9 del 17 dicembre 2014 (cd. “Carta di Roma”), in cui si afferma che «I procuratori godono del diritto alla libertà di espressione e di associazione. Nelle comunicazioni che intercorrono tra i procuratori e i media dovrebbero essere rispettati i seguenti principi: la presunzione di innocenza, il diritto alla vita privata e alla dignità, il diritto all’informazione e alla libertà di stampa, il diritto ad un giusto processo, il diritto di difesa, l’integrità, l’efficacia e la riservatezza delle indagini, così come il principio di trasparenza» (punto IX)[65].

Non mancano, infine, regole di indirizzo poste dall’organo di governo autonomo, tra cui le linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale (delibera Csm, 11 luglio 2018), da coordinare ora con la sopravvenuta regolazione del d.lgs n. 188/2021 (vds. infra), in cui sono predicati i valori della trasparenza e della comprensibilità dell’agire giudiziario, e che ha specifico riguardo alle modalità pratiche che definiscono una comunicazione imparziale, equilibrata e misurata («non meno della presentazione di una decisione giurisdizionale») oltre a dettare alert di specifica attenzione verso i soggetti coinvolti. 

(c) All’estremo di questa rete di prescrizioni o di riferimenti operativi stanno, da un lato, le regole del processo a tutela del segreto investigativo e della riservatezza sugli atti e sui contenuti dell’attività di indagine poste dal codice di rito; dall’altro, la regolazione disciplinare, che individua le violazioni pertinenti al tema della libertà comunicativa dei magistrati. Si tratta delle fattispecie di illecito poste dall’art. 2, comma 1, lett. u e v del d.lgs n. 109/2006, relative rispettivamente alla violazione del segreto o della riservatezza nel procedimento o nel processo e alle dichiarazioni pubbliche o alle interviste concernenti gli affari giudiziari trattati dal magistrato[66].

Quella dell’ultima parte della lett. v, che richiama le disposizioni del d.lgs n. 106/2066 sull’organizzazione del pubblico ministero, tiene ora conto delle modifiche apportate a quest’ultimo testo dalla disciplina di attuazione della direttiva UE n. 343, del 9 marzo 2016, in tema di presunzione di innocenza (d.lgs n. 188/2021). Le regole poste da detta normativa si imperniano sulla comunicazione con gli organi di informazione affidata al titolare dell’ufficio del pm, da effettuarsi tramite comunicati stampa o, nei casi rilevanti di pubblico interesse, conferenze stampa, ed è stabilito che la divulgazione di informazioni sui procedimenti penali è permessa solo quando sia strettamente necessaria per l’indagine o altri motivi di interesse generale, con oneri di specificità e sempre con il rispetto della presunzione di innocenza dell’indagato o imputato; parallelamente, è stabilito il divieto per i singoli magistrati dell’ufficio requirente di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie circa l’attività giudiziaria dell’ufficio. A loro volta, queste previsioni debbono tenere conto di eventuali specificità del singolo caso, come le regole in tema di privacy[67].

Questo complessivo reticolo di previsioni appresta un quadro, al contempo di principio e di indicazioni di dettaglio, che dovrebbe decantare il tasso di problematicità della materia. Non mancano di certo aspetti poco nitidi della disciplina[68] e la necessità di una armonizzazione di esigenze non sempre coincidenti rimane attiva come, per tutte, il disequilibrio tra i vincoli comunicativi della magistratura, specie requirente, rispetto alla libertà di azione non tanto dei media, ciò che costituisce un principio di garanzia a sua volta fermo negli indirizzi sovranazionali (vds. Corte Edu, Sedletska c. Ucraina, 1° aprile 2021, sul diritto alla confidenzialità delle fonti giornalistiche), ma anche di altri soggetti che a vario titolo hanno accesso ai dati. Tuttavia, la riflessione su questi argomenti non si svolge più in una sorta di vuoto normativo[69], in particolare per ciò che riguarda i temi della responsabilità – anche disciplinare – e del dovere di informazione che prende il posto della libertà sostanzialmente negativa su cui in precedenza si imperniava la discussione. 

Per il pubblico ministero, più ancora che per il giudice, è oggi richiesta e anzi imposta un’apertura all’informazione, interesse fondamentale della comunità sociale, e di tale informazione sono abbondantemente enucleati i modi di realizzazione (correttezza, rispetto della dignità, sobrietà) e i contenuti suscettibili di divulgazione (con i limiti del segreto e della riservatezza), appunto perché rilevanti nell’ottica del servizio, non della autopromozione individuale.

Attraverso l’applicazione di volta in volta del quadro indicato, adattato al singolo caso, appare allora possibile per il magistrato del pm evitare di alimentare una pressione mediatica, che tutti conosciamo, originata nella giustizia penale dalla collocazione del baricentro dell’attenzione verso la fase iniziale dell’indagine, ben prima del processo, origine a sua volta del costituirsi del parallelo processo sui media, con derivate istanze tra giustizialismo appagato da informazioni magari destinate a essere contraddette in prosieguo e impropria spettacolarizzazione e banalizzazione, in linguaggi narrativi sommari, del difficile compito del rendere giustizia; processo dinanzi al tribunale mediatico che, è stato esattamente notato, rischia di alterare lo svolgimento di quello reale[70]

Il mutato approccio al tema ha, in definitiva, ricollocato la materia, sempre delicata e complessa, su di un terreno più intelligibile e praticabile: le regole – il come e il quando delle iniziative di divulgazione e informazione – debbono essere applicate alla luce dei principi di trasparenza, chiarezza, imparzialità. La linea direttiva del comunicare guarda al destinatario della comunicazione, non al soggetto che la offre, e vale quindi a svolgere una funzione di garanzia più larga, non autoritaria, relegando ai margini le persistenti ancorché isolate tendenze alla instaurazione di opache relazioni privilegiate e di scambio con i media[71], indifferenti al senso di garanzia della comunicazione sull’attività di un ufficio pubblico che amministra giustizia.

Le considerazioni che precedono riguardano, ovviamente, l’espressione comunicativa che attiene all’attività giudiziaria e alla funzione rivestita, con specifico riguardo al pm. Al di fuori di essa sta lo spazio di libertà del magistrato come cittadino, in cui la garanzia dell’art. 21 Cost. è piena e in cui le indicazioni desumibili dal contesto normativo possono entrare in gioco nella dimensione deontologica, là dove essa si occupa delle relazioni tra il magistrato e la società al di fuori dell’agire giudiziario. In tal caso, l’incidenza di una manifestazione di opinione anche politica rispetto ai valori descritti in tanto potrebbe dirsi esistente, e causalmente incidente in senso pregiudizievole sull’essere imparziale, in quanto si possa istituire un nesso temporale e appunto causale, immediato e diretto, tra opinione e specifica vicenda giudiziaria alla cui trattazione è chiamato il magistrato, e ciò conformemente alla giurisprudenza che richiede, per potersi ipotizzare un qualsivoglia “sospetto” in capo al magistrato, che possa dirsi rilevante al fine dell’applicazione degli istituti processuali dell’astensione e ricusazione, la effettiva e non vaga individuazione di un interesse attuale e concreto rispetto all’esito del processo, laddove le convinzioni personali e ideali del magistrato non possono come tali costituire ragione di pericolo di deficit dell’imparzialità (che, si ricorda, è presunta, secondo la Corte Edu)[72]. È nota, del resto, l’obiezione secondo cui, essendo il magistrato una persona vivente, che ha relazioni familiari, stipula contratti, subisce illeciti e così via, sarebbe irragionevole pretendere che non abbia ad occuparsi di alcun procedimento in cui quegli stessi argomenti e quelle questioni entrano in gioco, quasi a pretesa di un irreale magistrato empty-headed.

