Giudizio, giudice e cittadino. Idee per una fenomenologia della pratica giuridica
In questo articolo si cerca di porre le basi per un ripensamento del ruolo del giudice sia rispetto alla sua funzione intrinseca, che consente di interpretarlo come organo istituzionale in grado di incidere (e decidere) sulle sorti delle vite altrui, sia come soggetto concreto, immerso nei legami sostanziali di cittadinanza. Si pone, poi, in evidenza la problematicità dell’atto del giudicare, quale attività che dovrebbe concretizzarsi in un esercizio di “empatia” nei confronti del soggetto giudicato – tramite anche il coinvolgimento esistenziale che apra a forme “politiche” di cittadinanza “attiva” –, senza che, tuttavia, questo esercizio empatico possa condurre all’abbandono dei requisiti dell’imparzialità e dell’indipendenza. Si propone, infine, un’analogia esistenziale fra il procedere della riflessione filosofica e l’articolarsi del momento del giudicare.
1. Gli attori nel diritto / 2. Giudice e avvocato / 3. L’indipendenza del giudice / 4. Empatia e imparzialità / 5. Coda: il giudice e il filosofo
1. Gli attori nel diritto
L’ontologia del diritto tradizionalmente suole articolarsi entro una sorta di quadrilatero segnato da quattro entità nel mondo. Abbiamo innanzitutto soggetti e oggetti, e poi fatti e atti. La distinzione tra soggetti e oggetti si dà secondo il criterio del punto di vista interno. Il soggetto si definisce a partire da se stesso, dai suoi stati mentali o coscienziali, dalle sue intenzioni, e dai suoi sentimenti e interessi. Gli oggetti, invece, si definiscono (melius: vengono definiti) da un punto di vista esterno ad essi, essendo entità incapaci di costituirsi secondo stati interiori e coscienziali. Tra fatti e atti si dà un discrimine analogo. Per i fatti vale solo il punto di vista esterno; per gli atti vale come essenziale e qualificante il punto di vista interno, una prospettiva che interpreti la relazione causale a partire da se stesso. Una tale ontologia è riproposta dai classici della dottrina giuridica italiana, tra gli altri da Angelo Falzea nel suo scritto «Efficacia giuridica». Ma in tale quadrilatero la posizione del soggetto non è ulteriormente elaborata, almeno non lo è nel senso istituzionale. Qui non si fa menzione del ruolo che il soggetto possa rivestire all’interno della istituzione del diritto.
E tuttavia, il diritto non può darsi senza attori. Non lo nega nemmeno la teoria giusnaturalistica, per la quale comunque, perché il diritto sia operativo, rimangono ed è necessario che vi siano un legislatore e un giudice umano, e io aggiungerei anche un soggetto autonomo, titolare di situazioni giuridiche soggettive. Ora, nella dottrina giuridica e nella filosofia del diritto, gli attori istituzionali menzionati sono fondamentalmente in numero di tre. Vi è, innanzitutto, il legislatore. Licurgo, Solone, Mosè ne sono esempi preclari e perpetuamente ricordati e, entro il possibile e permesso, imitati. Il diritto è considerato infatti un atto imperativo, un ordine, un comando, una prescrizione, tendenzialmente un comandamento negativo, un divieto, e ciò presuppone un comandante supremo, un duce, un arconte, un tyrannos, bene impersonato nella cultura greca classica da Creonte, l’implacabile zio di Antigone. La legge è cosa del capo, del signore, del kyros. Ciò è confermato paradossalmente dalla teoria democratica per cui è il popolo fattosi Stato e la sua cupola a dettare le leggi, che escludono ogni altra forma di regolazione o autoregolazione giuridica. Tra San Tommaso, Hobbes e Rousseau, su questo punto c’è poca differenza; il filo rosso è la supremazia della legge, quale che sia la sua natura e la sua retrostante giustificazione e razionalità.
La virtù richiesta al legislatore in un’ottica imperativistica e positivistica, ma anche nella tradizione giusnaturalistica, è soprattutto quella della effettività del suo comando e della sua opera. Ciò è stato riconfermato più di recente, nella teoria del diritto, tanto del giuspositivista Joseph Raz come del giusnaturalista John Finnis, entrambi dons oxoniensi. Per il primo, la natura del diritto è quella che si riduce a un’autorità capace di rendere efficaci le proprie prescrizioni. Per il secondo, l’autorità è condizione necessaria della sua propria legittimità, il che è un po’ la stessa tesi di Raz, con la sola differenza, importante, che per Finnis l’autorità deve poi giustificarsi rispetto a valori oggettivi, a beni fondamentali, mentre per Raz, il quale pure mantiene la pretesa di legittimità dell’autorità giuridica, tale pretesa potrebbe peraltro rimanere eternamente insoddisfatta. La ragionevolezza o la razionalità del legislatore, dunque, si deriva dalla capacità di supremazia effettiva che esso dispiega. La “deduzione” qui è eminentemente empirica, anche se la si presenta come “concettuale”, mai veramente normativa. La deduzione normativa si dà per Raz su un piano diverso da quello giuridico, che è quello morale, allo stesso modo con cui si può giudicare il buon uso, morale, di un’arma senza entrare nella sua interna attitudine a uccidere o compiere del male.
