Una nuova tutela “genetica” dell’indipendenza-imparzialità giudiziaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo?
Il caso polacco illustra una particolare evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, nella quale, contrariamente al modello del giudice silente, ha acquistato consistenza il valore eticamente positivo del diritto – il cui esercizio si trasforma talora in dovere – del magistrato di esprimersi a tutela degli istituti del giusto processo e fino alla difesa dello Stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura.
1. Ho avuto l’onore e l’onere, in tempi ormai remoti, di seguire – talvolta anche in contesti istituzionali, ma sempre con passione personale - le riflessioni italiane in tema di etica giudiziaria e il loro sviluppo in sede europea, in quello che all’epoca appariva come un percorso sempre ascendente[1].
La parabola si è poi mostrata mutevole.
Sperando che sia stato oggi doppiato il vertice basso di essa, accolgo dunque con rinnovato entusiasmo l’opportuno invito, che Questione giustizia formula, di discutere ancora di comportamenti dei magistrati (e quindi di etica giudiziaria), ma in relazione alle nuove “ambientazioni di sistema” che riguardano l’indipendenza e l’imparzialità della funzione.
2. In tale contesto, non mi propongo di discutere direttamente di questioni di etica – che dunque lascio fuori dal focus di queste riflessioni – bensì, in breve, anzitutto, della dimensione della libertà di espressione dei giudici su temi di interesse pubblico: i limiti a tale libertà, a livello giuridico e anche soltanto etico, mi appaiono di gran lunga meno stringenti – se esaminati in un’ottica internazionale, quale quella su cui attualmente lavoro – rispetto a quelli che vengono talvolta predicati a livello italiano; questo mi pare un profilo di interesse, conseguentemente, per il lettore nazionale.
Invero, il dibattito pubblico del Paese, sia all’esterno sia all’interno della magistratura, pare arroccarsi da qualche tempo sul modello del giudice silente; viceversa, a livello europeo il valore eticamente positivo del diritto – il cui esercizio si trasforma talora in dovere, come dirò – del magistrato di esprimersi appare ben più chiaro.
Vi è da domandarsi il perché di tale differenziazione. E ciò mi porta al tema che, in secondo luogo, mi preme discutere: le minacce all’indipendenza-imparzialità, più sensibili in alcuni contesti europei che in quello nazionale italiano (e ciò, almeno, sino a tempi recenti…).
Il mio breve esame di tale secondo tema, in connessione con il primo (la libertà di espressione), cercherà di porre in luce l’“essenzialità” del diritto di parola del giudice a tutela della sua indipendenza-imparzialità, tanto che il sussistere (e l’ampiezza) di tale libertà (pur con il self-restraint che ragioni di convenienza possono imporre) emerge come misura della salute del sistema; al contrario, la trasformazione del diritto in dovere di esporsi pubblicamente da parte dei magistrati, a denuncia di eventuali inconvenienti, è spesso sintomo di cattiva salute del sistema.
Il riferimento a casi giurisprudenziali basati sulle vicende travagliate della Polonia sarà utile.
3. Nell’affrontare il tema della libertà di espressione dei giudici, sarà inevitabile occuparsi di casi singoli, che da soli non si prestano a esportazioni fuori dal contesto cui si riferiscono. La “singolarità” dei casi, poi, si traduce in opinabilità delle conclusioni se essi si inseriscono (come dovrò inserirli) in un unico contesto nazionale, come quello anzidetto della Polonia.
Per quali vie, dunque, il nesso tra libertà di manifestazione di opinioni ed etica giudiziaria può condurci a una – forse ben più importante e radicale – riflessione sulle odierne tematiche più scottanti in tema di indipendenza-imparzialità?
A mio avviso, una siffatta operazione ricostruttiva può effettuarsi riflettendo sull’elenco dei temi che i giudici di un Paese possono (e talvolta debbono) denunciare (in sede giurisdizionale e) pubblicamente a tutela della loro indipendenza-imparzialità, come è avvenuto nell’evoluzione – cui accennavo – della Polonia.
Si tratta di temi quali la correttezza delle procedure di reclutamento dei magistrati, l’obiettività dei criteri per la costituzione degli organi giudiziari, l’esclusione dell’appartenenza partitica dai criteri per la scelta dei dirigenti, il funzionamento dell’autogoverno quale centro amministrativo non influenzato da finalità politiche, il mantenersi del ruolo dei poteri esecutivo e legislativo al di fuori del perimetro dell’operare concreto della giustizia.
È evidente che, quando i giudici ritengano di doversi esprimere in pubblico su tali temi, nella loro visione sussistono esigenze di denuncia. Essi, quindi, come può avvenire per gli avvocati e per le ong, assumono il ruolo di “difensori dei diritti” (non propri, ma dei cittadini che debbono potersi fidare del funzionamento della giustizia)[2].
