Magistratura democratica

Imparzialità o normalizzazione?

di Geminello Preterossi

L’indiscutibile ricerca dell’imparzialità, per quanto riguarda la magistratura, non può giustificare un esercizio omissivo del controllo di legalità. La magistratura batta un colpo, quando la democrazia è in pericolo (e il caso più insidioso è quando è sfidata dall’interno delle istituzioni), poi dovrà essere la vigilanza democratica di tutti a fornire le necessarie risposte politiche. Un rilancio, all’altezza del presente, del progetto etico-politico della nostra Costituzione dovrebbe vedere partecipe anche la magistratura.

1. Il concetto di imparzialità rinvia a quello di neutralità: i loro significati appaiono, in generale, come abbastanza ovvi (chi giudica, e il contenuto del giudicato, non possono essere di parte). Ma cosa significa ciò, nel profondo? Superiorità rispetto alle parti? Fuga dal contenuto per ripararsi nell’astrazione formale? Ignorare presupposti, contenuti, implicazioni di quanto si giudica? Non rischia di delineare, una tale declinazione dell’imparzialità, una connotazione di neutralità apparentemente pura, ma in realtà ambigua, perché si spinge fino all’indifferenza rispetto all’oggetto e al contesto? Ed è davvero così “neutrale” un atteggiamento del genere? La lotta contro il formalismo (non la “forma”!) si è nutrita, nella fase politicamente espansiva del costituzionalismo democratico, di precise ragioni di politica del diritto, in primis della necessità di operare un disvelamento del carattere ideologico e strumentale di un uso politico della neutralità volto a sterilizzare le implicazioni dei principi costituzionali e dell’irruzione del fatto, della materialità sociale nell’ordinamento (cfr. art. 3 Cost., comma 2). Sotto il velo della neutralità può nascondersi la refrattarietà di un ordine sociale gerarchico alla piena compenetrazione tra costituzionalismo democratico e giurisdizione.

 

2. Qual è il rapporto tra imparzialità e neutralità? La neutralità è una caratteristica richiesta a determinate decisioni, che pertiene ai loro contenuti normativi; ma “neutri” devono essere, o poter essere considerati, anche i “poteri” chiamati a prenderle. Neutralità come non politicità, potremmo dire. O perlomeno come non compromissione con punti di vista particolari, polemici, legittimi nell’arena della società civile e nella dialettica democratica, ma non congrui nell’ambito di esercizio di determinate funzioni istituzionali, chiamate a risolvere questioni, o a decidere casi (come nel caso della giurisdizione), in una modalità il più possibile scevra da partigianerie, aderendo solo a quanto le forme giuridiche e l’interesse comune prescrivono[1]. L’imparzialità rimanda più direttamente ai “soggetti”, all’atteggiamento e persino ai tratti di personalità che sono richiesti da una peculiare posizione di terzietà. “Imparziale” significa terzo, impermeabile rispetto alla pressione degli interessi, alle istanze e ai punti di vista di parte: presuppone un dispositivo di immunizzazione del decisore. “Neutrale” sembra indicare prevalentemente una sorta di indifferenza (nella misura del possibile), di non coinvolgimento rispetto al particolarismo di determinati contenuti. Ma è evidente che entrambi i termini-concetto rinviano a un’area semantica comune e sono, pertanto, affini. Ma quella neutralità quale “quasi indifferenza” come va intesa, più nel dettaglio? 

Come si accennava, certo non nel senso di un’indifferenza “assoluta” rispetto al merito delle questioni, vuoto contenutistico e assiologico coperto dall’ossequio alla procedura. La “forma”, volta a garantire una posizione strutturale di superiorità rispetto alle parti da cui deriverebbero certezza del diritto e garanzia dei diritti dei convenuti, assicurate dalla ritualizzazione procedurale agganciata piramidalmente al “terzo”, non è funzionale alla fuga dal contenuto sociale, ma a garantire un modo di trattarlo “istituzionalizzato”, che si struttura a livelli diversi di politicità o di garanzia procedurale. Tale complessa articolazione tra forma, rito e verticalità, che è premessa della costruzione dello Stato di diritto, con le sue garanzie di certezza sanzionatoria erga omnes, presuppone il paradigma dell’istituzionalizzazione statalistica moderna, la cui assenza in chiave monopolistica (Stato mondiale) sull’arena internazionale spiega il suo carattere anarchico, che rende non credibile, rebus sic stantibus, l’ipotesi di una piena giuridificazione delle relazioni internazionali nella forma della civitas maxima