L’altro attore indispensabile della scena della pratica giuridica è tradizionalmente il giudice. Anzi, spesso è quest’ultimo l’attore veramente necessario perché si dia diritto. Lo dice lo stesso Kelsen, per il quale il primo passo evolutivo verso un diritto “pieno” è proprio la presenza di una qualche giurisdizione, di un “terzo” che dirima la controversia tra parti contrapposte in una controversia su ciò che è corretto fare in una determinata situazione. Così che il problema, la deficienza, del diritto internazionale per Bobbio, come per Hart, può ricordarsi, è proprio l’assenza di una sovranità “terza” capace di giudicare delle relazioni tra Stati. Qui non si dà norma di riconoscimento e nemmeno un’altra metanorma, come sarebbe quella che istituisce una giurisdizione capace di comminare effettive sanzioni, rule of adjudication – la chiama Hart.
Che il giudice sia la figura primitiva dell’esperienza giuridica pare anche confermarlo la cultura ebraica, la tradizione biblica. Si ricordi che nella Bibbia, per l’appunto, il libro sui “giudici” tratta invero di “re”, e viceversa il libro sui “re” riporta vicende di “giudici”. Lo stesso vale per la cultura greca antica, tant’è che nelle «Opere e i giorni» di Esiodo il giudice è chiamato “basileus”, vocabolo che poi significherà, com’è ben noto, “re”. Nell’ «Orestiade» di Eschilo il ciclo di vendetta e di fatti di sangue che si proietta come inarrestabile viene interrotto solo con l’istituzione di una giurisdizione, l’Areopago, cui Oreste consente di sottomettersi, così tra l’altro trovando protezione dalla furia delle Erinni. Il giudizio dunque è anche protezione, è costituzione di uno spazio sottratto alla vendetta privata. E infatti è Atene che accoglie Oreste e gli offre un giudice. È la città che insedia il giudice. Il giudizio non è affare privato, o mero arbitrato, ma cosa della sfera pubblica e nella partecipazione della cittadinanza trova evidenza.
Nell’esperienza del common law, a sua volta, il giudice si dà come emanazione del re, sia per ciò che riguarda la giurisdizione di common law in senso stretto, con i giudici itineranti, messi della giustizia regale certificata dai writs, specie di actiones che concedono rimedi e giudizi per casi determinati (l’occupazione di un terreno, per esempio), sia soprattutto per la giurisdizione di equity, che è di competenza diretta del sovrano e della sua cancelleria, e che può agire anche là dove non vi sia un writ, un rimedio formale predefinito, a sostegno della pretesa della parte che si appella al tribunale e al principio di equità. Giudice e re rimandano dunque, anche qui, l’uno all’altro. Lo stesso può dirsi dell’esperienza francese. Si ricordi per esempio il lit de justice, procedura di alto simbolismo con cui il sovrano può derogare al veto delle corti supreme per ciò che concerne la registrazione, ovvero il riconoscimento di validità costituzionale, degli atti legislativi del re. Il re come supremo giudice, seduto o quasi coricato nel “letto di giustizia”, vestito di panni regali e circondato di notabili, e nel dispiego della pompa richiesta all’uopo, rompe la forza della giurisdizione parlamentare.
Il modello decisionista di giudice, ovvero quello che lo considera e lo costruisce come una emanazione più o meno diretta del potere sovrano, non è quello che si ritrova nel processo romano antico. Il pretore dà la formula, ma non il giudizio. Qui il giudice è un laico, spesso nemmeno un giureconsulto, e tuttavia attento all’imponente dottrina giuridica che costituisce la tradizione giuridica romana, e deferente verso questa. Al giusperito chiede consiglio. La decisione, in questo contesto, passa attraverso tutta una serie di mediazioni deliberative e di saperi giuridici che non può facilmente riassumersi nell’idea del giudice re. Di quest’esperienza antica ovviamente non c’è traccia nel pensiero di Carl Schmitt, che pure spesso si avvolge di panni tradizionalisti e “romani”.
2. Giudice e avvocato
Dunque, nel diritto abbiamo due attori o personaggi principali, il legislatore e il giudice, entrambi necessari. C’è nella tradizione romana antica e, poi, in quella tardo-medievale la figura importante del giusperito, oggi talvolta e presuntuosamente autonominatosi “scienziato”. Un quarto possibile attore, l’avvocato, è solo eventuale, e così lo certifica la filosofia e teoria del diritto, che non gli dedica quasi nessuna attenzione.