Allora è proprio questo (in parte paradossale) ruolo del magistrato quale “difensore dei diritti” dell’utente del sistema-giustizia il crocevia in cui si incontra, nelle situazioni di crisi, la libertà di manifestazione del pensiero con la tutela di elementi fondamentali del giusto processo, quali – come detto – la precostituzione del giudice, l’inamovibilità, la stabilità del giudicato, etc.
In pratica, è come se – e da tale riflessione nasce lo slogan che ho voluto scegliere come traccia di queste riflessioni – la libertà/dovere, sul piano etico, del magistrato di difendere il buon funzionamento del sistema mantenendolo indipendente-imparziale riveli il codice “genetico” dell’indipendenza-imparzialità, che mantiene la sua essenzialità con la crescita delle organizzazioni giudiziarie nelle democrazie che via via maturano.
È essenziale quello che può (deve) essere difeso, apparentemente violando limiti (quali il self-restraint dei giudici) altrimenti generalmente da osservarsi e, di solito, osservati.
Ecco che si evidenzia, in tal modo, anche il carattere rivelatore della dimensione etica del fenomeno: l’etica si distingue dai sistemi normativi rigidi per la sua elasticità, ed è l’unico strumentario idoneo a funzionare da selettore per i comportamenti consentiti e non consentiti nel mutevole clima dei diversi sistemi organizzativi della giustizia. Non è così, invece, per i procedimenti disciplinari rigidi e ancorati a sanzioni formali.
4. Ciò detto, e prima di scendere nel concreto di una rapida rassegna di giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, a mio avviso, può disvelare quanto innanzi, va fatto un passo indietro circa l’evoluzione dello stesso ruolo della Corte.
Infatti, nello scorso decennio, spesso la Corte è stata accusata – non senza fondamento – di concentrare i suoi sforzi su profili secondari delle salvaguardie approntate dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, mancando di attenzione invece verso valori-cardine della Convenzione, senza la tutela dei quali è vano occuparsi della tutela degli altri valori. Ne è scaturito un dibattito internazionale, con l’innesco anche di iniziative governative di riforma (cd. “processo di Interlaken”).
All’interno di tale complesso dibattito, in particolare, osservatori attenti notavano – a fronte del manifestarsi di segnali preoccupanti nelle evoluzioni politiche in tutt’Europa – come la Corte dovesse garantire soprattutto l’esistenza di istituzioni giudiziarie indipendenti e, sul fronte della società civile, le libertà idonee a consentire ai “difensori dei diritti” – quali associazioni, ong e liberi avvocati – di operare.
Ciascuno dei due profili, istituzionale e di società civile, è ovviamente condizione di funzionamento dell’altro in società liberali il cui ordinato funzionamento (tra “difensori dei diritti” e istituzioni giudiziarie) dovrebbe autonomamente, e sussidiariamente, garantire in prima battuta gli altri diritti umani, le cui violazioni più eclatanti soltanto sarebbe stato necessario per la Corte continuare a presidiare, ma in seconda battuta.
In questo quadro, il ruolo del magistrato si colloca più sul fronte delle istituzioni che su quello dei “difensori dei diritti”; ma in situazioni di crisi è possibile (e doveroso), come vedremo, il salto della barricata.
5. La situazione si evolve alla fine del 2020.
Erano già passati quasi due anni da quando la Corte di giustizia dell’Unione europea aveva pronunciato la sua sentenza sui “giudici portoghesi”[3] che, utilizzando il combinato disposto dell’articolo 19 del Trattato sull’Unione europea e dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, aveva spianato la strada, sulla base anche di altri precedenti, a un gruppo numeroso di provvedimenti lussemburghesi in materia di indipendenza giudiziaria in Polonia[4]. Si noti che già allora (sulla scia anche di qualche caso precedente, condiviso con la Corte di Strasburgo) erano i giudici ad assumere il ruolo di parti nel contenzioso europeo in materia.
Lo schema, costituito da un caso altrimenti di scarso rilievo che apre la strada a sviluppi ben più ampi, consapevolmente o no, quasi si ripete a Strasburgo: viene pronunciata dalla Grande Camera, traendo spunto da un caso concernente un piccolo Stato, la sentenza Ástráðsson[5], accertativa di violazione dell’articolo 6, § 1 della Convenzione nei confronti dell’Islanda.
In sintesi, la sentenza – molto innovativa – si occupa di un profilo “genetico” dell’indipendenza-imparzialità giudiziaria, ponendo al centro dell’attenzione la nozione di costituzione del giudice per “legge”, laddove il rispetto della “legge” in tale fase assurge a benchmark di verifica del fatto che gli organi preposti alla nomina del giudice siano stati anch’essi indipendenti e imparziali.
Va da sé che, in Islanda, nessuna esternazione di magistrati si era avuta sul punto; né, nel caso in esame, erano stati i giudici pretermessi ad agire. Su ciò, vedremo le evoluzioni nei casi polacchi…
6. Il ragionamento di Ástráðsson si articola sui seguenti passaggi preliminari, con principi in parte noti: a) il diritto a un processo equo ai sensi dell’art. 6, § 1 della Convenzione richiede che la causa sia decisa da un «tribunale indipendente e imparziale»; b) le nozioni di “indipendenza” e “imparzialità” sono strettamente collegate e interagiscono anche con quella di «tribunale costituito per legge» ai sensi del medesimo articolo.