Ancora: tale forma di terzietà implica un atteggiamento notarile, passivo, che si limita a prendere atto, oppure una neutralità attiva, una certa dinamica ricerca di soluzioni neutre? Questa domanda vale per l’attività della magistratura ordinaria, ma ancora di più per quel peculiare organo giudicante, a cavallo tra diritto e politica, che è la Corte costituzionale, nonché per il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica. Nella misura in cui la neutralità di cui stiamo parlando deve portare a una decisione, e non impedirla, si ha qui un senso positivo, e in qualche modo attivo, della nozione di “potere neutro”. 

Carl Schmitt ha distinto, con la consueta, tagliente acutezza, tra varie tipologie di neutralità[2], individuando due grandi aree semantiche: una negativa (che impedisce la decisione), l’altra positiva (che ad essa conduce). Nell’ambito di quest’ultima, si segnalano: la neutralità nel senso dell’obiettività e della concretezza sulla base di una norma riconosciuta. Fin dal lavoro giovanile Gesetz und Urteil, Schmitt, pur individuando chiaramente l’elemento discrezionale implicito nel momento decidente, realizzativo del diritto nel caso concreto, ha individuato nel vincolo alla norma il tratto caratteristico della decisione giurisdizionale: una visione realistica ma in fondo tradizionale, che tenda a separare chiaramente giurisdizione e politica, decisione giudiziaria e decisione sull’eccezione (il motivo fondamentale per il quale non è opportuno, a suo giudizio, che a custodire la costituzione sia una corte, per quanto di specie particolare); la neutralità come esternità (ad esempio, dello straniero che esercita una funzione di protettorato), che assicura il massimo dell’estraneità ai conflitti interni, e quindi di terzietà “strutturale”. 

Il perfetto “neutrale” in tale senso è Ponzio Pilato. Ma “lavarsene le mani” può comportare la più grande delle ingiustizie, tanto che l’attitudine pilatesca è divenuta un paradigma non di neutralità efficace, ma di rinuncia e, in sostanza, fallimento del potere rispetto a una questione di giustizia non sterilizzabile attraverso una neutralizzazione estrinseca. Gli altri due significati di neutralità attiva si collocano ai due antipodi del “tecnico” (che decide neutralmente sulla base di una competenza) e della “decisione statale”, la cui natura è politico-istituzionale, perciò interventista, ma neutrale rispetto agli interessi frazionali, per garantire e promuovere l’unità dello Stato, neutralizzando contrasti interni distruttivi. Hegelianamente, facendo un passo oltre Schmitt, tale passaggio può costituire non solo una relativizzazione via forza, che si impone plebiscitariamente, ma anche un superamento contenutistico, che individua una soluzione superiore ed effettivamente generale. In ogni caso, stiamo parlando del potere “neutro” di un’istanza apicale terza, politica ma non partigiana, come il Capo dello Stato, la cui neutralità non è meramente notarile, perché implica un’attività moderatrice e di impulso autorevole, a tutela dell’indirizzo fondamentale dell’unità politico-costituzionale. Ma dove si colloca la distinzione tra indirizzo e moderazione, decisione politica e impulso ad agire convergendo con la volontà del Presidente? Si può individuare e difendere tale limite, purché il potere neutro non pretenda di arrogarsi il potere di indirizzo politico, sostituendosi alla rappresentanza in generale e alla maggioranza di governo in particolare, ponendo veti di natura politica e proponendosi come punto di riferimento di una sorta di maggioranza “presidenziale” o di “partito del Presidente”. Si tratta, in ogni caso, di un equilibrio delicatissimo, soprattutto quando sono in gioco questioni controverse e il sistema politico-istituzionale vive fasi di travaglio e instabilità. 