Di avvocati non c’è menzione nell’opera di Kelsen, invero nemmeno in quella di Hart; Savigny li disprezza, e i realisti americani ne vedono il ruolo come quello di predittori dell’attività futura del giudice. Ancora oggi nella teoria del ragionamento giuridico si fa fatica ad attribuirgli una funzione normativa in senso proprio, oltre quella di mero consigliere prudenziale e, in buona sostanza, machiavellico della parte. Manolo Atienza non mi pare dica qualcosa di diverso al riguardo, già che sottolinea la essenziale natura di calcolo prudenziale dell’attività forense. Ulfried Neumann contesta alla teoria del discorso giuridico di Robert Alexy, incentrata sulla pretesa di correttezza, che questa non si darebbe nell’argomentazione dell’avvocato né vi sarebbe richiesta. Non si darebbe nel discorso dell’avvocato nessuna pretesa di giustizia. Lo stesso Dworkin, ottimo avvocato, per la sua “unica risposta giusta” si affida solo a un giudice “erculeo” e monocratico e non mette in gioco l’avvocato per sorreggere e giustificare la decisione tutta solitaria del giudice.
Ora, è proprio dal confronto tra giudice e avvocato che si può trarre qualche utile considerazione sulla vexata quaestio dell’indipendenza del giudice. Qui è utile riferirsi alla questione della virtù richiesta all’operatore giuridico e alla sua etica professionale. Ora, nella tradizione, la questione della deontologia del giurista pare porsi solo per l’avvocato. Et pour cause. Il giudice pare sottratto a una considerazione deontologica. Il suo unico e supremo dovere sarà d’applicare la legge, almeno a partire dal trionfo delle codificazioni. Ma ciò invero si ritrova ab origine, dall’inizio della tematizzazione giusfilosofica dell’attività del giudice. A questo proposito, si ricorderà la fine discussione che di questa si trova nel Politico di Platone, allorché è questione di valutare la capacità della norma giuridica di provvedere un criterio sufficiente al giudizio. Platone sembra scettico al riguardo, per poi però concludere che la giurisdizione, il dire diritto, la decisione del giudice, non è attività “regia”. Dunque, nonostante tutto il giudice rimane filius, non pater, iustitiae. La posizione è ribadita nelle «Leggi», l’ultima opera del filosofo greco, e così si tramanda nella cultura filosofica e giuridica occidentale fino alla ciceroniana definizione del magistrato come “bocca della legge” e alla sua ripresa famosissima nell’«Esprit des Lois» di Montesquieu.
Il giudice allora, in un senso fondamentale, non è indipendente. Dipende invece, e assolutamente, dal diritto e dalla legge che egli deve solo applicare, non anche generare. La sua è una funzione per così dire sterile, esecutiva. Il giuspositivismo dirà “neutrale”. Deve solo comportarsi come una macchina di ripetizione del dettato legislativo, “automa” – diranno Weber e Laband nel primo Novecento tedesco. La formula del “diritto libero” caldeggiata da Kantorowicz urta contro il principio della certezza giuridica. Ma questa è un’impossibile tesi, dirà Carl Schmitt nella sua prima importante monografia, «Gesetz und Urteil», del 1911. Oskar von Bülow lo aveva già detto trent’anni prima, affermando che la legge non riesce a esaurire il dettato imperativo del legislatore. Non giunge a una conclusione, e questa le è solo offerta dalla viva vox del giudice. Comunque, il giudice si proietta come soggetto cui non si richiede una specifica virtù, giacché la sua funzione lo salvaguarda dal vizio e dall’errore morale. Deve solo obbedire alla legge, perinde ac cadaver, oppure portarla a conclusione. Non vi è una tematizzazione specifica di suoi obblighi morali. Il suo dovere è tutto interno all’ordinamento giuridico. Che si mantenga all’interno di questo e avrà assolto il suo dovere.
Non vi è che un interesse che il giudice debba perseguire, quello dell’amministrazione della giustizia, non ha dilemmi morali dinanzi; la sua situazione morale è chiara e fortunata. Non vi è ambiguità deontologica nella sua funzione – o, almeno, così si crede. Diversamente si mettono le cose per l’avvocato. Nel caso di questo attore giuridico, il suo dovere è doppio, dunque intriso di ambiguità. Da un lato, deve difendere gli interessi e i diritti della parte, del cliente, e d’altro lato deve vegliare alla corretta amministrazione della giustizia. È ad un tempo rappresentante di una parte nella controversia, e organo deputato alla risoluzione giusta della controversia medesima, “organo della giustizia”. Ma come fa a dirimersi tra queste due diverse posizioni e le contraddittorie esigenze che queste gli impongono? La soluzione non sta nella sua funzione istituzionale, come accade per il giudice, e così la risposta corretta si colloca fuori dal perimetro istituzionale, lo travalica, e salta sul terreno tutto morale dell’etica professionale. Ma quale sarà allora la virtù fondamentale richiesta all’avvocato per il suo lavoro nel giudizio, nel recinto del processo, o della pratica giuridica in generale? Potrà mai essere l’imparzialità? Questa è invero l’attitudine che ci si aspetta dal giudice. L’applicazione “neutra” della legge che è suo compito istituzionale equivale e necessità di un atteggiamento di imparzialità rispetto alle contrastanti pretese delle parti.
