Magistratura democratica

Il pubblico ministero “parte imparziale”?

di Giovanni Canzio

Al pubblico ministero non si addice la veste di “parte imparziale” (un ossimoro!), ma non gli è estraneo il dovere di «agire e apparire agire liberi da qualsiasi influenza esterna indebita sui procedimenti giudiziari», con speciale riguardo agli effetti perversi del populismo penale e del processo mediatico. All’esito di una rilettura della garanzia di indipendenza dell’organo, seguono alcune riflessioni critiche sul progetto di separazione delle carriere dei magistrati.

1. Intersezioni. Imparzialità e indipendenza del pubblico ministero / 2. Le buone ragioni dell’indipendenza del pubblico ministero / 3. Aporie. Il processo mediatico e il populismo penale / 4. Il dovere e la responsabilità del pubblico ministero di «agire e apparire agire liberi» / 5. Eterogenesi dei fini. La separazione delle carriere

 

1. Intersezioni. Imparzialità e indipendenza del pubblico ministero

Nel breve e fulminante saggio intitolato «Il pubblico ministero è parte»[1], Giacomo Matteotti affermava con particolare vigore che il pubblico ministero, nel sistema processuale penale e nell’esercizio dei poteri assegnatigli, in particolare, dagli artt. 1 e 179 del “nuovo” codice di procedura penale “Finocchiaro Aprile” del 1913, andava decisamente considerato nella sostanza come parte: questa, intesa come colui che può far valere o contro il quale è fatta valere la pretesa penale. 

La tesi era sostenuta dal giurista in aperto dissenso con l’opposta annotazione recata in proposito nella «Relazione al Re», per la quale quella del pubblico ministero sarebbe, viceversa, una posizione «più nobile e imparziale al di sopra delle parti». 

Una parte imparziale, dunque, secondo il pensiero del legislatore dell’epoca. In realtà un ossimoro, a ben vedere, e però ancora oggi tralaticiamente ripetuto[2]

Osservava Matteotti che indubbiamente il pubblico ministero dispone dell’azione penale per fini superiori di giustizia, per il rispetto e l’osservanza della legge e per un interesse collettivo, pubblico e generale, cioè dello Stato; difende gli interessi della collettività offesa da un reato e può, se del caso, alla luce delle prove raccolte, chiedere l’assoluzione dell’imputato o l’esenzione della pena in suo favore. Ma tutto ciò non rileva ai fini dell’attribuzione della qualità di parte, perché sottende soltanto che il contrasto fra il pubblico ministero e l’imputato è essenzialmente potenziale: esso può, ma non deve necessariamente sussistere.

Ad avviso del giurista polesano, le norme di procedura confermavano la qualità di parte del pubblico ministero, nella veste di organo della collettività persecutrice, ribadendo che: «La divisione dei poteri su cui si fondano i moderni regimi costituzionali e la divisione delle funzioni, fra le quali anche la “funzione persecutiva” assegnata “agli organi esecutivi dello Stato”, permettono codesto apparente assurdo di uno Stato che è giudice e parte nel tempo stesso; fino a quando almeno sembreranno sufficienti quelle garanzie d’indipendenza di cui sono circondati gli organi di giustizia… organi sempre più autonomi».

Il pensiero di Matteotti sulla figura del pubblico ministero, pur senza volere trarne conclusioni sopra le righe, apriva fin dai primi anni del Novecento scenari inediti e di attuale modernità in tema di disciplinamento dei due diversi organi statuali di giustizia, il pubblico ministero e il giudice. 

Si pensi innanzitutto al riconoscimento della condizione di piena parità delle parti davanti al giudice (questo sì, davvero) terzo e imparziale, in funzione del corretto equilibrio del rapporto fra accusa e difesa secondo i principi di quello che oggi si qualifica come il «giusto processo» ex art. 111, comma 2, Cost. Come pure all’aspro dibattito aperto intorno alla lettura politica delle differenti forme ordinamentali: da un lato, l’unità della magistratura inquirente e giudicante, attratti pur nella diversità delle funzioni nella comune cultura della giurisdizione secondo l’ispirazione dei Costituenti; dall’altro, la separazione fra pubblico ministero e giudice, non più e non solo riguardo alle funzioni, bensì anche alle carriere, invocandosi in tale direzione la necessaria modifica della legge fondamentale[3]

Se appare logicamente contraddittorio pretendere che l’azione del pubblico ministero sia improntata ai caratteri della imparzialità e della terzietà, come prefigurati per l’attività del giudice, neppure può dirsi, tuttavia, che all’opera del pubblico ministero risulti affatto estraneo il precetto valido per ogni magistrato di «agire e apparire agire liberi da qualsiasi influenza esterna indebita sui procedimenti giudiziari» (precetto dettato dall’art. 60 della raccomandazione n. 12, adottata il 17 novembre 2010 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa – «(…) sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità»).