Di qui in poi, la Grande Camera supera gli schemi noti: il procedimento di nomina dei giudici – questa è la svolta – costituisce un elemento essenziale del concetto di “costituzione” di un organo giurisdizionale “per legge”.
Un tribunale non “costituito” in conformità al quadro legislativo nazionale in materia di nomine mancherà quindi della legittimazione necessaria in una società democratica per risolvere controversie giuridiche.
Se dunque – come avvenuto nel caso islandese – un organo (nel caso di specie, il Ministro della giustizia) competente a proporre (al Parlamento) la nomina dei giudici non segue – senza dare motivazioni – la graduatoria predisposta da una commissione tecnica consultiva (in Islanda manca un Csm), e il destinatario della proposta (il Parlamento) neppur esso corregge il difetto, l’art. 6, § 1 della Convenzione è violato.
7. Ne deriva che ogni procedimento di nomina giudiziaria con qualche vizio porta a difetto di costituzione del giudice? Una risposta sempre positiva sarebbe molto preoccupante (anche forse per gli osservatori italiani… ), con conseguenze devastanti sulla stabilità dell’organizzazione giudiziaria e sulla stessa validità (in alcuni contesti) dei provvedimenti giudiziari.
La Grande Camera sente, dunque, di dover formulare dei criteri-filtro: non tutte le irregolarità procedimentali portano a violazione, in quanto solo nei casi più gravi il valore della “costituzione per legge” può prevalere sulla certezza del diritto e sull’inamovibilità dei giudici, anch’essi valori custoditi dall’art. 6. La Corte formula, perciò, criteri operanti su più passaggi (criteri Ástráðsson) per distinguere i casi di minori irregolarità procedimentali, che non comportano violazione convenzionale, dai casi più gravi in cui vi è violazione, cui possono conseguire riflessi anche sulla validità dei processi interni gestiti dai giudici “illegittimi quanto a costituzione per legge” e sulla loro inamovibilità, la qual cosa è ovviamente lasciato alle autorità nazionali valutare.
Tali concetti, come accennato, sono stati destinati a spiegare tutte le loro potenzialità nel contenzioso concernente la Polonia, per lo più avviato presso la Corte di Strasburgo nel 2018-2022 su vari aspetti della riorganizzazione del sistema giudiziario polacco, iniziata nel 2017 – contenzioso che, dopo Ástráðsson, diventa maturo per la decisione.
Tenuto conto di ragioni professionali che mi impongono limitazioni espositive, farò solo qualche cenno alle sentenze e ai temi a mio avviso centrali dal punto di vista che ho enunciato in esordio.
8. Un primo cenno può riguardare un gruppo di quattro sentenze.
La prima è quella nella causa Xero Flor w Polsce sp. z o.o. c. Polonia[6], relativa a irregolarità nella nomina dei membri del Tribunale costituzionale polacco. Il caso nasce da una ordinaria disputa civilistica, in cui tuttavia si era incidentalmente pronunciato il Tribunale costituzionale. La Corte Edu, sulla base dei criteri Ástráðsson, riscontra una violazione del diritto a un «tribunale costituito per legge» a causa del fatto che la decisione sulla domanda presentata da Xero Flor era stata resa dal Tribunale costituzionale a mezzo di collegio di cinque giudici composto in violazione di norme anche contenute nella Costituzione polacca.
9. Passando alla seconda sentenza di questo gruppo, nella causa Reczkowicz c. Polonia[7] un avvocato si era lamentato del fatto che la sezione disciplinare, una delle due di nuova creazione presso la Corte suprema polacca, fosse costituita da giudici nominati dal Presidente della Polonia su deliberazione del Consiglio nazionale della magistratura (CNM), organo che era stato oggetto di allegazioni di parzialità su basi politiche, a sua volta, sin dall’entrata in vigore della nuova legislazione che prevedeva, tra l’altro, che i membri giudiziari non fossero più eletti dai magistrati, ma dalla camera bassa del Parlamento.
In questo caso la Corte di Strasburgo constata che la procedura di nomina dei giudici disciplinari era stata indebitamente influenzata dai poteri legislativo ed esecutivo, che avevano permeato il CNM di partigianeria. Ecco, dunque, che entra in gioco una più ampia considerazione del contesto ordinamentale e dei suoi vizi di funzionamento.