 

3. Per quanto riguarda il tratto soggettivo implicato dalla posizione di imparzialità del giudice, è evidente che vi sono elementi psicologici e formativi che contribuiscono a forgiarla. L’imparzialità è cioè anche un problema di cultura e di indole della persona che si trova investita di una funzione giudicante. Ciò vuol dire che, ai fini della selezione per attribuire tale delicato ruolo, non sarebbe male riuscire a tener conto di tali tratti, e soprattutto che si tornasse a valorizzare una formazione culturale complessa (e non meramente tecnicistica, parcellizzata e nozionistica) per formare, scegliere, valutare e promuovere i magistrati. Tanto l’inquirente quanto il giudicante devono saper giudicare, valutare, ponderare, vedere i nessi, ciò che significa collocare in un contesto complesso, che deve essere decifrato, e inserire questa cognizione articolata, profonda del caso nella trama, il più possibile obiettivamente ricostruita, degli enunciati normativi. Un lavoro che implica solida cultura umanistica, storica e filosofica alle spalle, consapevolezza della natura teoretico-pratica della giurisprudenza (un sapere che si fa prassi, che guida la prassi e ha un’incidenza diretta nella vita delle persone, e proprio perciò ha bisogno di quadri teorico-critici solidi), coscienza della funzione sociale della scienza del diritto e dell’impatto storico-politico delle sue scelte. Il sistema giuridico, che pure ambisce alla neutralità (o a un certo suo grado), con le decisioni che è chiamato ad assumere inevitabilmente sancisce o sposta rapporti di forza, legittima o sanziona, interviene nella realtà sociale, nel mondo umano, cioè prodotto dagli uomini a partire da se stessi, dalla loro volontà, introducendovi qualcosa di nuovo, determinando un effetto non spontaneo. Una nozione molto vicina a quella di «seconda natura» di cui ragionava Hegel nel § 4 dei Lineamenti di filosofia del diritto, quale «terreno dello spirituale» che è, significativamente, il medesimo terreno del Recht, inteso in senso ampio, come «idea del diritto» che si traduce in ethos, storia, Verfassung, non come mero dato legalistico. 

Le cose stanno diversamente nel caso del civile (soprattutto quando sono in gioco questioni bioetiche, come si è detto), e anche del costituzionale, soprattutto se è chiamato a intervenire su situazioni non normate dal legislatore. In questi casi, la considerazione ermeneuticamente espansiva del giudizio, la sua funzione di raccordo tra istanze sociali e sistema istituzionale, la conseguente valorizzazione della piena cognizione dei contesti sociali e delle spinte a “dire il diritto” che in esso si manifestano, conducono alla legittimazione di un vero e proprio creazionismo giudiziario giustificato in nome del non liquet[3]. Siamo proprio così sicuri che, se si palesa un’istanza rivendicativa, automaticamente il giudice sia chiamato a rispondere, e tendenzialmente in chiave di espansione della sfera dei diritti, anche in assenza di intervento legislativo, ciò che rischia di mettere in questione quell’autonomia della scelta che appartiene precisamente all’indirizzo politico? Insomma, il fatto che il legislatore non intervenga sarà pure legato a pigrizia, mancanza di coraggio, e soprattutto alla difficoltà di individuare compromessi alti in Parlamento sulla scia di un dibattito aperto e approfondito (come invece accadeva negli anni settanta e ancora, in parte, negli anni ottanta), ma resta un dato di fatto obiettivamente “selettivo” di interessi e istanze valoriali che, sia frutto di una impasse o di una scelta consapevole, costituisce un limite politico-democratico insormontabile. 

Abbiamo dunque una sorta di sistema idraulico-compensativo: al crescere dell’interventismo in tema di nuovi diritti, bioetica, etc., non solo corrisponde una normalizzazione del penale, ma si accompagna una crescente cautela sui temi sociali (sanità, scuola, lavoro, previdenza e assistenza, dove nell’ultimo trentennio, e in particolare dalla crisi del 2008, è accaduto di tutto, in direzione demolitiva). A naso, precisamente quello che l’establishment neoliberale auspicava: espansionismo dei diritti in chiave individualistica, contrazione di quelli sociali e collettivi, ridimensionamento del controllo di legalità, soprattutto in merito all’intreccio tra finanza, poteri criminali e poteri pubblici, e ai grandi affari che tale triangolazione gestisce su scala globale (traffico di armi e droga, trattamento illegale di rifiuti tossici, appalti legati a grandi eventi e grandi opere, il tutto convogliato in vettori finanziari con funzioni di ripulitura e speculazione, etc.). C’è da chiedersi, amaramente, se sia lo stesso disegno inscritto nella Costituzione. Ma anche da un punto di vista strettamente teorico-giuridico, siamo proprio sicuri che quella neutralità ostentata e irrigidita del penale sia così neutra e garantistica, o non nasconda un’opzione a favore di equilibri indicibili, da arcana imperii, che evidentemente si ritiene debbano essere sottratti, anche in uno Stato costituzionale, al controllo di legalità, e un intento rieducativo, minatorio verso magistrati che non si sono ancora rassegnati alla palude, e non si concepiscono come meri burocrati (o “manager” che devono assicurare mera efficienza quantitativa bagattellare, rassicurante e innocua)? 