La legge come tale è imparziale nel suo dettato universalizzabile, e tale imparzialità si trasmette per la natura della cosa, potrebbe dirsi, alla stessa giurisdizione. Un giudice parziale è un giudice “storto”, o addirittura “dorofago”, mangiatore di doni, come dice Esiodo. Ma se non è l’imparzialità la virtù richiesta all’avvocato, come attore distinto dal giudice, quale sarà questa? Nella tradizione della deontologia della professione forense vi è sul punto una quasi unanime opinione, la virtù architettonica della professione dell’avvocato è: l’indipendenza.
A questo punto sembra di essere risucchiati da un vortice di confusione. Ma non si dice da più parti che l’indipendenza è la virtù prima del giudice? Che ci ha qui a fare l’avvocato? Dunque, bisogna chiarire e spiegarsi. Il giudice, lo si è già detto, non è indipendente; dipende dalla legge alla quale è soggetto. Non è nemmeno una professione liberale quella del giudice, che è in genere un funzionario, un delegato del sovrano, che decide in nome del re o del popolo. Non decide in nome proprio, checché ne dicano i realisti, americani, scandinavi, o quelli nostrani che si affidano alla strana e implausibile discrasia tra “disposizione” e “norma”, là dove la “norma” è tutta del giudice. Il giudice ha uno stipendio, è un salariato; non ha come tale, nello svolgimento del suo lavoro, compensi professionali. È sottoposto a una precisa disciplina d’ufficio, ha un orario d’ufficio, etc. Non può decidere del suo tempo e della sua giornata. Dunque, anche in questo senso, non è indipendente.
Indipendente invece dev’essere l’avvocato. Innanzitutto dal potere politico, e molto di più del giudice. L’avvocato ha necessità di essere libero nella difesa, di non essere ostacolato, di garantire il suo cliente da soprusi e vessazioni, e possibili tormenti. Dev’essere indipendente dal giudice nel processo; il giudice deve ascoltare l’avvocato, non impedirne il lavoro in udienza, rispettarlo, riconoscerne la dignità. Ovviamente l’avvocato dev’essere libero anche rispetto al pubblico ministero, e non essere intimidato da questo in alcun modo. Ma, cosa da non sottovalutare nemmeno, l’avvocato deve risultare indipendente dal suo stesso cliente, nel senso che la sua gestione della difesa o della sua attività processuale non può essere condizionata più di tanto dal dettame del cliente. E, soprattutto, l’interesse del cliente non deve coincidere con l’interesse dell’avvocato.
L’avvocato è parziale, sì, ma con distanza – qualcuno dice “imparzialmente parziale” –, operando come una camera di raffreddamento rispetto alla pretesa della parte e soprattutto delle sue passioni e dei suoi istinti più bassi. In ciò, l’obbligo di indipendenza dell’avvocato travalica lo stesso dettame della legge. Il diritto positivo non gli dice ancora come condursi col cliente nella zona d’ombra e di contatto con gli interessi di questi. La distanza tra cliente e avvocato, e l’indipendenza di questo rispetto a quello, è sancita tradizionalmente dal divieto del “patto di quota-lite”, antichissimo divieto che rimonta alla Lex Cincia e che è stato perpetuamente rinnovato nella tradizione giuridica europea, mentre è scomparso in quella statunitense, aggravando e indebolendo la posizione morale dell’avvocato e aumentando la litigiosità presente in quell’ordinamento.
Non tutto ciò che è nell’interesse della parte deve guidare l’azione del suo avvocato, anche là dove si tratti una condotta lecita. Per esempio, nell’interrogatorio della parte avversa, o di colui che chiede un rimedio o una sanzione rispetto alla parte che si difende, la dignità e l’onore di quella persona non devono essere messe in dubbio in modo aggressivo e insultante. Dinanzi a una causa evidentemente temeraria l’avvocato deve poter rifiutarsi di seguire il cliente. E così via. Ciò significa che cliente e avvocato non sono così uniti da rendere gli interessi del cliente anche quelli dell’avvocato. La distanza tra loro va rispettata perché, tra l’altro, è questa distanza che permette all’avvocato d’agire come una sorta di specchio prudenziale rispetto alle passioni del cliente, non sempre nobili.
3. L’indipendenza del giudice
Ma se è l’avvocato, e non il giudice, a dover essere indipendente, che significa allora che il giudice dev’essere indipendente? E qui è necessario risalire dal giudice alla situazione che lo qualifica come tale, che non è la mera veste istituzionale, o l’aver vinto un concorso pubblico, bensì una certa situazione pragmatica, che è quella del giudizio. Il giudice non è altro che colui che è deputato a giudicare. Per spiegare il giudice e delucidarne anche la figura e la posizione etica, e anche politica, è al giudizio come tale, come situazione pragmatica, che bisogna guardare. Ora di giudizi ce ne sono, tanto logicamente come fenomenologicamente, almeno due tipi.