10. A questo punto, giova notare l’evoluzione: la struttura dei vizi nella procedura di nomina nella causa Reczkowicz è diversa da quella in Ástráðsson o Xero Flor. In Reczkowicz il difetto di procedura è riscontrato in quanto considerazioni politiche avevano influito negativamente sulla composizione del CNM, il cui operato privo di obiettività e attento alle appartenenze a sua volta, insieme alla suddetta peculiare creazione di una sezione di un organo giudiziario, aveva compromesso la legittimità della costituzione dei giudici oggetto di selezione consiliare. Non si tratta di una violazione procedimentale tout court, ma di qualcosa che in linguaggio amministrativistico nazionale chiameremmo eccesso di potere.
È un passaggio importante: la partigianeria nella nomina (frutto della viziata costituzione dell’organo di autogoverno) equivale alla mancanza di rispetto delle norme che presidiano il reclutamento e la carriera del giudice nominato.
11. Un modello decisorio simile può essere riscontrato nella sentenza Dolińska-Ficek e Ozimek c. Polonia[8]. In questa terza importante sentenza, gli accenni al rapporto tra la violazione convenzionale e le ripercussioni in vista dell’attuazione della sentenza di Strasburgo diventano più chiari. I ricorrenti – giudici che avevano presentato domande di tramutamento verso altri posti giudiziari – non erano prevalsi nella valutazione del CNM. I loro ricorsi erano dunque stati esaminati dalla neoistituita «Sezione per la Revisione straordinaria e gli Affari pubblici» della Suprema corte, l’altra delle due nuove sezioni già menzionate create a seguito della dibattuta riforma. La Corte Edu riscontra una violazione dell’art. 6, § 1, poiché, tra l’altro, la legislazione polacca aveva privato la magistratura del diritto di eleggere i membri magistrati del CNM e aveva consentito all’esecutivo e al legislativo di interferire direttamente o indirettamente (tramite il CNM) nella procedura di nomina giudiziaria, compromettendo sistematicamente il funzionamento dell’organo giurisdizionale composto dai giudici così nominati. È evidente l’ulteriore passo in avanti: rileva anche il momento “genetico” dell’indipendenza giudiziaria collegato al sistema elettorale dell’organo di autogoverno.
12. È chiaro, dunque, che in Dolińska-Ficek si va al cuore del funzionamento di un sistema ordinamentale giudiziario che non solo deve correttamente “costituire” gli organi giudiziari, ma ove deve essere correttamente “costituito” anche l’organo di autogoverno (eletto per ampia parte della sua composizione, in modo da essere immune da interferenze degli altri poteri); esso deve poi, comunque, in concreto operare dimostrando resistenza verso le interferenze. In tale ottica, la Corte di Strasburgo, ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, ha indicato che spetta allo Stato – di conseguenza – scegliere, sotto il controllo dal Comitato dei ministri, le misure generali e/o individuali da adottare nell’ordinamento giuridico interno per porre fine alla violazione constatata. La Corte si è astenuta, in detta sentenza, dal fornire specifiche indicazioni sul tipo di misure individuali e/o generali che avrebbero potuto essere adottate, ma ha menzionato la necessità di risolvere il problema dalle fondamenta.
Si noti che questo è uno dei casi in cui sono magistrati i ricorrenti a Strasburgo (ciò che è anche ovvio, trattandosi di mancati tramutamenti).
13. Un ulteriore sviluppo si ha con la sentenza Advance Pharma Sp. z o.o. c. Polonia[9]. Questo quarto caso è il più semplice della serie, in quanto riguarda una causa decisa da una sezione civile della Corte suprema (non toccata, in quanto tale, dalle riforme del nuovo regime polacco), ma allo stesso tempo il più significativo per gli osservatori, soprattutto di altri Paesi: il semplice dato, presente in questa controversia, per cui alcuni giudici della sezione erano stati nominati su deliberazione di un CNM indebitamente influenzato per i motivi di cui sopra e i cui membri magistrati non erano stati eletti dai loro colleghi è, qui, sufficiente per la violazione.
In Advance Pharma la Corte, nonostante la semplicità del caso, va avanti quanto all’indicazione delle misure necessarie per rimuovere la violazione, passando dalle misure sulla causa prossima della violazione (di cui si è detto) a quelle sulla causa remota: stante il numero significativo di precedenti sentenze non eseguite, in Advance Pharma la Corte chiaramente afferma che la prosecuzione dell’attività del CNM costituito illegittimamente e il suo coinvolgimento nelle procedure di nomina perpetuano la disfunzione sistemica. Bisogna arrestare tale dinamica.
14. Ritengo che il precedente gruppo di sentenze già chiarisca lo sforzo fatto dalla Corte di Strasburgo nell’andare alla “genetica” dell’indipendenza-imparzialità giudiziaria, affermando il ruolo che, nell’ambito della tutela dell’indipendenza-imparzialità, possono rivestire procedimenti elettorali viziati del CNM, nomine effettuate dall’organo stesso guidate da logiche di appartenenza, etc.
Si tratta ora di mostrare, in poche battute, come detta visione debba essere integrata da una seconda considerazione: come detto, è in questione il profilo relativo al ruolo degli stessi magistrati come garanti, attraverso la loro libertà di espressione, degli aspetti “genetici” dell’indipendenza-imparzialità. Qui rileva l’emergere di regole etiche che distinguono il momento in cui si debba tacere dal momento in cui si debba parlare e, in questo secondo ambito, che impongono azioni a tutela.