Magistrati del genere sono destinati ad applicare il principio di legalità (che è anche costituzionale e non solo legislativo, ricordiamolo) solo entro la soglia – che, evidentemente, secondo certe tendenze normalizzanti, dovrebbe essere interiorizzata fino a divenire un habitus psicologico – della criminalità organizzata, pensata come corpo rigidamente separato dai poteri formalmente legali: un corpo composto soprattutto da manovalanza, esibibile quando necessario al cittadino che chiede sicurezza per rassicurarlo, e da “colonnelli” e capi, questi ultimi sacrificabili solo quando inevitabile, se non più protetti da “apparati” pronti a garantirne la latitanza, sulla base di cinici accordi di convivenza e calcoli il cui prezzo è una scia di assassini e il proseguimento indisturbato delle loro attività direttivo-criminali. Il tutto mentre colletti bianchi e poteri costituiti collusi dovrebbero essere il più possibile immunizzati, protetti dalle interferenze della sfera penale: è questo il garantismo che si ha in mente, quando si parla di “giustizia giusta”? Chi potrebbe essere contro un processo “giusto” (in un certo senso, una qualificazione superflua, tautologica, perché un processo in un ordinamento che pretende di essere “costituzionale” non può certo essere ingiusto)? Il problema è la retorica garantista, assai pelosa, che serve a proteggere classi di cittadini sulla base della loro appartenenza sociale e del loro rapporto di intrinseca colleganza a certi poteri. Ovvero, la negazione anche sul terreno penale dello Stato sociale democratico, così come delineato dagli artt. 1 e 3 della nostra Costituzione. Le implicazioni in termini di politica giudiziaria sono conseguenti: di fronte ai grandi fatti che hanno segnato la storia della Repubblica, i quali obiettivamente rivestono una grande valenza politica, ci si deve arrestare. 

 

4. A volte, guardandosi intorno, vedendo certe speculazioni edilizie, o ragionando su certi fatti di cronaca amministrativa, politica, istituzionale, o leggendo di determinate vicende finanziarie, confesso che mi è sorta spontanea la domanda: ma la magistratura che fa? Una domanda che anni fa era meno frequente, e comunque non riguardava il complesso della magistratura come potere tra i poteri. Basti pensare all’esempio del contrasto al consumo abusivo del territorio, e ricordarci il fondamentale ruolo svolto da certe inchieste, anche con il sostegno di un’opinione pubblica più attenta o forse meno rassegnata, e sulla spinta di un associazionismo attivo e intelligente, che si mobilitava a tutela del patrimonio artistico e ambientale (una spinta civile che portò, tra l’altro, all’approvazione della “legge Galasso”). Oggi spesso, girando per le nostre città, pare di assistere a delle notizie di reato a cielo aperto, se solo si hanno occhi per vedere. Spero che la maggioranza dei magistrati non pensi che è meglio inabissarsi in un rassicurante tran tran, magari coperto da un cieco efficientismo senza qualità. Esistono molte eccezioni a questo tran tran, per fortuna, ma non paiono in sintonia con lo spirito del tempo che si vuole imporre, in generale. Intendiamoci, la palude c’è sempre stata, anche ai tempi dei pretori d’assalto, o della lotta al terrorismo, alla mafia, al malaffare. Ma nella magistratura come nella società civile esisteva, palesemente, una dialettica viva, e il coraggio dell’iniziativa, che non fa girare la testa dall’altra parte. La scelta di tornare a potenziare il potere dei capi degli uffici ha forse inciso su tale attitudine? O è un problema anche di cultura, di mentalità generale, di rassegnazione di fronte a chiari messaggi che sono arrivati, dopo la stagione di attivismo giudiziario, che naturalmente ha avuto anche le sue ambivalenze e i suoi eccessi? Forse, conseguiti determinati risultati politici, quella stagione doveva chiudersi? Non sarà che, siccome alcuni di quelli che allora erano all’opposizione – tanto in politica quanto nella magistratura – ora sono establishment, si è determinata una nuova saldatura che muove dal vertice e arriva in basso, nel senso della normalizzazione? 