C’è l’ordinario, più o meno ovvio, giudizio cognitivo, con cui si descrive un oggetto, uno stato di cose, ovvero lo si riconosce per quello che è. La nostra giornata è fatta di una miriade di tali giudizi, più o meno espliciti. Vediamo una sedia, siamo stanchi, e vi ci sediamo. Abbiamo riconosciuto quell’oggetto come sedia, una cosa che serve a farci sedere. Siamo in macchina, scatta il semaforo verde, e ripartiamo, anche se qui oltre il giudizio cognitivo si dà un giudizio normativo, sulla condotta da tenere. Cerchiamo la penna per scrivere, e la ritroviamo sul tavolo, e diciamo tra noi e noi: “la penna è sul tavolo”. E così di continuo per renderci conto di ciò che si dà e accade, e per orientarci nel contesto che ci circonda: il letto, la stanza, la strada, la persona che ci sta davanti, che è bruna o bionda, vecchia o giovane, e così lo accertiamo, etc. E poi c’è il giudizio normativo, sulla condotta da tenere, o il valore di un certo oggetto, soggetto, fatto, o atto. Quanto il giudizio normativo sia diverso da quello cognitivo è problema che fa tremare i polsi a chi lo affronta senza pregiudizi; a questo proposito, basterebbe ricordare come per Heidegger la verità sia il risultato di un “furto”, dunque un enunciato descrittivo o una somma di tali enunciati avrebbe per presupposto un atto normativamente definibile e giudicabile. «Entdecktheit ist gleichsam immer ein “Raub”» («Lo scoprire è sempre anche una “rapina”»), leggiamo in «Sein und Zeit». Ma su ciò possiamo, in questa sede, pacificamente soprassedere.
Per ovvie ragioni, il giudizio del giudice è fatto di entrambi i tipi di giudizio, verte sul fatto, sulla norma e sul bene giuridico retrostante o sul principio di diritto e sul valore che questo esprime. Ma esso è intrinsecamente normativo per una ragione di senso comune. Verte su una condotta, e ad esso segue una condotta, una conseguenza giuridica, un risarcimento, una multa, una pena, tutte cose che incidono più o meno fortemente sui beni fondamentali dell’essere umano, del consociato e del cittadino. Sono qui in gioco le cose più preziose del consociato e dell’uomo, innanzitutto l’onore (che si vede intaccato da una sentenza di colpevolezza o di torto commesso), poi il patrimonio (che si vede danneggiato dal risarcimento o dalla pena pecuniaria), poi la libertà eventualmente (che può vedersi aggredita da un provvedimento di detenzione), infine la vita stessa (ricordiamo che la morte è ancora a disposizione del giudice in più di ordinamento). Il giudizio del giudice provoca spesso sofferenza – di tipo morale, di tipo economico, di tipo fisico. Così, è tutt’altro che una condotta cognitiva giacché prescrive ciò che è buono o cattivo in una certa situazione.
Ma come si fa a giudicare? La domanda è tremenda, e l’intera storia della filosofia e della dottrina giuridica si è arrovellata su di essa. Ovviamente c’è un qualche tipo di deduzione o relazione tra una norma generale, o un concetto generale, e un caso concreto, che si colora e si specifica sussumendolo nella norma o nel concetto. Ricordiamo che per Kant il concetto è una regola con cui l’intelletto mette ordine nelle intuizioni sensibili che gli derivano per l’appunto dalla sensazione, dal vedere, toccare, odorare, sentire, assaggiare. Ma non è cosa semplice la deduzione, la sussunzione del particolare nel generale. Il generale è una proposizione di senso, il particolare è un fatto concreto. Si tratta di due entità ontologicamente distinte. Non è un’operazione chimica, la miscela di due elementi che sono entrambi materiali, minerali per esempio. Non è un rapporto tra due distinte fonti di energia, o tra due forze in movimento. Che cos’è allora?
Trattare questo tema in questa sede, ovviamente, è impossibile e risulterebbe anche presuntuoso. L’unica cosa che mi preme sottolineare qui è che la sussunzione di cui si alimenta il giudizio cognitivo non sarebbe possibile a chi la fa, al giudicante, senza una propria esperienza del mondo, della realtà esterna, da cui trae esempi, che – come dice Kant – sono le “dande” del ragionare. I significati stessi, i concetti e termini si danno in un rapporto triadico tra significato, significante e oggetto nel mondo esterno. La relazione col mondo è necessaria per il giudizio cognitivo di carattere empirico (lasciamo da parte qui quello matematico, il calcolo numerico). Senza esperienza del mondo non c’è giudizio cognitivo possibile. Allora è bene che il giudice, quello del diritto in ispecie, che opera anche con giudizi cognitivi, abbia una buona conoscenza del mondo, della realtà. Se si chiude nella torre d’avorio della scienza giuridica e qui si isola, la sua capacità di giudizio ne soffrirebbe assai. Il giudice allora deve poter uscire dal suo studio, dall’aula di tribunale, dalla camera di consiglio, e conoscere il mondo, e acquisire un sapere empirico ed esistenziale tale da avere accesso a quanti più esempi lo possano assistere nella deduzione o, meglio, nella sussunzione del fatto concreto nel concetto generale.