Da un secondo gruppo di sentenze “polacche” si può, invero, trarre la conclusione che il giudice risultante da un buon sistema di nomina non debba essere certo un muto burocrate, ma un entusiasta “difensore” dei diritti; ciò che – se va contro qualche vulgata corrente di singoli Paesi – è apparso essenziale a Strasburgo in una logica continentale.
Quello che in una visione breve può sembrare il ritratto di un giudice “parziale” è l’immagine, invece, concreta delle garanzie dell’imparzialità-indipendenza del sistema in una visione lunga.
15. Il filone giurisprudenziale recente che si occupa delle libertà di partecipazione del magistrato in Polonia, quale difensore dei diritti, sia nell’autogoverno giudiziario sia nell’arena pubblica concernente i dibattiti sulla giustizia, non può non prendere le mosse dalla sentenza di Grande Camera che si è occupata ex professo del funzionamento del CNM, considerato stavolta non tanto come organo di nomina dei giudici, quanto come organo in cui i giudici, eletti (all’epoca) dai loro pari, svolgono funzioni “partecipative” e “rappresentative” dei colleghi, considerate come compiti d’ufficio, e meritevoli di tutela ai fini dell’art. 6.
Si tratta della sentenza Grzęda c. Polonia[10], che affronta la rimozione ope legis del ricorrente, un magistrato, dal CNM prima della scadenza del mandato, senza possibilità di ottenere un controllo giurisdizionale in ordine a tale rimozione.
Si noti che – rispetto alle sentenze in cui il ruolo del magistrato come “difensore dei diritti” emergerà chiaramente –, in questo caso, tale ruolo è solo larvato.
16. L’art. 6, § 1, è qui ritenuto violato sulla base di una motivazione molto complessa, che unisce sia il mancato riconoscimento al ricorrente del diritto di adire un giudice contro la rimozione, sia l’inserirsi della “cacciata” dall’organo di autogoverno all’interno di un trend – risultante dalle sentenze della stessa Corte relative alla riorganizzazione del sistema giudiziario polacco, nonché ai casi decisi a Lussemburgo – volto ad assoggettare il CNM all’ingerenza dei poteri esecutivo e legislativo.
In qualche modo, dunque, la sentenza è importante, in quanto rappresenta un riconoscimento del ruolo dei consigli superiori della magistratura quali organi indipendenti dalla politica, essi stessi “difensori dei diritti”, per così dire, di secondo grado.
Ancora una volta – si noti –, ad agire a Strasburgo è un magistrato, il quale si ritiene leso nel proprio diritto partecipativo all’arena pubblica rappresentata dall’organo di autogoverno (e di ciò vedremo gli sviluppi in un caso concernente la Spagna, di cui dirò più avanti).
17. Quanto al ruolo dei magistrati come veri e propri partecipanti al dibattito pubblico sui diritti[11], le due sentenze di rilievo sono Żurek c. Polonia e Tuleya c. Polonia[12].
Entrambi i magistrati ricorrenti sono figure note, le cui voci critiche si sono levate contro le riforme polacche concernenti la giustizia.
Nel caso Żurek, il magistrato ricorrente, portavoce del Consiglio nazionale della magistratura, era stato rimosso dal Consiglio e, parallelamente, rimosso quale portavoce del Tribunale regionale, mentre veniva altresì sottoposto a ispezioni e a controlli tributari. La Corte ritiene la duplice violazione dell’art. 6, § 1, e dell’art. 10 (concernente la libertà di espressione).
Come in Grzęda c. Polonia (citata in precedenza), la Corte parte dalla mancanza di controllo giurisdizionale della decisione di allontanare il ricorrente dal CNM, e constata che l’insieme delle misure adottate nei confronti del ricorrente aveva avuto lo scopo di intimidirlo a causa delle opinioni che aveva espresso in difesa dello Stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura.
È memorabile, a mio avviso, il par. 222 della sentenza, laddove si dice che:
«Il diritto generale alla libertà di espressione dei giudici nell’affrontare questioni riguardanti il funzionamento del sistema giudiziario può trasformarsi in un corrispondente dovere di parlare in difesa dello Stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura quando tali valori fondamentali siano minacciati»[13].
18. Quanto alla sentenza Tuleya, essa è in parte sovrapponibile alla sentenza Żurek, in parte no.
Nei confronti del magistrato erano stati mossi diversi addebiti, che avevano portato a numerosi procedimenti disciplinari e penali, previa revoca dell’immunità dall’azione penale, e a sospensione dalle funzioni e dallo stipendio per oltre due anni. Tra le altre questioni, gli si rimproveravano la pronuncia orale di motivazioni a sostegno di una decisione – che avrebbe costituito rivelazione di segreto, con impatto negativo su un’indagine – nonché il rilascio di un’intervista e altri interventi pubblici.