Personalmente ho sempre ritenuto che pensare di poter risolvere problemi politici generali per via giudiziaria fosse illusorio. Ma non ho mai avuto dubbi sul fatto che l’autonomia che ha consentito a Falcone, Borsellino, Caponnetto, Chinnici, Galli, Alessandrini, etc. di fare fino in fondo il proprio dovere fosse un valore preziosissimo, che implicava non un ruolo politico di parte, o corporativo, che sarebbe stato censurabile, ma una funzione di presidio civile che la magistratura in uno Stato democratico non può non svolgere, soprattutto a fronte di fenomeni politico-criminali di inaudita gravità. Oggi, ma è da tempo così, nella costruzione del discorso pubblico, si tende a monumentalizzare questi esempi, ma per archiviarli e seguire ben altre strade. Forse non è un caso che i nomi che ho fatto, che rappresentano una certa tipologia di magistrato, erano soli, cioè privi di protezioni politiche e corporative, già allora. Esauritasi la delega cinicamente conferita loro da uno Stato che non era in grado di difendersi (dal terrorismo come dalla mafia), sono stati disinnescati. Forse non è un caso se oggi, a fronte di risultanze processuali, del lavoro di commissioni parlamentari, di dichiarazioni (anche recenti) dalla evidente rilevanza di esponenti delle istituzioni e degli apparati di sicurezza, di testimonianze dalla portata dirompente prima non disponibili, insomma di elementi significativi e obiettivamente nuovi che riguardano vicende fondamentali che hanno segnato la nostra storia e sulle quali, palesemente, non tutto è stato chiarito (per utilizzare un eufemismo), la scelta sia quella dell’imbarazzato silenzio e dell’immobilismo. Basta nominare i delitti Moro e Pasolini, e la vicenda di Emanuela Orlandi (ma a naso ci sarebbe molto da approfondire su molti altri fatti eclatanti che hanno segnato la lunga strategia della tensione italiana, che giunge fino alle stragi del 1992/93, e sulla striscia di sangue che segue il caso Moro, presumibilmente funzionale a cementare la falsa verità “contrattata” che è stata ammannita agli italiani per anni, e che da tempo palesemente non regge più: infatti, sia detto per inciso, gli ex-terroristi a lungo ciarlieri in passato si sono fatti singolarmente silenti). Il fatto che siano già stati celebrati dei processi non è sufficiente a stendere una coltre di silenzio definitiva, che rischia di essere omertosa. A fronte di rilevanti elementi di novità, e di delitti efferati che non vanno certo in prescrizione, di vicende gravissime che hanno inciso sulla storia e la coscienza del Paese, come si può rimanere inerti? È vero che una risposta piena potrà venire solo da una scelta di verità della politica, delle istituzioni (ad esempio, sull’immane depistaggio su Borsellino, un’enormità accertata con cui chiaramente non si vuole fare i conti). Ma la pervicace volontà di rinserrarsi in arcana imperii che non sono certo compatibili con lo Stato costituzionale va subita senza reagire? Non si può che aderire a questa logica da bunker assediato, da presidiare a dispetto delle opacità, che è una delle ragioni che impedisce un discorso di verità sul Paese, sulla sostituzione del vincolo esterno al vincolo interno (cioè al patto con noi stessi), sul fallimento dell’ultimo trentennio? Farlo non sarebbe solo connivenza e viltà. Sarebbe rinuncia a esistere politicamente, rassegnazione a una democrazia di mera facciata. 