Ma passiamo ora al giudizio normativo. Ora, mentre il giudizio cognitivo ha la possibilità di un riferimento al mondo empirico, che è accessibile ai nostri sensi e condivisibile con gli altri soggetti, ciò è meno ovvio e sicuro per ciò che concerne il giudizio normativo. Qui la normatività non è accertabile mediante l’accesso a un mondo empirico esterno grosso modo disponibile al senso comune e alla sensazione. Dinanzi a chi nega che “gli occhiali sono sul tavolo”, posso far valere la verità di quel giudizio mediante un appello alla verificazione empirica. Posso dire “guarda bene”, oppure “tocca qui”. E in genere la questione si risolve così.
Ma dinanzi a chi mi giudica come colpevole di una infrazione penale, là dove possono essere in gioco per esempio varie cause di giustificazione, o attenuanti, oppure il significato stesso della norma, e della fattispecie a cui questa si richiama, le cose si fanno più difficili. E soprattutto qui il giudizio può creare dolore, una conseguenza che il giudice – e, con lui, il giurista – non dovrebbero mai dimenticare. Qui devo capire cosa è successo, come si è potuta dare quella condotta che vado a giudicare, e anche valutare l’impatto che la sanzione eventuale potrà avere sulla vita del condannato. Qui, insomma, come nel giudizio cognitivo, si ha bisogno del riferimento a una realtà terza, che però in questo caso non è più offerta dal mondo meramente empirico. La realtà terza qui è la vita di chi giudico. Devo però, allora, poter pormi in quella vita, tentare di farla “mia”, anche solo per un momento. Devo esercitare empatia. Dovrei, per esempio, capire cos’è per chi lo subisce il carcere, mettermi nei panni del detenuto. Per poter essere imparziale devo agire rovesciando i ruoli, anche solo con un esercizio di immaginazione. Ma l’immaginazione si nutre di esperienza, soprattutto se l’immaginazione è un passo verso l’empatia. Ecco allora perché Leonardo Sciascia raccomanda, in un suo scritto, che un momento dell’educazione del giudice sia provare la galera, trascorrere come normale, oscuro detenuto un periodo in cella. Così si saprà cosa si dà nella condanna, e si rompe la parzialità che risulta dalla ristrettezza del punto di vista, dall’incapacità di astrarsi e uscire, tirarsi dal proprio ruolo.
Tutto ciò permette una prima conclusione. Che l’indipendenza del giudice, come sua virtù istituzionale, intesa innanzitutto come imparzialità, passa non dall’isolamento da ciò che lo circonda, dalle vicissitudini dei suoi simili, dei consociati, cui poi dovrà avvicinarsi per giudicarli. Devono mischiarsi le carte, e il giudice farsi in immaginazione giudicato possibile. Per fare ciò il giudice deve mischiarsi tra i cittadini, condividerne vicissitudini e dolori e speranze, e anche l’indignazione in materie esistenziali rilevanti. Se vogliamo chiamare questa pratica del “mischiarsi” politica, ben venga questa e sia a disposizione del buon giudice. Ma non si dica che il giudice allora non può far politica, perché così gli si negherebbe quella via all’“altro”, all’empatia, che gli è indispensabile per essere giudice giusto.
4. Empatia e imparzialità
Ma cosa accadrebbe se la ricerca dell’empatia sfociasse in una piena o intensa identificazione con la parte che va giudicata? Potrebbe definirsi un giudice che di tale esito fosse capace e ad esso giungesse ancora un attore “imparziale”, un “terzo” nel giudizio? Non ci sarebbe qui il rischio che l’empatia provocasse una perdita di neutralità, l’assenza di quella distanza dagli interessi della parte giudicata che, sola, può certificare una corretta procedura di valutazione? L’indipendenza che pure deve mantenere lo stesso avvocato rispetto agli interessi della parte difesa e rappresentata non si richiede a maggior ragione al giudice che nessun obbligo di difesa o rappresentazione di diritti o interessi di parte può far valere?
Come articolare allora lo sforzo di empatia senza che questo ci renda parziali nel giudizio? Se il “mischiarsi” nella cittadinanza è strumentale a tale sforzo, deve porsi anche la questione che l’imparzialità, oltre che mantenuta, risulti anche evidente. Il giudice sia dunque imparziale, ma sia anche tale da apparire imparziale. Ciò ci induce a fissare un ulteriore obbligo di trasparenza e pubblicità, e dei limiti al coinvolgimento negli affari dei consociati e della loro politica. Se pure coinvolto dalle vicissitudini della società di cui è espressione, e conoscitore dei problemi di questa anche in prima persona, il giudice, per essere giusto, non permette al “terzo” di farsi lui parte stessa, dunque interprete e rivendicatore di interessi e diritti. Un giudice cattolico, e legittimamente tale, non potrà esprimersi per il divieto di aborto in occasioni pubbliche di rivendicazione di tale divieto, là dove è previsibile che su quel divieto debba pronunciarsi. In condizioni analoghe, un giudice laico dovrà anch’egli astenersi di far parte di associazioni che pubblicamente e attivamente manifestino per l’eutanasia passiva. Il velo di ignoranza richiamato da John Rawls affinché si dia il contratto sociale, a maggior ragione deve ricoprire l’atteggiamento del giudice dinanzi a situazioni nelle quali la controversia è tale da coinvolgere il giudice in giudizio sui valori di convivenza della comunità.