Dopo che parte delle questioni erano state risolte a livello interno, rispetto alle residue questioni, la Corte ritiene la violazione non solo dell’art. 6, § 1, e dell’art. 10, ma anche dell’art. 8, stanti le pesanti interferenze sulla vita privata del giudice.
Non vi era alcun fondamento legittimo per le misure adottate, caratterizzate come una strategia mirante a intimidire il ricorrente per le opinioni che aveva espresso, conclusione corroborata non solo dalla stampa polacca e internazionale, ma anche dal Consiglio d’Europa e da altri osservatori.
Per quanto attiene all’intervista che aveva rilasciato e alla sua partecipazione a incontri pubblici, la Corte li ritiene esercizio della sua libertà di espressione, che non poteva essere compressa.
In altri termini, nel contesto indicato – come in Żurek, – la libertà di espressione del giudice si spiega in funzione del ruolo di “difensore dei diritti”; e vi è da chiedersi se – in un diverso contesto in cui la difesa del giudice fosse stata fatta propria dall’organo di autogoverno o dal capo dell’ufficio giudiziario – la conclusione sarebbe stata la stessa, nonché quali regole (certamente di natura etica) siano di presidio rispetto all’operare del relativo discernimento.
19. Dopo aver osservato le due rotte convergenti della giurisprudenza riguardante la Polonia, concernenti la prima la genesi dell’indipendenza-imparzialità, la seconda il ruolo di difensore anche pubblico dei diritti in capo al giudice, non per questo meno imparziale, non posso tacere l’attuale epilogo del percorso, che rappresenta – si spera – anche il suo approdo.
A fine novembre 2023, la Corte ha pronunciato l’importante sentenza pilota nel caso Wałęsa c. Polonia[14]. Lech Wałęsa, già Presidente del Paese, aveva intentato una causa per diffamazione contro un suo ex amico che lo aveva accusato pubblicamente di collaborazione con i servizi segreti durante il regime comunista. Nonostante che il noto ex leader sindacale avesse vinto la causa (terminata con una condanna a una pubblicazione di scuse, senza risarcimento), la sentenza in giudicato era stata revocata, nove anni dopo, dalla Sezione per la Revisione straordinaria e gli Affari pubblici della Corte suprema (di cui si è prima detto); ciò a seguito di un ricorso straordinario del procuratore generale, consentito da una riforma tra quelle contestate e ampiamente utilizzato da detto procuratore che, da un certo momento, ha cumulato in sé anche la funzione di Ministro della giustizia.
La Corte di Strasburgo ha ritenuto, come già in cause precedenti, che tale sezione della Corte suprema non fosse tribunale «indipendente ed imparziale, costituito per legge». Pertanto, il diritto di Lech Wałęsa a un processo equo ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione era stato violato unitamente al diritto alla vita privata e familiare di cui all’articolo 8.
La Corte ha osservato, tra l’altro, che l’affidamento al procuratore generale – membro anche dell’esecutivo quale Ministro della giustizia, che esercitava una notevole autorità sui tribunali e una forte influenza sul CNM – di un potere illimitato di impugnare praticamente qualsiasi decisione giudiziaria definitiva fosse contrario ai principi di indipendenza della magistratura e di separazione dei poteri, con il rischio che lo strumento si trasformasse in arma politica.
Siamo di fronte, com’è chiaro, a un ulteriore ampliamento di prospettiva: un buon ordinamento giudiziario è fatto di checks and balances, e non di concentrazioni di poteri in uomini “forti”, e il giudicato è un valore da proteggere.
20. Giova notare che, nella sentenza in questione, la Corte ha fatto uso della procedura della “sentenza pilota” ai sensi dell’art. 61 del proprio regolamento, ritenendo che, al fine di porre termine alle violazioni sistemiche dell’art. 6, § 1 della Convenzione, individuate nella sentenza in questione e in casi precedenti, la Polonia dovesse adottare misure legislative e di altro tipo adeguate per conformarsi ai dettati convenzionali in tema di «tribunale indipendente e imparziale, costituito dalla legge» e di certezza del diritto.
La sentenza – anche prima di essere formalmente definitiva, ciò che è avvenuto il 23 febbraio 2024 – si è stabilizzata, in pratica, allorché era ancora possibile la richiesta di rinvio in Grande Camera: in data 15 dicembre 2023, come comunicato sul sito del Ministero degli esteri polacco[15] e riportato dagli organi di stampa, in contemporaneità con l’insediamento del nuovo governo guidato dal premier Donald Tusk, il Ministro degli esteri Radosław Sikorski «ha inviato lettere» alla presidente della Corte di Strasburgo e ai componenti del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, «dichiarando volontà e determinazione della Polonia verso l’attuazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare quelle riguardanti i principi dello Stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura»; «il Ministro ha ritenuto prioritario attuare la sentenza pilota emessa dalla Corte il 23 novembre 2023 nella causa Wałęsa c. Polonia», nella quale la Corte «ha individuato un problema sistemico relativo alla mancata garanzia dell’indipendenza dei giudici e alla violazione del diritto a un equo processo». La nota si concludeva nel senso che «la Polonia non chiederà il rinvio del caso alla Grande Camera».