Davvero certe “verità processuali”, che ormai fanno acqua da tutte le parti, devono rimanere sigillate per sempre? Davvero pensiamo sia possibile sancire una separazione (non una distinzione) tra verità giudiziaria e verità storica tale che la prima sia del tutto sganciata dalla realtà storica, e quest’ultima ricondotta a un mero genere letterario, a una narrazione come un’altra, che ognuno sceglie sulla base di preferenze o convincimenti soggettivi, che non hanno alcuna portata realistica? Invece l’effettività esiste: il diritto come ordinamento si fonda nel suo complesso su di essa (Kelsen docet), la storia come Wirklichkeit, realtà effettuale, non è un raccontino istituzionalmente irrilevante da esibire in un talk show, in competizione con altre “maschere”, così da alimentare una generale, evidentemente funzionale confusione. È chiaro che gli strumenti della storiografia e dell’analisi politico-istituzionale da una parte, e quelli dell’accertamento giurisdizionale dei fatti dall’altra, sono diversi (anche se il paragone tra storico e giudice è un classico), ma l’oggetto è lo stesso. Se i processi non hanno più a che fare con la realtà storica e politica, di cosa parlano, a cosa servono? Per difendere se stessi, per non dare fastidio alle istituzioni? Non ci si rende conto dell’immane caduta di credibilità che questo atteggiamento di rumoroso silenzio, di passiva indifferenza, di indispettita, talvolta isterica negazione aprioristica della necessità di approfondimento produce nella cittadinanza? La fuga dalla ricerca della verità rischia di enfatizzare un senso soffocante di opacità, che genera sfiducia e defezione dalla democrazia. Tutto ciò a me pare fare pendant con l’idea che non sia possibile alcuna alternativa, che l’agenda politica e socio-economica sia precostituita dal “pilota automatico”, tanto che partecipare, impegnarsi, persino votare sembra sempre più inutile a vasti strati della cittadinanza, in particolare tra quei ceti popolari che maggiormente si sentono tagliati fuori.

Il rapporto tra giurisdizione e storia è sempre stato al contempo stretto e problematico (anche perché, di fatto, implica il nesso giustizia-politica). Ma una cosa è ribadire la necessaria distinzione tra l’accertabile con irrefutabile certezza in un contesto processuale penale (dove è richiesta una sorta di prova aggiuntiva di realtà, composta al contempo dell’oggettività inequivoca dell’azione e della sua piena riferibilità al soggetto in questione), e una verità storico-politica, che si fonda sì su elementi di fatto, documentali, oltre che su interpretazioni, tali da configurare un credibile contesto di condotte reali, il cui statuto non assurge però necessariamente al livello “penale”. Altra cosa è sostenere che le due strade siano così rigidamente separate, da scindere la stessa effettualità, e le relative condotte in essa operanti, in qualche modo sdoppiandola in una fattispecie storico-narrativa (di cui il diritto dovrebbe disinteressarsi) e in una penal-garantistica (che dovrebbe disinteressarsi della sostanza storico-politica della comunità di riferimento, così come del contesto e delle circostanze relativi ai fatti sottoposti a esame giurisdizionale). Portata all’estremo, tale tesi significherebbe che quella storica è mera fiction, che non riguarda né esibisce fatti: un esito post-modernista, che perde di vista il riferimento razionale alla realtà. Sull’altro lato, quello della verità giudiziaria, il rischio è pure la perdita della realtà, della sua complessità, oltre che della funzione di rammendo sociale cui il potere giudiziario è chiamato a contribuire, in nome qui di uno sminuzzamento formalistico dei fatti e di una frantumazione acritica dei contesti, di un interdetto a tener conto di quella complessità e a ricostruirla, che conduce la giurisdizione a un’ottusa afasia su fatti rilevanti, a ignorare e rimuovere la realtà storica di una collettività organizzata e dei suoi attori. L’esito di quest’altro eccesso ermeneutico che può derivare da un approccio di rigida separazione formalistica tra storia e giurisdizione (che vale sempre, o solo per il penale?) può condurre a una forzatura altrettanto pericolosa, per il sistema giudiziario, di quella implicita nella politicizzazione della giurisdizione (non quella oggettiva, cioè frutto della natura politica dell’oggetto in questione, che è in qualche modo inevitabile, perché insita nella “materia” del caso, ma quella soggettiva, dovuta a un’azione giudiziaria non serena perché non indipendente): la forzatura per cui la problematicità della qualificazione giuridico-penalistica dei fatti sarebbe tale, implicando standard specifici assai alti, da richiedere l’eliminazione di fatti accertati e rilevanti dalla stessa ricostruzione giudiziaria, se non immediatamente e aprioristicamente qualificabili penalmente. Che è come dire che i magistrati (inquirenti e giudicanti) non devono farsi troppe domande e devono espungere tutto ciò che complica il quadro, evitando di sporgersi sulla dimensione storica ed etico-politica; soprattutto, che non devono cercare di rispondere a certe domande, che assillano la coscienza civile di un Paese. Ma una sentenza non può, per un malinteso garantismo formalista, abolire i fatti, fare come se non fossero esistiti, tanto più quando sono storicamente, socialmente, istituzionalmente eclatanti. Sarebbe negazionismo storico-politico per via giudiziaria: un approccio per nulla neutro. Salvo ritenere che compito della magistratura, e soprattutto dei suoi vertici, non sia solo quello di garantire un controllo formale di legittimità e di svolgere una funzione armonizzante di natura nomofilattica, ma anche quello di preservare determinati equilibri da arcana imperii. Ma di quale Stato, poi? Non certo di quello costituzionale e democratico. Una Suprema Corte che si ponesse, anche solo in determinati casi “eccezionali”, come il velo giudiziario del “volto di Gorgone” (sempre Kelsen) di un potere legittimato dalla ragion di Stato, entrerebbe in rotta di collisione con lo Stato costituzionale “preso sul serio”. 