Quanto fin qui accennato chiama in causa il connesso profilo della responsabilità: disciplinare, nei casi – tipizzati – in cui vi sia violazione delle residuali prescrizioni negative poste dal d.lgs n. 109/2006; deontologica, quando la manifestazione comunicativa risulti non conforme ai canoni e alle clausole generali indicate dalle previsioni del codice etico; professionale, quando al di là delle due precedenti sia ravvisabile una non corretta messa in opera dei meccanismi comunicativi e delle regole di gestione dettate in via secondaria (questo aspetto coinvolge essenzialmente i titolari di funzioni direttive). Fermo restando, comunque, che occorre mantenere salda la strutturale differenza tra i primi due tipi di responsabilità, evidente già nella fonte che ne pone le regole: la legge, per il campo disciplinare, in quanto la responsabilità di questo tipo non ha dimensione corporativa interna all’ordine ma esprime un interesse generale al regolare svolgimento della funzione, da cui l’attribuzione al Parlamento del compito di definirne i contorni e inoltre la garanzia di un procedimento strettamente giurisdizionale per l’accertamento e l’applicazione delle sanzioni; l’ordine stesso, invece, per il campo deontologico, quale formulazione di una griglia di prescrizioni di condotta, bensì autorizzata dalla legge (art. 58-bis d.lgs n. 29/1993), ma dichiaratamente priva di efficacia generale[73].

In breve. Al conflitto tra posizioni di diritto (individuale) e di limiti dello stesso, che è l’ottica “solitaria” nella quale a lungo è stato collocato il tema in discorso, è emerso nella cultura della giurisdizione un diverso criterio di identificazione dei termini della questione, basato su una coppia di doveri: (a) quello di informazione sull’attività e sul servizio, come dovere di ufficio, il che dovrebbe far abdicare da posizioni di difesa del soggettivismo comunicativo incentrate sulla posizione attiva individuale, uti cives, per la inconciliabilità logica e giuridica di una posizione attiva/pretensiva quando si tratta di un dovere funzionale, categoria quest’ultima alla quale del resto si attaglia il connotato della discrezionalità, incongruo invece quando si tratti di diritti individuali; (b) quello di riservatezza come prescrizione generale di condotta, strumentale a prevenire incrinature dell’immagine di imparzialità, sul versante dell’apparenza di cui si è detto.

Questo stesso percorso, attento alle esigenze e ai diritti – più che del magistrato – della collettività che alla giustizia guarda o si rivolge, vale al contempo a superare la connessa, anacronistica diatriba sul presunto dovere di silenzio del magistrato[74]. Riserbo e correttezza comunicativa non equivalgono a silenzio, in primo luogo; e, a ben vedere, il datato modello del magistrato che “parla solo con i provvedimenti” si colloca in antitesi, ma nella stessa dimensione soggettivistica rispetto alla rivendicazione dell’assoluta libertà di espressione sempre e comunque[75]; una polarità datata e che, secondo la messe di riferimenti che si sono ricordati, è ricusata da tutta la produzione normativa che riguarda il tema in esame. 

Il binomio potere/responsabilità indirizza questo secondo polo verso la necessità e doverosità di una comunicazione, una spiegazione; e se questa comunicazione e spiegazione del proprio agire, per il giudice, può anche passare per il veicolo tecnico della motivazione che assiste, per Costituzione, tutti i provvedimenti giurisdizionali[76], per il pubblico ministero, che normalmente non ha poteri decisori ma ne ha di impulso, di richiesta[77] al giudice, con impatto sulle persone, il circuito di comunicazione deve essere ricercato altrove.

Per il pubblico ministero, questo “altrove” è definito dall’assieme delle norme – in senso estensivo – fin qui menzionate. Le varie forme di rendicontazione della propria attività attuate in via di prassi, ad esempio, con i bilanci di responsabilità sociale degli uffici giudiziari requirenti, esprimono l’accennata natura della responsabilità intesa come accountability, nell’ottica di un doveroso controllo della collettività che vale anche a prevenire abusi o deviazioni nell’esercizio della giurisdizione; e al di là della solennità dell’occasione, potrebbe in fondo assegnarsi analoga funzione, quella del “rendere conto” all’opinione pubblica, alle relazioni e agli interventi inaugurali di apertura dell’anno giudiziario. 

A conclusione del discorso, può svolgersi una duplice considerazione che attiene all’esperienza. Al di là della verve polemica e della drammatizzazione che da tempo accompagna il dibattito sul tema della manifestazione del pensiero dei magistrati, specie del pubblico ministero, intorno a casi e vicende della dimensione giudiziaria, non è inutile la constatazione che il numero delle contestazioni disciplinari formulate con riguardo a violazioni del dovere di riserbo (dichiarazioni, interviste, etc.) si colloca su un livello estremamente modesto. Nel 2022, si tratta del 2,1% del totale delle contestazioni (136) e, nel 2023, dello 0,73% del totale (144), quindi di tre e di un caso, rispettivamente[78].

Benché si tratti di un dato ristretto alla dimensione disciplinare e, dunque, a vicende che superano la soglia etico-deontologica, nella quale si colloca generalmente la maggioranza dei casi che alimentano il dibattito, esso è comunque indicativo della complessiva limitatezza dei reali episodi di grave trasgressione dei doveri riferiti alla dimensione del comunicare da parte della magistratura.

Di contro, l’accentuazione esponenziale della tematica nel dibattito pubblico potrebbe, più nel fondo, individuare la propria causa in un carattere specifico che riguarda chi eserciti una funzione di giustizia, definito come “eccedenza di significato” di ogni discorso che riguardi il diritto e coloro che lo applicano: riflesso dell’idea del potere diffuso, ciò significa – come è dato constatare nel quotidiano – che ogni comportamento e ogni decisione del singolo magistrato impegna l’intero ordine giudiziario, coinvolge il valore da cui dipende la legittimità della professione, cioè la giustizia; così che l’errore o il negativo comportamento di uno divengono errori e comportamenti negativi della giurisdizione intera, intaccando l’idea di diritto e di giustizia che vive nel senso comune[79]

 

4. Brevi spunti (critici) di riflessione per il futuro

A chiusura delle considerazioni svolte, che di certo non esauriscono la complessità del tema, occorre interrogarsi se il percorso che si è cercato di descrivere – sintetizzabile nella progressiva, crescente integrazione tra ruolo del pm e visione del giudice, nella contemporaneità della distinzione di ruolo processuale in contraddittorio (art. 111 Cost.), ma nella comune appartenenza ordinamentale (artt. 104, comma 1, e 107, comma 3, Cost.) in funzione dell’obiettivo ultimo della giustizia, che non risponde a un interesse né dell’uno né dell’altro ma è rivolto a rendere una verità su fatti e accadimenti, verità scevra da torsioni e inquinamenti indotti dalla parzialità dell’uno o dell’altro soggetto pubblico – sia improvvisamente rimesso in discussione e quali ne possano essere le implicazioni.

Il riferimento è alle diverse proposte di riforma costituzionale in corso di discussione.

Le brevissime notazioni che possono farsi, rinviando a più articolate analisi sulla generalità degli interventi riformatori che si propongono[80], attengono in particolare ai punti nei quali le proposte di revisione costituzionale manifestano unanimemente gli obiettivi di: (a) separare le carriere di pm e giudici, attraverso un ordine giudiziario scisso tra magistratura giudicante e requirente, con accessi separati e duplice organo di autogoverno; (b) «decostituzionalizzare» il principio di obbligatorietà dell’azione penale, affidando alla legge i casi e i modi di detto obbligo; (c) abolire il principio di distinzione dei magistrati soltanto per diversità di funzioni (abrogando l’art. 107, comma 3, Cost.).

Il rilievo critico che qui si esprime e che accomuna i tre punti è quello della frattura che essi apportano al disegno costituzionale nel quale l’organo del pubblico ministero attualmente si colloca e assume i tratti di un organo imparziale sul piano ordinamentale, strutturato in modo da essere prossimo – in quel rapporto di integrazione, non assimilazione, espresso dai precedenti costituzionali – al giudice nella direzione dell’accertamento di verità, non certo nel ruolo svolto nel processo.

Nel disegno riformatore e nelle motivazioni che lo sorreggono, quali espresse nelle relazioni di accompagnamento, è manifestata l’idea che la disarticolazione sul piano organizzativo e strutturale (con il doppio Consiglio superiore e con le connesse varianti di accesso, formazione e gestione), unita alla riproposizione di un assetto verticistico implicita nell’abrogazione del terzo comma dell’art. 107 Cost., che fonda il carattere diffuso del potere giudiziario nella sua totalità, siano implicazioni necessarie della veste di parte acquisita dall’organo requirente nell’ambito processuale e della conformazione – si sostiene – del giusto processo delineata dall’art. 111 Cost.; l’allontanamento processuale imporrebbe l’allontanamento ordinamentale.