21. Dunque, gli approfondimenti giurisprudenziali della Corte di Strasburgo sui momenti genetici e applicativi dell’indipendenza-imparzialità giudiziaria, con particolare riguardo al momento della libertà espressiva dei giudici intesa come garanzia di tenuta del sistema, si sono ritrovati all’incrocio di un importante percorso storico quale quello concernente le contestate riforme in Polonia e l’exit strategy auspicabilmente in corso.
C’è ora da chiedersi se gli stessi approfondimenti abbiano un valore aggiunto. A mio avviso, essi in tanto possono valere in quanto possano avere un senso – se non, come detto, essere propriamente esportati – in ambientazioni giuridico-politiche meno accese.
Una cross-fertilisation, a mio modo di vedere, si è già avuta con la sentenza Lorenzo Bragado e altri c. Spagna[16].
In tale sentenza, ormai definitiva ma adottata solo a maggioranza (e ciò comprensibilmente dati i temi trattati), è stata ritenuta la violazione dell’art. 6, § 1, su ricorso di un certo numero di giudici spagnoli candidati nel 2018 nell’ambito della procedura di rinnovo del Consiglio generale della magistratura, organo di governo della magistratura in Spagna.
Negli anni successivi e sino alla sentenza, tuttavia, il Parlamento non aveva ancora completato la parte di sua spettanza del processo di nomina: tema questo – debbo notare con rammarico – su cui le magistrature di altri Paesi sono state alquanto silenziose.
Il ricorso per amparo presentato dagli interessati era stato ritenuto, per ragioni non chiare, inammissibile, ledendosi così – secondo la Corte – il diritto di accesso al giudice, strettamente connesso al rispetto del diritto a far parte della composizione dell’organo di governo della magistratura e, in definitiva, a partecipare al corretto funzionamento del sistema giudiziario.
La sentenza si basa molto sulla giurisprudenza relativa alla Polonia, di cui ho detto, in particolare approfondendosi il ruolo del Consiglio di autogoverno come elemento “genetico” dell’indipendenza-imparzialità giudiziaria, per i Paesi che seguano tale modello di salvaguardia ordinamentale.
Siamo, dunque, dopo i primi timidi passi in Grzęda, al riconoscimento della tutela convenzionale a favore dei magistrati aspiranti a “partecipare”, mediante l’elezione al Consiglio di autogoverno, all’arena pubblica sulla giustizia. Un traguardo importante, a mio modo di vedere, nella logica dell’equiparazione tra diritti partecipativi e libertà di espressione come presidi per l’attività del giudice “difensore dei diritti”.
22. Ho accennato prima – ed è dunque opportuno che sul punto ora concluda – all’ampliamento, nella visione “lunga” europea rispetto alla visione “corta” nazionale, degli spazi eticamente accettabili per le manifestazioni di opinioni da parte del magistrato, anche su tematiche politiche.
La punta avanzata – che ha avuto echi di stampa anche nostrana – è rappresentata dalla recente sentenza Danileţ c. Romania, del 20 febbraio 2024, non definitiva[17].
Il caso riguardava una sanzione disciplinare (decurtazione di stipendio per due mesi) inflitta a un giudice per aver pubblicato due messaggi su un suo profilo nei social media, seguito da circa 50.000 utenti.
La Corte ha ritenuto che i tribunali nazionali non avessero tenuto nella dovuta considerazione diversi aspetti, in particolare: il contesto più ampio in cui si erano inserite le dichiarazioni del ricorrente; la sua partecipazione a un dibattito su temi di interesse pubblico; l’essere o no i giudizi espressi sufficientemente basati su fatti; e, infine, l’effetto potenzialmente “chilling” della sanzione. Inoltre, l’esistenza di un pregiudizio alla dignità e all’onore della professione di giudice non era stata sufficientemente dimostrata.
Non commento qui nel dettaglio le esternazioni, alla cui lettura (sono riportate nel testo della sentenza) rinvio i lettori. Neppure commento la sentenza, posto che la stessa potrebbe formare oggetto di rinvio alla Grande Camera; ma segnalo che la Corte ha ritenuto, a maggioranza di quattro voti contro tre, che vi era stata una violazione dell’articolo 10: onde vanno, pertanto, anche lette le argomentazioni dei giudici dissenzienti.
23. Molte, dunque, sono le nuove frontiere nei pressi del crocevia tra etica giudiziaria, azione del giudice come “difensore dei diritti” e “genetica” dell’indipendenza-imparzialità.
Riflettere su di esse è certamente importante, e questa vuole essere la mia modesta conclusione; anche se resta il dubbio sulla natura velleitaria, in tale contingenza, di opere di riflessione sul diritto e sui diritti, su uno sfondo internazionale macchiato dall’orrore della guerra che scuote (anche) il nostro continente.