Non si creda di cavarsela affermando che di certe cose se ne deve occupare la storia, come si trattasse di mere narrazioni ideologiche o di querelles storiografiche relative ai Sumeri. Non si tratta qui archeologia, ma di storia viva e sanguinante. Certo, ribadiamolo, occorrerebbe un’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni politiche. Ma nell’Italia fondata sul sacrificio umano di Aldo Moro, usato come capro espiatorio, esibito come “colpevole”, pavido ed egoista, durante il sequestro (somma ingiustizia, mostruosa, i cui autori sono inscusabili) e poi santificato come vittima, nell’Italia che replica lo stesso schema sacrificale con Falcone e Borsellino, e che si ritrova poi a scegliere di sostituire al vincolo interno, cioè alla Costituzione repubblicana, il vincolo esterno (che ci ha messo nelle mani di “disciplinatori” orientati ai propri interessi, affossandoci), nell’Italia che non è in grado di fare un discorso di verità con se stessa sulla sua storia repubblicana, e di fare i conti con il fallimento della strategia “tecnocratica” imposta nell’ultimo trentennio, è difficile immaginare un sussulto di coraggio e dignità. Eppure solo questo scatto, che speriamo possa compiersi un giorno per una spinta incontenibile dal basso, e che trovi anche una nuova classe dirigente adeguata, in grado di raccoglierlo, potrebbe far entrare nelle finestre di certi Palazzi un’aria più pura, disperdendo il “puzzo” del compromesso regressivo che stiamo vivendo. Solo se saremo in grado di ritrovare con realismo, o forse addirittura di ricostruire da capo, la strada ardua che conduce fuori da questo guado, ritroveremo “la bellezza del fresco profumo della libertà”. Certo, bisogna sapere che oggi è tutto più difficile, rispetto alla stagione costituente, perché allora c’era un’energia etico-culturale poderosa che aspettava solo di dispiegarsi, mentre oggi la natura anarchica e opaca del potere globale dell’Occidente si è dispiegata in tutta la sua potenza nichilistica e impotente, fiaccandoci, consegnandoci all’apatia. 

 

5. Personalmente ritengo sia giusto circoscrivere le potenzialità del diritto, soprattutto penale, riconoscerne i limiti. È saggio non pretendere di risolvere i problemi di sistema di un ordinamento per via giudiziaria. Ma esiste una questione generale di legittimazione, di politica del diritto in generale e di politica giudiziaria in particolare, che non può essere scansata, soprattutto in una democrazia moderna, che vive di una fondazione dal basso, cioè di un riconoscimento minimale diffuso da parte dei consociati. La ricerca dell’imparzialità, in sé giustissima (anche come attitudine psicologica, come ethos personale), non può giustificare un esercizio omissivo del controllo di legalità. Insomma, l’imparzialità non può essere una copertura d’altre operazioni (anche perché così si delegittima l’imparzialità stessa, come telos). Scansare lo sguardo da quanto ci turba non ne elimina la pericolosità. E se lo si fa con convinzione e compiacimento c’è qualcosa di opaco dietro il velo di questa presunta, ostentata neutralità. La magistratura batta un colpo, quando la democrazia è in pericolo (e il caso più insidioso è quando è sfidata dall’interno delle istituzioni), poi dovrà essere la vigilanza democratica di tutti a fornire le necessarie risposte politiche. 