Ad avviso di chi scrive, si tratta di una impropria sovrapposizione di piani distinti, il cui risultato finisce per essere quello di costituire una frattura netta nel percorso storico che, tra oscillazioni e aggiustamenti, ha condotto il sistema verso la conformazione odierna, che, se non perfetta, esprime però il modo di attuazione del disegno costituzionale della separazione dei poteri e dell’affidamento a quello giudiziario del compito ineliminabile di garanzia dei diritti secondo il parametro dell’uguaglianza.

L’affermazione della pienezza del contraddittorio e della parità delle armi nel processo, peraltro predicabile ben prima della riforma dell’art. 111, attiene al modo in cui il modello accusatorio definisce facoltà e poteri dell’una e dell’altra parte, pubblica e privata, contrapposti nella dimensione dialettica ma in cui il pm è orientato dalla tensione per la ricerca di una verità finale e per l’applicazione imparziale del diritto, non difforme da quella che basa il giudizio fattuale e giuridico del giudicante, come si è detto più sopra nel ricordare l’itinerario normativo giunto fino al d.lgs n. 150/2022 e alle mutate caratteristiche della funzione prognostica del pm circa le scelte fondamentali (iscrizione, cautela, richiesta del giudizio) del proprio agire. È questo aspetto che consente di intestare al pm l’esercizio del dovere ex art. 112 Cost. quale garanzia della uniformità di risposta dell’ordinamento, ed è sempre per questo che la previsione dei criteri, legislativi e poi gestori, di priorità temporale nell’iniziativa è congruente con il carattere obbligatorio dell’azione, giacché definisce opzioni interne alla cornice dell’uguaglianza, nel senso già accennato della necessaria differenziazione là dove i casi (l’importanza del fatto, il rilievo del bene protetto, etc.) legittimino un distinguo tra ciò che è prioritario e ciò che non lo è. 

La retrocessione del principio dell’art. 112 al livello della legge è il punto di maggiore crisi di questa garanzia: mentre le opzioni prefigurate dall’assetto vigente all’esito della riforma Cartabia, secondo lo schema “legge-cornice/criteri generali/criteri specifici”, permettono uno scrutinio di conformità rispetto al fondamento costituzionale di tali scelte, passibili quindi di invalidità costituzionale qualora contraddicano la Carta, sul piano della uguaglianza, della ragionevolezza o della lesione di altri interessi di livello costituzionale, la riconduzione dell’obbligo ex art. 112 ai soli «casi e modi previsti dalla legge» non apporta, come si potrebbe pensare a prima vista, un semplice avallo o un’operazione di maquillage al sistema ex art. 13 l. n. 71/2022. Al contrario, essa ne erode il fondamento. I criteri di priorità, oggi, riguardano indicazioni operative di organizzazione, il come e il quando, non il se del dovere di accertamento della verità materiale, e il sistema così conformato consente, se vi sia distonia costituzionale, d’invalidare la legge cornice (nel giudizio di costituzionalità) o di correggere in via autonoma la quota di amministrazione organizzativa, cioè i criteri generali approvati dal Csm o quelli specifici dell’ufficio singolo; domani, l’affidamento integrale alla legge formale dei modi e casi in cui è obbligatoria l’iniziativa andrebbe ben oltre questo limite, a misura che affiderebbe a una decisione discrezionale dell’organo politico la possibilità di ritagliare ambiti legittimi di inazione, insuscettibili di un qualsiasi controllo e difficilmente sindacabili sul piano del giudizio di costituzionalità della legge, stante la ampia discrezionalità attribuita e stante il venir meno proprio del parametro costituzionale sul quale misurare un simile raffronto (a parte anche la difficoltà di ipotizzare una sede nella quale sollevare la questione, una volta che l’inazione abbia luogo). Da principio intimamente correlato all’art. 3 Cost., l’art. 112 si ridurrebbe a regola di vincolo conformativo per il pm alle determinazioni del potere politico e alle relative variabili nel tempo.

Da obbligatorietà “ragionevole” si passa a una obbligatorietà libera, un ossimoro.

Entra in crisi, in questo modello che viene proposto, l’esigenza essenziale dell’uguaglianza e, assieme, quella della razionalità della legge. Disegnando il pm esclusivamente come parte, cioè guardando solo al ruolo svolto nel contraddittorio processuale, si smarrisce il tratto funzionale e ordinamentale dell’organo di giustizia, piegato a logiche competitive (“l’avvocato dell’accusa”) che ne comprimono la visuale, oggi indirizzata a dare un contributo di verità e domani esclusivamente mirata a ottenere la punizione, in esatta controtendenza rispetto al percorso che si è ricordato più sopra. A margine, nonostante il silenzio sul punto, può dirsi anche plausibile l’attrazione dell’intera organizzazione requirente nel cono del potere esecutivo ovvero comunque a una soggezione alla dimensione politica, a un altro potere; anche perché, scisso dal terreno comune della giurisdizione, ma pur sempre delineato come potere, non è dato scorgere la possibilità di una collocazione aggiuntiva e autonoma nel disegno costituzionale, che non ha caselle vuote nella propria rappresentazione di equilibrio tra i poteri.

Così, ne verrebbe intaccata anche l’indipendenza e l’imparzialità del giudice. Il giudice è un potere “passivo”, non ha né deve avere capacità di iniziativa processuale, poiché è soggetto alla domanda, del pm o della parte. Restringere secondo criteri discrezionali attribuiti al potere politico l’area della domanda del pm determina un deficit di imparzialità per così dire di carattere derivato, in quanto il giudice sarà chiamato a svolgere il proprio esercizio di giustizia solo nei (modi e) “casi” stabiliti dal decisore politico. Una conseguenza ulteriore, questa, di un disegno spesso sorretto da argomenti contingenti, di “appiattimento” del giudice e di necessità di distanziamento culturale, che sembrano non tenere conto non solo della marginalità dei casi, criticabili, in cui ciò si verifichi, ma anche della ricomprensione di simili evenienze nell’orbita della violazione disciplinarmente rilevante, quale forma (ad esempio, con la tecnica del copia-incolla) di cessione della giurisdizione.

Non senza notare, da ultimo, l’ardua ricollocazione, all’interno del disegno così prospettato, dell’ufficio requirente di legittimità, la cui vocazione istituzionale interamente indirizzata al rispetto della legge e alla corretta applicazione del diritto, non certo a un interesse punitivo “di parte”, non sembra armonizzarsi con alcuna delle iniziative di mutamento del volto del pubblico ministero. 

 

 

1. L’imparzialità, per il giudice, è «la somma delle virtù»: N. Bobbio, Quale giustizia, quale legge, quale giudice, in Quale giustizia, n. 8, 1971, p. 268.

2. Vds. L. Ferrajoli, Dieci regole di deontologia giudiziaria, conseguenti alla natura cognitiva della giurisdizione, in Aa.Vv., Il procedimento disciplinare dei magistrati, Ssm, Quaderno n. 8, Roma, 2022, pp. 85-94.

3. Tema sterminato che non può essere qui nemmeno sfiorato, sul quale, da ultimo, E. Scoditti, Magistrato e cittadino. L’imparzialità dell’interprete in discussione, in Questione giustizia online, 22 novembre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/magistrato-e-cittadino-l-imparzialita-dell-interprete-in-discussione), ora in questo fascicolo.

4. Motivazione che costituisce lo strumento primo del controllo pubblico sull’attività del giudice e che per questo deve essere chiara, sintetica, quindi comprensibile, secondo una prescrizione di garanzia che ora trova esplicite basi nel sistema processuale. Cfr. ora gli artt. 121 cpc e 46 disp. att. cpc dopo la riforma ex d.lgs n. 149/2022, e il dm 7 agosto 2023, n. 110, riferiti peraltro anche agli atti del pubblico ministero. 