Se, in una prospettiva – per noi italiani – “bobbiana” della pace, la Corte di Strasburgo era destinata con altre istituzioni, nell’assetto policentrico successivo alla Seconda guerra mondiale, alla tutela internazionale dei diritti dell’uomo come «garanzia» anche «contro lo Stato»[18], bisogna prendere atto – come ho avuto modo di rilevare in altre occasioni – che il sistema non ha funzionato.
Ciononostante, data la crescente pressione, in alcuni Paesi, sui “principi” (quali l’indipendenza della magistratura, alcune questioni concernenti la società civile, il ruolo delle associazioni e in generale dei “difensori dei diritti umani”, tra cui i liberi avvocati, etc. – tutti elementi che costituiscono la “dimensione istituzionale” nazionale di tutela dei diritti), la salvaguardia dell’istituzione giudiziaria e degli stessi diritti di partecipazione degli operatori (inclusi i magistrati) era e resta una priorità, anche negli attuali tempi in cui altre guerre sono sullo sfondo.
* Le opinioni espresse sono personali e non impegnano l’istituzione di appartenenza. Le sentenze per le quali non è indicata l’autorità emanante sono ovviamente della Corte europea dei diritti dell’uomo (talora indicata come “Corte Edu” o “Corte”, senza ulteriori specificazioni). Analogamente, i riferimenti alla “Convenzione” sono alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Il testo costituisce una rielaborazione e un aggiornamento di precedenti riflessioni, solo in parte pubblicate.
1. Sia consentito rinviare, ad esempio, a R. Sabato, I recenti strumenti del Consiglio d’Europa in tema di indipendenza e responsabilità dei giudici. Il codice etico dell’Associazione nazionale magistrati, in Foro it., 2011, V, c. 116.
2. Il caso leading in tema di “difensori dei diritti” è oggi Ecodefence e altri c. Russia, 14 giugno 2022.
3. Corte di giustizia dell’Unione europea [GS], Associação Sindical dos Juízes Portugueses c. Tribunal de Contas, 27 febbraio 2018, C-64/16.
4. Per i dettagli, si rinvia a R. Sabato, An “Authority Balanced, But Not Divided” – Judicial Appointments and Protection of Judicial Independence Under Article 6 § 1 of the European Convention on Human Rights, in J.F. Kjølbro - S. O’Leary - M. Tsirli (a cura di), Liber Amicorum Robert Spano, Eleven, L’Aia (NL), pp. 603 ss.
5. Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda [GC], 1° dicembre 2020.
6. Xero Flor w Polsce sp. z o.o. c. Polonia, 7 maggio 2021.
7. Reczkowicz c. Polonia, 22 luglio 2021.
8. Dolińska-Ficek e Ozimek c. Polonia, 8 novembre 2021.
9. Advance Pharma Sp. z o.o. c. Polonia, 3 febbraio 2022.
10. Grzęda v. Poland [GC], 15 marzo 2022.
11. Circa la libertà di espressione dei giudici, vds. il parere n. 25 del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE), predisposto mentre la Corte rendeva le sentenze di cui al testo (www.coe.int/en/web/ccje/ccje-opinions-and-magna-carta). Nel gruppo di lavoro responsabile della preparazione del parere, l’Italia è stata rappresentata dalla consigliera della Corte di cassazione Valeria Piccone.
12. Żurek c. Polonia, 16 giugno 2022, e Tuleya c. Polonia, 6 luglio 2023.
13. Traduzione mia. Il paragrafo, nell’originale inglese, soggiunge:
«This duty has been recognised, inter alia, by the CCJE (see paragraph 41 of its Opinion no. 18 (2015) on the position of the judiciary and its relation with the other powers of state in a modern democracy… ), the UN Special Rapporteur on the independence of judges and lawyers (see paragraph 102 of his 2019 Report on freedom of expression, association and peaceful assembly of judges… ) and the General Assembly of the ENCJ (see paragraph (vii) of its 2013 Sofia Declaration… )». Raccomando al lettore la consultazione dei testi citati.
14. Wałęsa c. Polonia, 23 novembre 2023.
15. Cfr. il comunicato «Minister Radosław Sikorski’s letters to the President of European Court of Human Rights and to the Committee of Ministers of the Council of Europe», pubblicato in data 15 dicembre 2023 sul sito del Ministero degli affari esteri polacco (www.gov.pl/web/diplomacy/minister-radoslaw-sikorskis-letters-to-the-president-of-european-court-of-human-rights-and-to-the-committee-of-ministers-of-the-council-of-europe). La traduzione nel testo è mia.
16. Lorenzo Bragado e altri c. Spagna, 22 giugno 2023.
17. Danileţ c. Romania, 20 febbraio 2024, non definitiva.
18. N. Bobbio, Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e la guerra, Sonda, Torino, 1989, p. 95.