Destoricizzazione della cultura (anche giuridica), spoliticizzazione delle istituzioni e della società, naturalizzazione dell’economia sono dispositivi ideologici tipicamente neoliberali, cioè di quella peculiare ideologia che nega se stessa, la propria polemicità, e pretende di essere l’ultima visione dell’umanità pacificata, dominante da più di un trentennio. Una visione totalizzante che ha prodotto anomia globale e un vero e proprio processo di decivilizzazione politica, culturale e persino estetica dell’Occidente. Aderire acriticamente a una concezione della giurisdizione assimilabile a tali impostazioni significa consegnarsi, come giuristi (teorici e operatori del diritto) alla visione del mondo dei poteri forti globali, la cui natura non è certo democratica né costituzionale, ma finanziaria, tecnocratica e repressivo-militare: essi configurano obiettivamente un assetto reazionario anti-politico, magari alla bisogna travestito da perbenismo woke, da pseudo-progressismo globalista e da umanitarismo strumentale e bellicista. 

In un quadro del genere, ritengo non casuale che si tenda a riesumare visioni di presunta neutralità e apoliticità, di fatto astoriche e profondamente ideologiche, nella misura in cui spacciano come neutrale ciò che non è. Uno strumento privilegiato per difendere legalmente l’ordine costituito dei privilegi, del diritto del più forte, è sempre stato infatti quello di nascondersi dietro astrattezza, tecnicità e formalità. Questa consapevolezza non è certo appannaggio dei soli marxisti, ma anche di storici non formalisti che hanno compreso appieno la natura materiale dello Stato costituzionale del secondo Novecento, che è la forma d’ordine pluralista, inclusiva e partecipativa dello Stato delle masse (altrimenti condannato alla nazionalizzazione passiva delle masse medesime nelle forme dei regimi autoritari di matrice “fascista”). Mi riferisco in particolare alla scuola fiorentina fondata da Paolo Grossi, e in particolare, per quello che riguarda l’ambito costituzionale, a Maurizio Fioravanti. Attualmente quell’ordine costituito dei privilegi è rappresentato, in primis, dalla nuova costituzione economica di Maastricht, che si è sovrapposta a quella lavorista e partecipativa stabilita, come progetto da realizzare, nella nostra Costituzione del 1948, ed espressiva della costituzione materiale antifascista e socialmente avanzata che la sosteneva. Nell’ultimo ventennio il “popolo”, per ben due volte, ha salvato la Costituzione, benché inattuata in molte parti, da interventi manipolatori, evidentemente in virtù di un’affezione istintiva e del sospetto che ci si volesse liberare anche della sua normatività formale, fattasi ingombrante in una fase di crisi egemonica del neoliberalismo ed emergenzialismo permanente, cui si è aggiunto oggi un vero e proprio neo-bellicismo. Si tratta di capire se questo “miracolo” sia replicabile nella temperie attuale, e soprattutto se sia possibile un passo ulteriore, cioè quello di riattivare un nuovo vincolo interno, un “noi” in grado di rilanciare, all’altezza del presente, il progetto etico-politico della Costituente. Anche per la magistratura, potersi riagganciare a tale energia trasformatrice insita nel patto costituzionale, contro la regressione contemporanea, sarebbe un balsamo vivificante.  

 

 

1. Sulla strutturale, tragica complessità della funzione giudicante, cfr. il recente saggio di A. Lo Giudice, Il dramma del giudizio, Mimesis, Milano, 2023.

2. Cfr. C. Schmitt, Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 191.

3. Sul tema, si vedano le lucide osservazioni di M. Luciani nel suo recente Ogni cosa al suo posto, Giuffrè, Milano, 2023.