5. Anche se la previsione costituzionale definisce un carattere obiettivo della funzione giurisdizionale, mentre la Cedu mette l’accento sul carattere di diritto individuale verso l’autorità, conformemente all’impostazione del sistema convenzionale, necessariamente casistica a fronte della molteplicità di modelli processuali nei singoli ordinamenti. Si tratta ad ogni modo di un distinguo di prospettiva più apparente che reale, poiché il binomio indipendenza/imparzialità della funzione, la prima essendo presupposto della seconda (Corte cost., n. 128/1974) è sì una prerogativa del giudice, e dunque una garanzia a lui intestata, ma lo è in termini strumentali, cioè in vista della tutela di chi alla giustizia si rivolge o è soggetto. Si possono richiamare, sul punto, i pareri del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE), per cui, se «l’indipendenza della magistratura è una condizione preliminare dello Stato di diritto», poiché «i giudici sono incaricati delle decisioni finali sulla vita, le libertà, i diritti, i doveri e le proprietà dei cittadini (…) la loro indipendenza non è una prerogativa o un privilegio nell’interesse proprio, ma nell’interesse dello Stato di diritto e di coloro che cercano e si aspettano giustizia» (parere n. 1/2001) e dunque l’indipendenza, come pre-condizione di imparzialità, «offre una garanzia di uguaglianza dei cittadini» (parere n. 10/2007).

6. Parte pubblica, formale, o neutrale, secondo talune definizioni. Del resto, si è detto che «Il pubblico ministero (…) costituisce probabilmente il soggetto più emblematico e controverso del processo» – F. Ruggieri, Pubblico ministero (diritto processuale penale), in Enc. dir., Annali, II-1, Giuffrè, Milano, 2008. F. Dal Canto (Lezioni di ordinamento giudiziario, Giappichelli, Torino, 2018, p. 95) annota condivisibilmente che, sebbene la Corte costituzionale talvolta richiami terzietà e imparzialità quali sinonimi (come in Corte cost., n. 240/2003), si tratta di due concetti non sovrapponibili: la terzietà può dirsi la «forma più intensa dell’imparzialità», poiché «quest’ultima è tipica di tutti i magistrati, sia che svolgano funzioni giudicanti che requirenti, mentre la prima è riservata al solo giudice, come tratto che caratterizza il suo ruolo all’interno del processo». In questo senso può affermarsi che, «mentre il giudice è terzo e imparziale, il pubblico ministero è imparziale ma non è terzo».

7. Cfr. Corte cost., ord. n. 24/2017, secondo cui la legge non può assegnare alla giurisdizione obiettivi di scopo. Il che ovviamente non esclude che l’art. 97 Cost. sia riferibile anche agli uffici giudiziari, ma per il solo profilo dell’organizzazione degli stessi in vista della migliore attuazione della funzione (tra varie altre, Corte cost., nn. 174/2005, 5/2004, 428/1993, 18/1989, 86/1982), non per l’esercizio della funzione in sé ossia dello ius dicere come tale e dei provvedimenti che ne costituiscono l’espressione (Corte cost., nn. 272/2008, 287/2007, 117/2007, 115/2001, tra altre). Né esclude che al parametro dell’art. 97 possa farsi indirettamente richiamo in sede di valutazione caso per caso sulla sussistenza di un conflitto di interessi rilevante ex art. 323 cp e, come tale, idoneo a fondare il dovere, e non la mera facoltà, di astensione del magistrato, sia esso pm o giudice, rispetto all’art. 52, comma 1, cpp e all’art. 73, comma 2, cpc (tra altre, Cass., sez. unite, nn. 25815/2007, 11431/2010, 21853/2012, 33537/2018, 20385/2021 e, da ultimo, 24038/2023).

8. È noto che in sede di Assemblea costituente si sono contrapposte due impostazioni di fondo, una rivolta a inquadrare il pm nell’ambito del potere esecutivo (proposta, in II Sottocommissione, 10 gennaio 1947, dell’On. G. Leone: «Il pubblico ministero dipende dal Ministro della giustizia»), l’altra indirizzata alla piena assimilazione tra pm e giudice (ibid., 13 dicembre 1946, proposta dell’On. P. Calamandrei: «La stessa [dei giudici – ndr] indipendenza hanno i magistrati del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale e delle altre funzioni ad essi demandate dalla legge», giacché – seduta del 10 gennaio 1947 – «il pubblico ministero non è un funzionario amministrativo ma un magistrato e deve godere dei requisiti dell’indipendenza e della inamovibilità»). La proposta finale elaborata dalla Commissione, sulla linea di Calamandrei («Il pubblico ministero gode di tutte le garanzie dei magistrati») è stata poi modificata dall’Assemblea nella versione definitiva, il 26 novembre 1947. 

9. Legge costituzionalmente necessaria, quindi, ma non a contenuto vincolato. Sul punto, cfr. N. Zanon, Pubblico ministero e Costituzione, CEDAM, Padova, 1996, pp. 3 ss., e già A. Pizzorusso, Problemi costituzionali di una riforma del pubblico ministero, in Giur. it., 1966, IV, p. 89.

10. In questo senso, op. cit. alla nota precedente, P. Gaeta, L’organizzazione degli uffici di procura, in Questione giustizia online, 18 dicembre 2019 (www.questionegiustizia.it/articolo/l-organizzazione-degli-uffici-di-procura_18-12-2019.php).

11. Senza che questo possa «far confondere la posizione del PM con quella del giudice», ibid.

12. Da ciò l’impossibilità di ammetterne la costituzione nel giudizio incidentale di costituzionalità, nonostante la veste formale di parte del procedimento a quo: oltre alle sentenze citate, Corte cost., ord. n. 327/1995.

13. Tanto che è ancora l’art. 112 Cost. e il principio in esso sotteso a fondare la legittimazione dell’organo requirente al promovimento del conflitto costituzionale di attribuzione, perché è in quella norma che risiede la garanzia costituzionale dell’indipendenza del pm (Corte cost., n. 420/1995).

14. L’economia della presente trattazione impone di rinviare, per più ampie considerazioni intorno a questo diritto costituzionale “vivente” e anche alla ricostruzione storica dell’iter evolutivo riguardante il pm, sganciato dal potere esecutivo, all’ampia dottrina in materia, tra cui: R. Romboli, Il pubblico ministero nell’ordinamento costituzionale e l’esercizio dell’azione penale, in S. Panizza - A. Pizzorusso - R. Romboli (a cura di), Ordinamento giudiziario forense. Volume I. Antologia di scritti, Edizioni Plus, Pisa, 2002, p. 307; G. Silvestri, L’organizzazione del pubblico ministero: rapporti nell’ufficio e tra gli uffici, in Aa.Vv., Pubblico ministero e riforma dell’ordinamento giudiziario, atti del Convegno (Udine, 22-24 ottobre 2004), Giuffrè, Milano, 2006, pp. 215-248; N. Zanon e F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Zanichelli, Bologna, 2019, nonché all’ampia disamina contenuta in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021 («Pubblico ministero e stato di diritto in Europa, www.questionegiustizia.it/rivista/pubblico-ministero-e-stato-di-diritto-in-europa); in particolare, sul punto in discorso, vds. ivi il contributo di G. Tarli Barbieri, Stato di diritto e funzione requirente in Italia: un unicum europeo?, pp. 38-53 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/935/2-2021_qg_tarlibarbieri.pdf).

15. È in questa chiave che sembra doversi leggere la pronuncia n. 88/1991 là dove perviene all’affermazione che «il pubblico ministero, al pari del giudice, è soggetto soltanto alla legge», il che non implica omologazione o sovrapposizione, ma rimanda al principio di legalità dell’agire dell’organo requirente, così stemperandosi il dilemma circa la riferibilità della disposizione dell’art. 101, secondo comma, Cost. anche al pm, risolto generalmente dalla dottrina in senso negativo, trattandosi di un riferimento testualmente non indicato dalla norma, che è rivolta ai giudici e al loro rapporto immediato con l’applicazione e interpretazione della legge, funzione che è ipotizzabile anche per il pm in taluni ambiti, ma non ne esaurisce la gamma di attività. 