Al pubblico ministero non s’addice dunque l’attributo di “parte imparziale”. E però, al conseguimento dell’obiettivo valoriale espresso con la formula sopra richiamata ben può soccorrere una rinnovata lettura e declinazione delle forme e dei contenuti del principio di indipendenza del pubblico ministero: un nodo nevralgico nei rapporti fra i poteri dello Stato e un cardine fondamentale dello Stato di diritto[4].

 

2. Le buone ragioni dell’indipendenza del pubblico ministero

Che il pubblico ministero sia un organo di giustizia che agisce «nella dimensione della legalità e della solidarietà costituzionale»[5] e che, a tal fine, debba godere, come ogni altro magistrato, di uno statuto di autonomia e indipendenza da ogni altro potere dello Stato non è revocabile in dubbio. Ma la conquista recente di tale statuto non va data affatto per scontata e irreversibile, una volta per tutte, considerato che un analogo modello non viene riconosciuto dagli ordinamenti giudiziari della quasi totalità dei Paesi dell’Europa continentale e, in special modo, da tutti i Paesi di common law, nei quali il radicale sistema accusatorio del processo accentua i caratteri di dipendenza o comunque di stretto collegamento del pubblico ministero con il potere esecutivo. 

In una operazione ri-costruttiva delle ragioni di un principio che, dopo 160 anni dall’Unità nazionale e ad oltre 70 anni dalla Costituzione, ne giustifichi l’attualità, sembra utile procedere a un breve excursus storico del lungo e travagliato percorso istituzionale. 

Nello Statuto albertino del 4 marzo 1848, la magistratura era direttamente dipendente dal Re, capo del potere esecutivo (art. 68: «La giustizia emana dal Re ed è amministrata in Suo nome dai giudici che Egli istituisce»), mentre il pubblico ministero, gerarchicamente sottoposto al Ministro della giustizia, non veniva neppure menzionato. Il controllo della magistratura restò affidato dal primo ordinamento giudiziario dello Stato unitario – rd 6 dicembre 1865, n. 2626, (“Cortese”) – al Ministro della giustizia, mantenendo distinte le carriere della magistratura, giudicante e requirente. Al di là di qualche timida spinta verso tendenze più liberali con le leggi nn. 511/1907 e 438/1908 (“Orlando”) e con il rd 14 dicembre 1921, n. 1978 (“Rodinò”), il potere giudiziario, ancor prima dell’avvento del fascismo, godeva dunque di un’indipendenza piuttosto debole.

Il regime fascista allestì nel corso del ventennio, dal primo rd n. 2768/1923 (“Oviglio”) fino al rd n. 12/1941 (“Grandi”), un assetto ordinamentale centripeto e rigidamente limitativo dell’indipendenza della magistratura, articolata secondo una struttura gerarchico-piramidale. 

Il decreto Oviglio definì «funzionari dell’ordine giudiziario», indifferentemente, «gli uditori, i conciliatori, i vice-pretori, i pretori, i vice-pretori anche onorari, i giudici di ogni grado dei Tribunali e delle Corti, i membri del pubblico ministero ed i funzionari di ogni grado delle cancellerie e segreterie giudiziarie». Il decreto Grandi rese ancora più stretti i rapporti di subordinazione del pubblico ministero all’esecutivo, perché non era possibile tollerare «organi indipendenti dallo Stato medesimo, o autarchie, o caste sottratte al potere sovrano unitario, supremo regolatore di ogni funzione» («Relazione al Re», p. 40), secondo un disegno totalitario e una sempre più netta gerarchizzazione del sistema giudiziario, al cui vertice era posto lo stesso Ministro della giustizia. 

Alla caduta del regime autoritario, i primi governi di liberazione nazionale si preoccuparono di adottare una disciplina transitoria che recuperasse un certo grado di indipendenza e autonomia del sistema giudiziario. In particolare, la novità più rilevante del rd.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 sulle guarentigie della magistratura riguardò proprio la figura del pubblico ministero, definito per la prima volta organo indipendente, titolare principale dell’azione penale, preposto all’esatta osservanza della legge e alla regolare amministrazione della giustizia, nei confronti del quale il Ministro aveva solo un’azione di vigilanza. 