Ciò non significa che il giudice non possa avere le sue opinioni politiche, ma ciò non può per lui valere come appartenenza a partiti o associazioni innanzitutto strutturate gerarchicamente (partiti, massonerie laiche e religiose… ). Non possono essere lo spazio in cui il giudice incontra la cittadinanza per empatizzare con essa. Si potrebbe persino mettere in dubbio che il giudice possa mantenere l’adesione ad associazioni di categoria il cui orientamento ideologico sia proclamato, specialmente in presenza di un legame più o meno organico con i partiti che si disputano l’arena parlamentare. Così come un avvocato non può essere attivo come tale ricoprendo una carica parlamentare o di governo (pratica, però, più volte verificatasi nell’esperienza italiana, in contravvenzione al principio di separazione dei poteri e al criterio deontologico dell’indipendenza), del pari il magistrato non solo deve rinunciare al suo ufficio se parlamentare o dotato di una carica di governo, ma non dovrebbe (per anni) poter ritornare a esercitare la funzione di magistrato una volta cessato l’incarico di governo o il mandato di rappresentante del popolo, o anche solo dopo la candidatura a ricoprire tali ruoli. Del pari, la distanza tra magistrato giudicante e magistrato inquirente dovrebbe essere sancita da una chiara distinzione delle carriere, in modo da impedire che un magistrato inquirente si faccia poi giudicante e viceversa, o che comunque vi sia contiguità collegiale e colleganza corporativa tra le due funzioni.
Possiamo allora giungere a una seconda conclusione: il giudice deve sì essere empatico, e dunque cittadino attivo, e condividere ambiti di discussione e persino di protesta politica, ma non deve farlo in modo da non essere e da non sembrare indipendente nel giudizio. A tal fine, ogni partecipazione a partiti e altre associazioni di struttura gerarchica deve essergli vietata. Altresì, deve evitare di pronunciarsi pubblicamente in materie che siano oggetto di controversie al vaglio di organi giudicanti, e specialmente del suo possibile giudizio, in particolare di quelle questioni che coinvolgano i temi del “buono”, della “buona vita”, e non del “giusto”. Il “buono”, tendenzialmente, dovrebbe essere sottratto al vaglio del giudice. Ma là dove si renda necessario, per esempio nelle forme di perfezionismo morale che si richiedono in certi momenti della regolazione giuridica, o nella questione sulla forma di vita complessiva di una comunità – e si tratta di un momento essenziale del contratto sociale, anche se Rawls tende a non vederlo –, in questo spazio il giudice deve fare un passo indietro. Qui deve esercitare una sorta di astinenza epistemica, mantenendo fedeltà solo al dettato della legge, ai principi generali del diritto, e alla Costituzione. Insomma, deve ritirarsi nel recinto dell’ordinamento giuridico, ora però vivificato dalla pratica cittadina di empatia.
La distinzione tra morale e diritto, più volte evocata, trova la sua vera giustificazione non in una pretesa incapacità di fondamento della norma. Il diritto ha che fare col “giusto”, con la regola della convivenza, e qui si può intervenire, con prudenza e carità, con la regola coattiva comune e con la sanzione, però sempre con riferimento a una chiara necessità morale. La morale ha che fare anche col “buono”, l’ambito della “buona vita”, del progetto di vita che ciascuno dà alla propria esistenza, e qui la norma coattiva non ha vero diritto di cittadinanza, e in questo terreno il giudice, almeno in via di principio, dovrebbe resistere alla tentazione d’intervenire.
5. Coda: il giudice e il filosofo
Può porsi un’analogia tra giudice e filosofo. Il terreno comune è offerto innanzitutto dalla ricerca del giusto e del vero che contraddistingue la loro attività, con la differenza però che, in primo luogo, il giudice deve attenersi alla datità tanto fattuale quanto normativa presente nella comunità, e non può fare un decisivo salto trascendentale. Il giudice, poi, è retto dal tempo, deve decidere e non può rimandare la sentenza; il filosofo non ha la clessidra dinanzi a sé, come invece l’avvocato, come ancora vide Goethe in un processo a Venezia nel Settecento. Il filosofo, in via di principio, non ha tempi; il giudice sì che li ha, anzi gli sono essenziali e connaturati per ciò che concerne il giudizio, che deve concludersi il più celermente possibile. La dilazione qui è colpevole. Non invece nella filosofia, dove attardarsi anzi è segno di maturità intellettuale e di comprensione del pensare quella cosa così difficile da attingere che è la verità.