16. F. Dal Canto, Lezioni, op. cit., p. 92.

17. Cfr., su questo percorso di avvicinamento proprio sul terreno dell’agire del pm, N. Rossi, Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, pp. 16-31 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/933/2-2021_qg_rossi.pdf); per una panoramica sulla serie di atti citati nel testo (ed altri), vds. A. Mura, Pubblico ministero in Europa. Modelli, esperienze, prospettive, ivi, pp. 90-94 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/941/2-2021_qg_mura.pdf), il quale, dando atto della estrema varietà di modelli processuali e di ordinamento e anche di concezioni culturali circa l’attività del pubblico ministero nel panorama internazionale, sottolinea come, nonostante tale disomogeneità, vi sia un «nucleo forte» comune, imperniato sul rispetto rigoroso della legge, sulla promozione della sua applicazione e sulla «essenziale imparzialità del pubblico ministero nelle sue scelte e nell’agire concreto, nonostante la sua qualificazione come parte nel processo penale», secondo un valore che determina la corretta interpretazione anche della cd. concezione agonistica del processo, «non essendo sostenibile in alcun ordinamento la legittima promozione dell’azione penale o la sua coltivazione se non in presenza di consistenti elementi d’accusa». Vds., altresì, M. Guglielmi, Un pubblico ministero “finalmente separato”? Una scelta poco o per nulla consapevole della posta in gioco. E l’Europa ce lo dimostra, in Questione giustizia online, 17 settembre 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/un-pubblico-ministero-finalmente-separato).

18. Parere n. 9/2014 del Consiglio consultivo dei procuratori europei (CCPE).

19. Così già G. Salvi, nell’intervento del 29 gennaio 2021 sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, p. 208 (www.procuracassazione.it/resources/cms/documents/Relazione_definitiva_PDF.pdf).

20. Resa congiuntamente dai rispettivi Consigli consultivi (CCPE e CCJE) il 18 novembre 2009.

21. Regolamento (UE) 2017/1939 del Consiglio, 12 ottobre 2017, part. artt. 6, 7 e 9. Sul punto, L. De Matteis, Autonomia e indipendenza della Procura europea come garanzia dello Stato di diritto, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, pp. 111-116 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/945/2-2021_qg_dematteis.pdf).

22. Così A. Mura, Pubblico ministero in Europa, op. cit. Vds. anche il percorso di “avvicinamento” di Eurojust a EPPO di cui trattano G. Michelini, Esiste un modello europeo di pubblico ministero? e A. Cluny, In principio era la Procura europea, sempre in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, rispettivamente pp. 66-73 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/938/2-2021_qg_michelini.pdf) e 105-110 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/944/2-2021_qg_cluny.pdf).

23. Nel Tribunale penale internazionale, il pubblico ministero «non sollecita né accetta istruzioni da alcuna fonte esterna» (art. 42) e ad esso è fatto carico di estendere la propria indagine su tutte le circostanze, a favore o contro l’ipotesi di accusa (art. 54), disposto quest’ultimo che echeggia l’art. 358 cpp, nell’obiettivo di accertamento della verità giudiziale. Cfr. E. Bruti Liberati, Le scelte del pubblico ministero: obbligatorietà dell’azione penale, strategie di indagine e deontologia, in questa Rivista trimestrale, n. 1/2018, pp. 14-22 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/482/qg_2018-1_04.pdf).

24. Diversamente, F. Di Marzio, Pubblico ministero: organo di giustizia o parte nel processo?, in Giustizia civile, 28 luglio 2021 (www.giustiziacivile.com/arbitrato-e-processo-civile/editoriali/pubblico-ministero-organo-di-giustizia-o-parte-nel-processo). 

25. Secondo la critica alla qualificazione detta nel testo di N. Zanon, Pubblico ministero, op. cit., cap. II.

26. C. Santoriello (Il pubblico ministero ed i cento talleri di Kant, in Arch. pen., n. 2/2021, part. par. 4) contrappone alla classificazione qui espressa i limiti posti dalla strutturazione organizzativa e, soprattutto, i dati di esperienza che segnalano la propensione dell’organo a svolgere una funzione eminentemente di accusa; critica che ha indubbio peso – vds., tuttavia, infra nel testo –, ma che è imperniata peraltro sul riferimento a una “terzietà” omologante pm e giudice che, come si è detto, non è ipotizzabile.

27. D.lgs n. 51/1998, circa l’adozione di criteri generali di organizzazione da parte del Csm; dPR n. 449/1988, circa la riformulazione dell’art. 70 ord. giud.; art. 53 cpp, sulla piena autonomia del magistrato del pm in udienza. 

28. Da quella del 5 luglio 2006 “predittiva” del nuovo corso, a quella del 12 luglio 2007 “rivendicativa” del necessario coinvolgimento dell’organo di autogoverno nella formulazione di criteri di indirizzo per l’organizzazione e ripartizione del lavoro degli uffici requirenti, a quella del 21 luglio 2009 con l’individuazione degli obiettivi centrali di efficienza e di efficacia dell’operato dell’ufficio del pm attraverso il progetto organizzativo, a quella indicata nel testo del 17 novembre 2017, dettagliata e analitica in ordine a tutti gli aspetti che coinvolgono l’assetto dell’ufficio requirente; alla quale ultima hanno fatto seguito, poi, quelle del 16 dicembre 2020 e 16 giugno 2022. Per un esame del contenuto di tali atti e per il dettaglio del percorso di “decostruzione” dello schema del 2006, si rinvia a L. Salvato, Verso la modifica della circolare sull’organizzazione degli uffici requirenti: intervento introduttivo, in Questione giustizia online, 15 luglio 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/circolare-organizzazione) e, per lo stato dell’arte prima della riforma Cartabia, a P. Gaeta, L’organizzazione, op. cit.

29. In un andamento circolare che recupera l’idea dell’art. 7-ter ord. giud., introdotto nel 1998 ed eliminato dalla riforma Castelli. Sul dato odierno, vds. G. Mazzotta, La procedura tabellare per l’adozione del documento organizzativo delle Procure della Repubblica: un ritorno al passato o un ponte verso il futuro?, in Questione giustizia online, 28 aprile 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-procedura-tabellare), cui si rinvia per alcuni profili critici.  

30. L. Salvato, Verso la modifica, op. cit.; P. Gaeta, L’organizzazione degli uffici di procura: note sull’evoluzione dell’indipendenza “interna” del pubblico ministero, in N. Zanon e F. Biondi (a cura di), L’indipendenza della magistratura oggi, Giuffrè, Milano, 2020, pp. 165-206.

31. M. Bignami, L’indipendenza interna del pubblico ministero, in questa Rivista trimestrale, n. 1/2018, pp. 79-87 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/490/qg_2018-1_12.pdf).

32. E anche con linee direttive sovranazionali, si veda ad esempio la raccomandazione del 6 ottobre 2000, n. 19 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sul ruolo del pm nell’ordinamento penale, in cui è indicata la preferenza per un’organizzazione gerarchica ma che non comporti strutture burocratiche inefficienti o paralizzanti e, soprattutto, che sia adeguata al compito di «favorire l’equità, la coerenza e l’efficacia dell’azione del pubblico ministero», anche qui, in sostanza, con una esigenza di rapporto appropriato da mezzo a fine tra struttura statica e attività dinamica.

33. Vale a dire il vincolo al principio di diritto del giudice di legittimità, artt. 384 cpc e 627 cpp; il nesso di coerenza con le pronunce delle sez. unite, artt. 374 cpc e 618 cpp; e, più in generale, il rapporto tra dimensione creativa/evolutiva del diritto giurisprudenziale e fonte legislativa, che sembra mostrare un ripensamento sulla assoluta libertà ermeneutica del giudice rispetto al dato normativo, anche sul versante delle interpretazioni “adeguatrici”, costituzionalmente o convenzionalmente: cfr., per questa rimeditazione sul grado di aderenza dell’interpretazione al dato normativo, Corte cost., nn. 5/2024, 93/2022, 102/2021 e Cass., sez. unite, n. 24413/2021; vds. anche l’intervista di Luigi Salvato a Renato Rordorf, Conversando su diritto legislativo e diritto giurisprudenziale, in Giustizia insieme, 2 febbraio 2021 (www.giustiziainsieme.it/en/le-interviste-di-giustizia-insieme/1518-sei-domande-a-renato-rordorf-intervista-di-luigi-salvato-a-renato-rordorf?hitcount=0).

34. M. Bignami, L’indipendenza, op. cit.

35. Ancora M. Bignami, ibid. Ma, va aggiunto, con un necessario distinguo che concerne l’ufficio requirente di legittimità, su cui infra nel testo.