Insediatasi il 25 giugno 1946 l’Assemblea costituente, Piero Calamandrei, eletto presidente del rinnovato Cnf e chiamato a far parte della Commissione dei 75 presieduta da Umberto Terracini, alla quale era rimesso il compito di occuparsi dell’ordinamento costituzionale della Repubblica, elaborò la «Relazione sul potere giudiziario e sulla suprema corte costituzionale», contenente n. 26 basi di discussione. Venivano in essa illustrati i capisaldi della nuova concezione dell’ordinamento, tra i quali l’estensione anche ai pubblici ministeri dell’indipendenza dall’esecutivo. All’esito di un serrato dibattito fra le diverse posizioni culturali e ideologiche, prevalse nell’Assemblea il progetto di Calamandrei, che rivendicava l’autonomia del potere giudiziario e l’indipendenza dell’intera magistratura, sia giudicante che requirente, nel perseguimento del comune fine di giustizia e di garanzia dei diritti dei cittadini.

Del titolo IV della Costituzione del 1948, rubricato «La Magistratura», due sono le norme-chiave che segnano la netta cesura col regime fascista e il passaggio allo Stato di diritto, al fine di assicurare, insieme con l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti della persona: gli artt. 104 e 101.

L’art. 104, comma 1, definisce l’intera magistratura «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» e ne affida il comune presidio a un organo di governo autonomo, il Csm. Secondo l’art. 101, i giudici amministrano la giustizia «in nome del popolo» (comma 1) e «sono soggetti soltanto alla legge» (comma 2), vincolo, questo, rafforzato dalla prescrizione dell’art. 111, comma 6, per il quale «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati».

L’esercizio della giurisdizione viene affidato in via esclusiva ai magistrati, funzionari dello Stato non elettivi, la cui opera, siccome soggetta solo alla legge e alla ragione, si vuole sottratta alle mutevoli logiche e ai condizionamenti delle maggioranze politiche e del consenso popolare. Una concezione, questa, ben distante da quella giacobina, per la quale anche il magistrato dev’essere espressione della volontà del popolo: un’eccezione al principio di partecipazione democratica, rispondente alla precisa volontà di liberare i magistrati dai vincoli che la stringevano all’esecutivo e al potere politico. 

Sicché l’Assemblea costituente decise che pure il pubblico ministero dovesse appartenere all’unico ordine giudiziario, sulla base di una comune cultura della giurisdizione, e fruire della medesima garanzia di indipendenza dei giudici, anche in considerazione della lettura del principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) in funzione dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. 

 

3. Aporie. Il processo mediatico e il populismo penale

Negli ultimi decenni, accanto al potere d’intervento del giudice-interprete, nel compito di co-formazione o parziale creazione della regola adeguata al caso concreto, è andato crescendo, anche e soprattutto, il potere d’inchiesta del pubblico ministero. Questi, avvalendosi nella fase investigativa dei moderni strumenti tecnologici e informatici e del sempre più diffuso utilizzo dei media e dei social network, appare talora svolgere un’opera anticipatrice e di supplenza nella governance dell’economia, della politica e delle relazioni umane e sociali, ponendosi così al centro del quotidiano dibattito pubblico sulla giustizia. 

D’altra parte, la postmodernità ha reso complicato il rapporto fra la categoria del tempo e la funzione di giustizia, determinando una seria frattura del paradigma classico di jus dicere[6]. Poiché la giurisdizione si muove lungo scansioni e cadenze dialettiche mirate agli obiettivi di equità, qualità, autorevolezza e stabilità della decisione, è evidente il disallineamento del linguaggio giudiziario e della sua comunicazione rispetto al comune agire quotidiano, che appare orientato intorno all’essere e al vivere compressi dalla perenne connessione a internet, schiacciati dalla contingente istantaneità digitale del presente continuo e del tutto accade ora[7]

Nella morsa di questa contraddizione fra i tempi lunghi e le soluzioni incerte del giusto processo e le contrapposte, legittime e pressanti ansie di legalità e sicurezza dei cittadini e delle vittime, s’annida il nucleo del conflitto fra l’attesa di giustizia e il diritto applicato, con il conseguente privilegio accordato ai pur provvisori esiti delle indagini, alla preventiva privazione della libertà personale e alla gogna mediatica che colpisce da subito l’indagato (e non solo), quasi in funzione di una presunzione di colpevolezza e di un’anticipata esecuzione della pena. 