La comunanza tra giudice e filosofo potrebbe, però, rinvenirsi ancora in una comune attitudine all’apprendimento della morte. Per filosofare bisogna imparare a morire – è tesi di Platone nel «Timeo». Alla ricerca delle verità eterne il corpo, con i suoi dolori e piaceri, con la sua stessa propria goffaggine, pesantezza e mancanza di pulizia e di silenzio, ci è di troppo, ci ostacola; distrae la mente, la lega alla contingenza di specifici bisogni, di certi interessi, la rende dipendente e parziale. Una radicale cura di ascesi è indispensabile al filosofo che voglia giudicare il mondo. Del pari, potremmo aggiungere, una pratica di ascetismo si richiede al giudice. Questo si deve poter pensare slegato da bisogni specifici che potrebbero renderlo dipendente dalle parti del giudicare e dai potenti di turno, ansiosi di indirizzare il suo giudizio.
Lo spazio del giudizio del giudice dev’essere vuoto delle corporeità del giudice oltreché della sua storia esistenziale; altrimenti potrebbero avere ragione i cinici realisti che vedono il giudice determinato dalla buona o cattiva digestione, a seconda del pasto fatto prima della sentenza. Gastronomia e diritto si fonderebbero con un esito veramente inassumibile. La sentenza sarebbe come un riflusso dell’esofago del giudice. La corporeità deve allora risultare assente nel momento del giudizio. Dovrebbero poter valere solo ragioni universalizzabili. Ma – e qui subito si presenta un dubbio – senza attenzione al corpo, o alla propria storia, come fare a operare empaticamente, a condividere con l’immaginazione la situazione della parte e la sua esigenza materiale, corporea, di giustizia (che è l’appiglio cui si afferra l’empatia)? Ci si potrà mettere nei panni degli altri se chi tenta questo esercizio si è spogliato dei propri?
Nelle «Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime» Kant afferma che le norme dell’imparzialità «vi impongono al singolo momento di tralasciare l’azione a cui vi sentite spinti». Al riguardo, l’esempio di Kant è il seguente. Incontriamo un poveraccio che ci chiede del danaro. Ne ha bisogno impellente. La sua misera condizione giustifica la richiesta e agisce su di noi con la forza di un impulso alla benevolenza. Ma la somma che ci chiede il povero è stata da noi impegnata per pagare un debito. Dunque, quel primo impulso alla pietà e alla carità deve cedere alla considerazione (imparziale) di un obbligo più alto, quello di estinguere il debito da noi contratto. Ma siamo sicuri che questa sia una forma genuina di imparzialità? E possiamo ignorare che l’impulso cognitivo alla carità contiene un elemento cognitivo, niente affatto irrazionale?
Su questo punto inciampa, per poi non rialzarsi, la metaetica emotivista, tanto diffusa tra i giusfilosofi nostrani da Genova a Palermo, passando per Milano e Bologna. Questa teoria sostiene che i giudizi di valore sono solo scariche di emozioni, adrenalina pura, atteggiamenti impulsivi, dietro i quali non può esserci giustificazione alcuna. Ma l’emotivismo non comprende bene la fenomenologia della vita emotiva. Ho un’emozione perché un certo oggetto o stato di cose me la provoca. Aborro la tortura perché questa si presenta a me come un atto di assoluta crudeltà e un momento di estrema sofferenza. Approvo il “reddito di cittadinanza”, perché esso allevia povertà ed emarginazione. L’emozione ha una causa e un oggetto. Anch’essa, direbbe Husserl, è “intensionale”, ha uno stato di cose su cui verte. Ora, se fosse così, potrei essere criticato e confutato nell’emozione che esprimo col mio giudizio di valore. Se la tortura non è quel fatto di estrema crudeltà che mi rappresento, e qualcuno me lo dimostra, allora potrò rivedere la mia emozione, e il mio coevo giudizio. Se il reddito di cittadinanza non allevia miseria e marginalità, e c’è prova di ciò, la mia emozione potrà dirsi priva di giustificazione. Dunque il giudizio, pure dettato da emozioni, è sempre soggetto a verifiche, confutazioni e giustificazioni.
Se il giudice imparziale dovesse condursi secondo l’esempio che Kant ci mette davanti agli occhi, allora è la legge e solo la legge, al di qua di ogni altra considerazione morale, che lo deve muovere. Si badi che l’“impulso” che Kant mette da parte nell’esempio menzionato non è egoistico o egocentrico, ma per il filosofo tedesco vale come se lo fosse. Tutto ciò che non è riconducibile alla forma di legge rompe l’imparzialità e la giustizia della possibile condotta. Ciò però, sappiamo, lo conduce a esiti implausibili e crudeli, come quello di dover applicare la pena di morte a tuti i condannati a questa pena in una comunità che si sta dissolvendo e prima che lo faccia. L’imparzialità di Kant ricorda il rigorismo freddo e implacabile di un tribunale del Terrore rivoluzionario o, avvicinandoci al nostro tempo, la decisione impietosa del caso Serena Cruz, pure e sorprendentemente difesa da Norberto Bobbio, in nome per l’appunto della supremazia della legge e dello Stato di diritto. Ma ciò non può davvero essere un esito accettabile e raccomandabile per il giudice imparziale.
* Per commenti, suggerimenti e incoraggiamento ringrazio il Consigliere Enrico Scoditti, e i Professori Giuliano Amato, Riccardo Guastini ed Enrico Pattaro. Ovviamente la responsabilità per le tesi qui sostenute è solo mia.