36. Intervento inaugurale dell’Anno giudiziario 2020 del Procuratore generale della Cassazione G. Salvi, 31 gennaio 2020, pp. 7-8 e 59. Per una rassegna dei campi di intervento in cui lo strumento in parola ha trovato fruttuosa applicazione, non si può che rinviare alle relative sezioni degli interventi degli ultimi anni, reperibili sul sito della Procura generale della Cassazione (www.procuracassazione.it). 

37. Si rinvia necessariamente all’ampia dottrina in materia, tra cui i contributi di: G. Salvi, Discrezionalità, responsabilità, legittimazione democratica del pubblico ministero, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, pp. 32-37 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/934/2-2021_qg_salvi.pdf) e di N. Rossi, Per una cultura della discrezionalità, op. cit.; E. Bruti Liberati, Le scelte del pubblico ministero, op. cit.

38. Col dire che «azione penale obbligatoria non significa conseguenzialità automatica tra notizia di reato e processo, né dovere del PM di iniziare il processo per qualsiasi notitia criminis», ché anzi limite implicito nell’art. 112 è che il processo non abbia luogo quando superfluo, sicché la questione è piuttosto quella del controllo sull’azione e sull’inazione del pm e dell’apprestamento di strumenti e istituti adeguati allo scopo. È amplissima la dottrina sul punto, sovente critica sull’effettiva plausibilità di una obbligatorietà piena, definita perfino da taluni autori una «bugia convenzionale»: E. Kostoris, Obbligatorietà dell’azione penale, esigenze di deflazione ed irrilevanza del fatto, in Aa.vv., I nuovi binari del processo penale tra giurisprudenza costituzionale e riforme, atti del Convegno (Caserta-Napoli, 8-10 dicembre 1995), Giuffrè, Milano, 1996, p. 212. 

39. Cfr. la delibera 11 maggio 2016: «Linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari. Rapporti tra uffici requirenti e uffici giudicanti».

40. Così N. Rossi, Per una cultura della discrezionalità, op. cit., nota 17, e ivi riferimenti di dottrina. L’Autore, analizzati i sistemi di common law e continentali quanto alla conformazione del pm, e delineati tre profili della discrezionalità (quella nel procedimento e nel processo, quella organizzativa e quella investigativa), sottolinea che rispetto alla distinzione – azione discrezionale vs azione obbligatoria – assumono rilievo crescente nell’esperienza giuridica altri fattori costitutivi e, soprattutto, il raccordo con le istituzioni, che (escluse forme regressive di soggezione all’esecutivo) egli individua proprio nell’adozione di linee generali di politica criminale e di priorità dell’azione da parte delle istituzioni dotate di legittimazione democratica, per pervenire – precisa ne I “criteri di priorità” tra legge cornice e iniziativa delle procure, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2021, pp. 76-81 (www.questionegiustizia.it/rivista/la-riforma-della-giustizia-penale) – a un’obbligatorietà realistica, esercitata secondo canoni di trasparenza e assunzione di responsabilità sociale e istituzionale per le scelte compiute. Sul tema, per punti di vista diversi, cfr. A. Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la legge 27 settembre 2021, n. 134 [analoga, sul punto, alla riforma del 2022 – ndr], in questa Rivista trimestrale, n. 4/2021, pp. 82-95 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/988/4-2021_qg_spataro.pdf) e S. Panizza, Se l’esercizio dell’azione penale diventa obbligatorio… nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, ivi, pp. 105-114 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/991/4-2021_qg_panizza.pdf); vds. altresì S. Lonati, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale: verso un sistema ad azione pilotata legislativamente?, in Archivio penale, n. 1/2023, pp. 1-30.  

41. Si è detto forse perché tali istituti, sottoposti a condizione, implicano un percorso il cui risultato può anche essere negativo, sicché il pm dovrebbe non solo apprezzare la possibilità di accesso agli stessi – che nella messa alla prova è anche nella sua facoltà attivare –, ma anche la verosimile conclusione favorevole del percorso.

42. Si è osservato, infatti, che la nuova disciplina implica un minor grado di autoreferenzialità del pubblico ministero, che non potrà invocare il principio dell’obbligatorietà per avallare iniziative processuali deboli o insostenibili, in quanto il principio dell’obbligatorietà si svolge entro le coordinate che il legislatore appresta per evitare il giudizio superfluo, con spreco di risorse e di attività dell’apparato giudiziario, coordinate che ora sono dettate dalla normativa in esame, il cui effetto di sistema è anche quello di escludere che «le determinazioni concernenti l’esercizio dell’azione penale possano esser giustificate in ragione della funzionalità al perseguimento di risultati di controllo sociale. Infatti la giurisdizione è un sistema di giustizia legale, le cui decisioni devono esser giustificate sempre e soltanto in ragione della loro conformità a un sistema di norme e di valori, che si assume precostituito all’intervento del giudice» (c.vo aggiunto): così A. Nappi, In difesa della riforma Cartabia, in Giustizia insieme, 20 giugno 2023 (www.giustiziainsieme.it/it/aree-tematiche/cartabia-penale). Altri commentatori ravvisano invece nella riforma un obiettivo di pura deflazione processuale, prospettandone anche dubbi di conformità a Costituzione: così R. Aprati, Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità, ivi, 20 dicembre 2022 (www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2586-le-nuove-indagini-preliminari-fra-obiettivi-deflattivi-ed-esigenze-di-legalita).

43. Così, condivisibilmente, A. Nappi, In difesa, op. cit.; analogamente, assume coloritura diversa la funzione di «promozione della repressione dei reati» di cui all’art. 73 ord. giud.

44. «Il pubblico ministero si comporta con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo. Indirizza la sua indagine alla ricerca della verità acquisendo anche gli elementi di prova a favore dell’indagato e non tace al giudice l’esistenza di fatti a vantaggio dell’indagato o dell’imputato».

45. Cass. pen, sez. III, 16 ottobre 2018, n. 47013, rv. 274031.

46. Definiva una bizzarra idea quella del pm che si muove alla ricerca di ogni possibile prova, a carico e a favore, P. Ferrua, Declino del contraddittorio e garantismo reattivo: la difficile ricerca di nuovi equilibri processuali, in questa Rivista, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/1995, pp. 428 ss.; per una considerazione accostabile a quella detta nel testo, vds. invece – e prima della riforma del 2022 – C. Santoriello, Il pubblico ministero, op. cit., pp. 13-16.

47. Secondo una opzione convergente e ormai generalizzata anche nei Paesi di common law, cfr. il Rapporto sulle norme europee in materia di indipendenza del sistema giudiziario: Parte II – Il pubblico ministero, adottato il 17-18 dicembre 2010 dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto (cd. “Commissione di Venezia”), punto 12.

48. La formula del pm come «organo di giustizia», «promotore dei diritti», è usata nel documento finale redatto il 28 maggio 2011 all’esito della riunione della Rete dei procuratori generali delle Corti supreme dell’Unione.

49. Senza pretesa di completezza e senza distinguere tra azione e intervento obbligatorio: impugnazioni e opposizioni al matrimonio; adozioni; interdizioni, inabilitazioni, amministrazioni di sostegno; provvedimenti limitativi della potestà familiare e di allontanamento dalla casa familiare a tutela dei minori; provvedimenti riguardanti genitori naturali, quando comportano misure per i figli; ordini di protezione familiare; provvedimenti di rettificazione di attribuzione di sesso; trattamenti sanitari obbligatori; iniziative in materia di crisi d’impresa e insolvenza; provvedimenti in tema di proprietà industriale; procedimenti elettorali; riconoscimenti di sentenze straniere in tema di status; provvedimenti in materia di asilo politico e di status di rifugiato; querele di falso; reclami in materia societaria; successioni; misure in tema di associazioni private; curatele processuali. 