Sicché, anche laddove l’inchiesta e l’ipotesi di accusa formulata dal pubblico ministero venga smentita a distanza di tempo (spesso di troppo lungo tempo dalle indagini, già di per sé lunghe) all’esito della verifica dibattimentale dinanzi al giudice terzo e imparziale, la tardiva decisione risulta ormai irrilevante, talora addirittura impopolare, senza che si avvii alcuna riflessione sulla complessità dei fatti e delle prove, sui principi del diritto penale di fattispecie, sulle regole di garanzia del processo e sulla funzione di controllo delle impugnazioni.

Inoltre, la credibilità del sistema è messa in crisi dalla circostanza che non di rado è lo stesso pubblico ministero, forte di un indebito intreccio di relazioni con gli organi della stampa e dei media, a comunicare e valorizzare l’ipotesi accusatoria e il suo operato attraverso tali organi, o nel contesto di social network e talk show, relazionandosi direttamente con il popolo e con la politica, persino con l’esecutivo. “Porte girevoli” invero censurabili, queste, grazie alle quali il pubblico ministero, al di là e fuori del suo ruolo istituzionale, viene ad assumere l’impropria e spesso inadeguata veste di prevalente – se non esclusivo – storyteller dei casi e delle questioni di giustizia, di cui si fa rappresentante o addirittura promotore di revisioni legislative ad hoc, anziché operare nel contesto storico-spaziale e secondo le regole del procedimento o del processo. 

Bias cognitivi e aporie nella presa di decisione sono ascrivibili – com’è noto – anche a variabili attinenti alla sfera ideologica, valoriale o morale; di conseguenza, l’impatto della comunicazione mediatica sull’opinione pubblica può incidere negativamente, dall’esterno, sulla coerenza logica della rappresentazione dei fatti e della costruzione mentale della storia[8], la cui verifica dovrebbe essere invece sottoposta al confronto dialettico fra le parti e alla valutazione del giudice. 

Ci si riferisce, insomma, alla inesorabile macchina del rito mediatico, causa e prodotto, insieme, del fenomeno che prende il nome di «populismo penale»[9]

La descrizione della macrofisica e della microfisica del sistema mass-mediatico e dell’agire dei suoi protagonisti – l’indagato, la vittima, i terzi, il pubblico ministero, l’avvocato, il giudice – ne rimarca inesorabilmente i connotati di anomia, atopia e acronia, propri di quella «giustizia senza processo» illustrata da Lewis Carroll nel suo più celebre romanzo[10]. Sicché, appare inevitabile che alla degradazione del tessuto complessivo della procedura possa talora accompagnarsi la scarsa tenuta del precetto, comune a ogni magistrato – perciò anche al pubblico ministero –, di «agire e apparire agire liberi» da ogni condizionamento o influenza esterna indebita.

 

4. Il dovere e la responsabilità del pubblico ministero di «agire e apparire agire liberi» 

Come evitare, allora, il rischio che il principio dell’indipendenza del pubblico ministero non sembri una formula vuota di contenuti e non venga considerato come l’ingiustificato privilegio di una casta? E che l’asse della legittimazione della magistratura inquirente si sposti dal perimetro dello Stato di diritto sul terreno del consenso popolare, agevolando il diffondersi del deprecabile fenomeno del cd. populismo giudiziario? Che fare perché valga concretamente anche per il pubblico ministero la prescrizione comune a ogni magistrato di «agire e apparire agire liberi» da ogni condizionamento o influenza esterna indebita, secondo una formula pure contraddittoriamente ascritta all’area della imparzialità con riguardo a un organo che riveste la qualità di parte

Orbene, l’indipendenza della magistratura inquirente da ogni altro potere e dalla stessa volontà popolare dovrebbe essere declinata secondo un nuovo modello ordinamentale e deontologico che ne arricchisca lo statuto in termini radicalmente più impegnativi, nel confronto con la nuova dimensione del magistrato europeo e con le garanzie di effettività della tutela dei diritti della persona e della presunzione d’innocenza in uno Stato di diritto. 

Laddove sembra destinato a crescere il terribile e odioso potere d’inchiesta, dovrebbe crescere proporzionalmente il perimetro dei doveri e della responsabilità di colui che l’esercita, così da effettivamente agire e apparire agire liberi. In termini, pertanto, di arricchimento dell’equilibrio e della maturità professionale, delle doti di ragionevolezza, proporzionalità, trasparenza, efficacia e qualità degli atti, di capacità di ascolto e di rispetto della dignità delle persone, di sobrietà e riserbo anche nei comportamenti extrafunzionali e nei rapporti coi media, di etica del limite e del dubbio. 