50. Per queste definizioni, cfr. M. Vellani, Il pubblico ministero nel processo, Zanichelli, Bologna, 1970; V. Vigoriti, Il pubblico ministero nel processo civile italiano, in Riv. dir. proc., 1974, pp. 296 ss.; E. Grasso, Pubblico ministero. Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, vol. XIX, Roma, 1991; S. Satta, Diritto processuale civile, CEDAM, Padova, 1997; F. Morozzo della Rocca, Pubblico ministero (diritto processuale civile), in Enc. dir., vol. XXXVII, Giuffrè, Milano, 1988; F.S. Damiani, Riflessioni sul ruolo del P.M. nel processo civile, in Giusto proc. civ., n. 2/2019, pp. 353 ss. Per una più recente disamina sul versante dell’esperienza applicativa, con riguardo alla materia familiare, G. Marseglia, Pubblico ministero e persona: i procedimenti in materia di status, famiglia e minori, in questa Rivista trimestrale, n. 1/2018, pp. 34-42 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/485/qg_2018-1_07.pdf).
La frequente sottovalutazione dell’incidenza del pm in campo civile, espressa in passato perfino con tesi abolizioniste tout court, appare oggi datata e frutto di un’ottica compressa nella dimensione del diritto civile classico, cioè relativo alle materie disponibili/contrattuali e di contenuto principalmente economico. Ma è una visione che – a parte il rilievo che, ad esempio, il pm svolge nelle procedure di insolvenza e crisi di impresa – non può esser seguita oggi, in un contesto di espansione di diritti nuovi e che coinvolgono aspetti di libertà o pretese di contenuto affatto diverso: basti pensare alla delicata questione delle trascrizioni di atti di nascita formati all’estero concernenti minori nati all’interno di relazioni omoaffettive, anche attraverso pratiche di maternità surrogata, in cui si registrano indirizzi divergenti sul territorio nazionale. E basti considerare altresì il ruolo del pm in sede di legittimità, di cui si dice nel testo.

51. Attraverso un «espediente» processuale – per usare le preveggenti parole di C. Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, vol. I, Giappichelli, Torino, 2000, p. 225 –, vale a dire quello di un «soggetto creato per poter operare a tutela di diritti e interessi rilevanti sul piano pubblicistico (…) in un processo imperniato sulle iniziative delle parti». E in effetti la posizione di parte del pm all’interno del processo, se è necessaria per mettere in atto l’iniziativa che il giudice non ha modo di far partire, non ha a che fare con l’impianto ordinamentale e con i caratteri che sono assegnati al pm secondo la Costituzione. La lettura restrittiva del ruolo del pm solo attraverso ciò che la legge processuale gli consente o impone di fare risulta fuorviante.

52. In tutte le udienze pubbliche, penali o civili, e nelle camere di consiglio cd. partecipate in ambito penale. 

53. Nelle adunanze camerali civili. L’assetto diversificato tra i due campi di cui alla presente e alla precedente nota, codificato dall’art. 76 ord. giud. a seguito della riforma Cartabia, deriva da considerazioni di impegno nomofilattico e di opportuna selettività dai casi, possibili in campo civile (nel quale oggi vi sono tre livelli decrescenti di attività, tra udienza, adunanza e cd. rito accelerato) e preclusi in quello penale proprio per la considerazione della espansività del principio di obbligatorietà, che si esprime ad esempio nell’art. 74 ord. giud. con il vincolo alla formulazione di conclusioni, pena l’impossibilità di dare luogo al giudizio.

54. Si intende, sempre in applicazione dei principi e non formalisticamente: è giusta la sentenza che non solo adotta una determinazione finale in cui l’esito è conforme al modello legale regolativo del caso ma che, prima, si fa carico delle possibilità ermeneutiche intorno al diritto applicabile. È ancora una volta il già accennato tema dell’interpretazione e dei suoi limiti ultimi, oltre i quali sta la denuncia di incostituzionalità o di anticonvenzionalità della legge formale. 

55. Sia consentito, per economia della trattazione, anche il rinvio a C. Sgroi, La funzione della Procura generale della Cassazione, in questa Rivista trimestrale, n. 1/2018 (riferito alla materia civile), pp. 52-69 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/487/qg_2018-1_09.pdf).

56. Cfr., al riguardo, l’intervento del P.g. della Cassazione, Luigi Salvato, nell’inaugurazione dell’Anno giudiziario 2023, p. 18, dove sottolinea che l’apporto dialettico del pm di legittimità risulta omologo a quello espletato dagli avvocati generali nel processo dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione, quale forma di “assistenza” e cooperazione con il giudice nello svolgimento della funzione di quest’ultimo, cioè il rispetto del diritto nell’interpretazione e applicazione del Trattato.

57. L’affermazione va condivisa, a patto di specificare che essa vale in quanto esige che vi sia un nesso di coerenza tra sostanza e apparenza. Il frusto richiamo alla metafora della “moglie di Cesare” potrebbe indurre a pensare che ciò che conta è (solo) l’esteriorità e che l’importante non è assumere un atteggiamento interno e operativo di effettiva imparzialità e garanzia, ma solo di mostrarne segni esteriori o di occultarne la opposta sostanza. Una simile impostazione equivarrebbe a erodere dall’interno la dignità e l’atteggiamento equanime del magistrato verso l’oggetto del proprio mestiere. Sul tema, vds. G. Cataldi, I giudici, l’imparzialità e la moglie di Cesare, in Questione giustizia online, 20 ottobre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/i-giudici-l-imparzialita-e-la-moglie-di-cesare). Vds. anche R. Ionta, Il dovere di manifestare il non pensiero (il giudice in una stanza), in Giustizia insieme, 17 ottobre 2023 (www.giustiziainsieme.it/en/gli-attori-della-giustizia/2922-il-dovere-di-manifestare-il-non-pensiero-il-giudice-in-una-stanza).

58. Nella prima, si tratta di stabilire se le convinzioni personali o i comportamenti possano far desumere un pregiudizio rispetto al caso da trattare, e l’imparzialità è presunta fino a prova contraria; nella seconda, si guarda all’esistenza di dati e circostanze che, indipendentemente dall’atteggiamento del magistrato, giustifichino dubbi sulla sua imparzialità.

59. Corte Edu [GC], 23 aprile 2015, Morice c. Francia; Corte Edu, 31 ottobre 2017, Kamenos c. Cipro; 16 ottobre 2018, Daineliene c. Lituania. Già Corte Edu, 27 agosto 1991, Demicoli c. Malta, aveva affermato che «anche le apparenze possono rivestire importanza, soprattutto in materia penale». 

60. Stampa che la Corte definisce il “cane da guardia” della democrazia: Corte Edu, 27 marzo 1996, Goodwin c. UK e [GC] 6 maggio 2003, Perna c. Italia.

61. Corte Edu, 16 settembre 1999, Buscemi c. Italia, e 26 aprile 1995, Praeger e Oberschlick c. Austria. In generale, per una amplissima rassegna degli indirizzi della Corte di Strasburgo, peraltro generalmente riferiti all’autorità giudiziaria decidente, si rinvia a M.G. Civinini, Indipendenza e imparzialità dei magistrati, in questa Rivista trimestrale, speciale monografico «La Corte di Strasburgo», a cura di F. Buffa e M.G. Civinini, aprile 2019, pp. 249-260 (www.questionegiustizia.it/data/speciale/articoli/745/qg-speciale_2019-1_41.pdf).

62. È da notare il richiamo all’art. 108, comma 2, Cost., inclusivo del pubblico ministero.

63. «Art. 6 - Rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa.
Nei contatti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio.
Quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni per ragioni del suo ufficio concernenti l’attività del suo ufficio o conosciute per ragioni di esso e ritiene di dover fornire notizie sull’attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta informazione dei cittadini e l’esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l’onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati.
Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione.
Evita di partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica».

64. Punto 11, secondo cui è interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario, nel rispetto della presunzione di innocenza e del diritto a un giusto processo, ciò che impegna le autorità giudiziarie al dovere di fornire pertinenti informazioni e i magistrati del pm a redigere regole di buone prassi o linee-guida circa i rapporti con i mezzi di informazione.

65. Gli atti citati nel testo sono reperibili sul sito web della Procura generale della Cassazione, in testo originale o con traduzione. Di interesse, anche se elaborato nell’ambito del Comitato consultivo dei giudici (CCJE), il parere n. 25/2022 sulla «Libertà di espressione dei giudici», su cui vds. E. Bruti Liberati, La libertà di espressione dei giudici in Europa, in Questione giustizia online, 16 marzo 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-liberta-di-espressione-dei-giudici-in-europa), che fa seguito al report sul medesimo oggetto del 19-20 giugno 2015, adottato dalla Commissione di Venezia. Il parere n. 25/2022 afferma che «il giudice fruisce del diritto alla libertà di espressione come ogni altro cittadino. In aggiunta a questa legittimazione individuale del giudice, i principi della democrazia, della separazione dei poteri e del pluralismo esigono che i giudici siano liberi di prendere parte nei dibattiti di interesse pubblico specialmente con riguardo alle materie che concernono l’amministrazione della giustizia», che «nell’esercitare la loro libertà di espressione i giudici devono tener conto delle loro specifiche responsabilità e dei loro doveri nella società; devono quindi esercitare restraint nell’esprimere i loro punti di vista e opinioni in ogni circostanza in cui, dal punto di vista di un osservatore ragionevole, le loro dichiarazioni potrebbero compromettere l’indipendenza o imparzialità e la dignità del loro ufficio o mettere in crisi l’autorevolezza del potere giudiziario. In particolare, devono evitare commenti sul merito dei casi che stanno trattando. I giudici devono altresì preservare la riservatezza dei procedimenti» e infine che «i giudici devono essere consapevoli dei vantaggi, ma anche dei rischi della comunicazione sui media. Al riguardo il sistema giudiziario dovrebbe prevedere una formazione dei giudici per l’intervento sui media, che possono essere utilizzati come un eccellente strumento per la sensibilizzazione del pubblico. Nello stesso tempo i giudici devono essere resi coscienti che ogni loro intervento sui social media rimane permanente, anche dopo che sia stato cancellato, e può essere liberamente interpretato oppure citato fuori del contesto». Quest’ultimo punto appare di rilievo, dando atto della accresciuta complessità delle relazioni tra informazione e giustizia nella dimensione del web e della esplosione di casi di giustizia mediatica.

66. Questo il testo: « (lett. u): la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui; (lett. v): pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione di quanto disposto dall’articolo 5, commi 1, 2, 2-bis e 3, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106».

67. Ad esempio, l’art. 52 d.lgs n. 196/2003, o l’art. 734-bis cp.

68. Come l’individuazione in concreto delle ragioni di “pubblico interesse” che ammettono il ricorso alle conferenze stampa, ad esempio; o come la necessità di distinguere tra la comunicazione istituzionale, sia essa relativa all’agire complessivo dell’ufficio ovvero riferita a singoli casi, e il contatto diretto tra magistrato e media su questioni “impersonali”, cioè non riguardanti questo o quel caso giudiziario, ma anch’esse suscettibili di soddisfare una pretesa conoscitiva della collettività.

69. Come al tempo della pronuncia n. 100/1981 della Corte cost., la cui valenza generale resta ferma ma che guardava alla questione nell’ottica del diritto del magistrato e dei suoi limiti possibili, più che a quella del dovere espressivo della magistratura e del corrispondente diritto all’informazione dei cittadini.

70. G. Giostra, Riflessi della rappresentazione mediatica sulla giustizia “reale” e sulla giustizia “percepita”, in Leg. pen., 17 settembre 2018; Id., La giustizia penale nello specchio deformante della cronaca giudiziaria, in Media laws, n. 3/2018 (www.astrid-online.it/static/upload/pape/paper1_giostra-2.pdf). Naturalmente il tema potrebbe allargarsi alla considerazione non solo dei media “tradizionali”, ma anche di tutte le varie forme di circolazione informativa online, come i social o i blog, e le relative variegate modalità di interazione. È un campo in evoluzione continua e che probabilmente impegnerà gli organi di autogoverno nel dettare linee di comportamento su questo versante, come del resto è avvenuto nell’ambito della giustizia amministrativa, con una delibera del 25 marzo 2021; vds. A. Lollo, Libertà di manifestazione del pensiero e uso dei social da parte dei magistrati, in Consulta online, 5 settembre 2022 (www.giurcost.org/post/ANDREA%20LOLLO/22209).

71. D. Stasio, Il dovere di comunicare dei magistrati: la sfida per recuperare fiducia nella giustizia, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2018 (Ob. 2, Introduzione), pp. 213-217 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/563/qg_2018-4_20.pdf).

72. Per tutte, Corte cost., nn. 18/1989 e 81/1995.

73. Ciò è evidente nel sistema disciplinare tipizzato secondo il principio di legalità, ex d.lgs n. 109/2006. I precetti deontologici mantengono nell’applicazione giurisprudenziale una residua limitata capacità orientativa per definire le sole clausole generali poste dalla normativa primaria. 

74. Vds. l’attenta analisi di N. Rossi, Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2018 (Ob. 2), pp. 245-254 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/568/qg_2018-4_25.pdf).

75. L’impianto del d.lgs n. 106/2006, come integrato dal d.lgs n. 188/2021, ha indubbiamente l’impronta di una strutturazione di carattere gerarchico anche sul versante dei doveri comunicativi dell’ufficio. Indipendentemente dal giudizio che se ne voglia dare, resta che la prospettazione di un potere diffuso, su questo versante, non è quella che richiede la disciplina di legge. 

76. Da ciò l’esigenza di chiarezza e comprensibilità dei provvedimenti e delle relative motivazioni, di cui in tempi recenti si discute dando anche regolazione giuridica a questo obiettivo di democrazia. La retorica del “magistrato che parla solo con le sentenze” avrebbe qualche residua ragione d’essere se le sentenze e, in genere, l’agire della giurisdizione “parlassero chiaro”, ma non è – talvolta non può perfino essere – sempre così.

77. Fanno eccezione le potestà decisorie del P.g. della Cassazione in sede di risoluzione dei conflitti di competenza tra pubblici ministeri e di adozione dei provvedimenti di archiviazione predisciplinare. Ma, appunto, in entrambi i casi tali atti sono sorretti da motivazione in senso proprio.

78. I dati sono tratti dagli interventi inaugurali degli Anni giudiziari 2023 e 2024 del P.g. della Cassazione.

79. G. Zagrebelsky, La giustizia come professione, Einaudi, Torino, 2021, pp. 12-15: «La responsabilità dei giuristi è grande. A loro, in particolare, si dovrebbe applicare il primo precetto della morale kantiana: la tua azione deve essere tale che la sua “massima” possa essere generalizzata, cioè possa valere al di là del tuo caso, per tutti gli altri casi analoghi. Se non puoi dimostrare che è così, vuol dire che la tua è una cattiva azione e che tu non infanghi solo te stesso, ma tradisci l’intera professione alla quale vuoi appartenere».

80. Si tratta delle proposte XIX/Camera, nn. 23, 343, 806, 824 e XIX/Senato, n. 504, il cui testo può leggersi in appendice a N. Rossi, Oltre la separazione delle carriere di giudici e PM. L’obiettivo è il governo della magistratura e dell’azione penale, in Questione giustizia online, 4 settembre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/oltre-separazione-carriere).
Su tali proposte, vds.: N. Rossi, Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri o riscrivere i rapporti tra poteri?, in Sistema penale, 16 novembre 2023 (www.sistemapenale.it/it/opinioni/rossi-separare-le-carriere-di-giudici-e-pubblici-ministeri-o-riscrivere-i-rapporti-tra-poteri?out=print); V. Zagrebelsky, Separazione: per che fare?, in Giudicedonna, nn. 3-4/2023 (www.giudicedonna.it/Articoli/Separazione_per_che_fare.pdf). 
Non si affronta, anche se indirettamente collegata, l’ulteriore iniziativa di legge ordinaria in tema di pubblicazione degli atti del procedimento (emendamento On. Costa, n. 3.01000, al ddl 1342/C di delegazione europea), relativo alla modifica dell’art. 114 cpp con il divieto di pubblicazione integrale o per estratto dell’ordinanza di custodia cautelare fino al termine delle indagini preliminari, potendo solo notare il regresso della trasparenza comunicativa su un atto di rilievo; vds. le considerazioni critiche di G. Giostra, La legge anti stampa è un pasticcio giuridico inutile e inapplicabile, Domani, 22 dicembre 2023 (www.editorialedomani.it/idee/commenti/la-legge-anti-stampa-e-un-pasticcio-giuridico-inutile-e-inapplicabile-t1f5p2tb).