Dando così il giusto peso all’area dei doveri e della responsabilità, l’esercizio dell’attività d’inchiesta verrebbe meglio inteso come servizio anziché come potere.

Quali i possibili rimedi contro il rischio di una deriva ideologica, etica e valoriale?

Per un verso, si fa appello agli anticorpi culturali di una più intensa vigilanza dei protagonisti del processo e di una “ecologia” dell’informazione e della comunicazione, per il profilo della deontologia e della responsabilità della professione. Nella prospettiva della comunicazione in ambito giudiziario, l’ENCJ nel rapporto «Public Confidence and the Image of Justice», discusso a Lisbona il 1° giugno 2018, e il Csm con la delibera dell’11 luglio 2018, recante «Linee guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale»[11], suggeriscono di implementare l’efficacia della performance comunicativa degli uffici giudiziari in termini di oggettività, chiarezza, comprensibilità e tempestività. Vengono elencati, in particolare, una serie di doveri professionali nei confronti delle persone, attinenti al rispetto della vita privata, della sicurezza e della dignità dell’imputato e dei suoi familiari, dei testimoni, dei terzi, della vittima e delle persone vulnerabili, delle garanzie della difesa e della presunzione di non colpevolezza, del diritto dell’imputato e delle altre parti di non apprendere dalla stampa o dai media quanto dovrebbe essere loro comunicato in via formale, nonché gli specifici doveri di chiarezza nella distinzione di ruoli tra magistratura requirente e giudicante, e di rispetto da parte del pubblico ministero delle decisioni giudiziarie, contrastandole non nella comunicazione pubblica bensì nelle sedi processuali proprie.

Per altro verso, sul terreno del processo penale, i recenti interventi di riforma prendono l’avvio dal dato inconfutabile della irragionevole durata del processo italiano, che presenta tempi di definizione di molto superiori alla media europea. Si è preso atto del controverso rapporto fra il fattore tempo e la funzione di giustizia, pretendendo un cambio di passo nella rapidità, trasparenza e comprensibilità dei provvedimenti ai fini della verifica della rispondenza del sistema giudiziario alla Rule of Law e ai principi dello Stato di diritto. 

Invero, l’eccessiva durata dei giudizi, oltre a determinare uno squilibrato rapporto fra pubblico ministero e giudice fin dentro le indagini, reca un serio pregiudizio sia alle garanzie delle persone coinvolte – indagato, imputato, vittima, terzi – sia all’interesse dell’ordinamento all’efficace accertamento e alla persecuzione dei reati, determinando una seria frattura della tradizione giuridica occidentale e una deriva dei valori anche etici del giusto processo. Va dunque rovesciato il paradigma per il quale, nel contrasto fra i tempi lunghi e le soluzioni incerte della giurisdizione e le legittime e pressanti aspettative di sicurezza e legalità dei cittadini, sarebbero le cadenze asfittiche del processo a giustificare il cedimento di questo e il privilegio accordato ai pur provvisori esiti delle indagini, ridando respiro, per contro, ai momenti della ricostruzione probatoria del fatto, della verifica dell’ipotesi di accusa e dell’accertamento della verità in tempi ragionevoli, e nel rispetto delle garanzie dinanzi al giudice terzo e imparziale.

Di qui il delinearsi dei possibili antidoti alla ipertrofia dell’inchiesta sulla base di un più razionale assetto istituzionale dei “poteri” nel suo svolgersi, che oggi risulta affidato alle linee della riforma del processo penale di cui alla legge delega 27 settembre 2021, n. 134 e al conseguente d.lgs 10 ottobre 2022, n. 150, nonché al contestuale rafforzamento della presunzione di innocenza con il d.lgs 8 novembre 2021, n. 188. 

Su questi presupposti culturali si snoda la logica ricostruttiva del “modello Cartabia” per riportare in equilibrio – seppure ancora parziale – i rapporti fra pm e giudice dentro le indagini preliminari, attraverso una serie di interventi sul rito diretti ad aprire già in taluni momenti topici di quella fase, assurta oggi a indiscusso baricentro mediatico del processo, talune «finestre di giurisdizione»[12]

Che si tratti di una riforma di impronta liberale è dimostrato dalla portata innovativa e anche etica del pressoché contemporaneo d.lgs 8 novembre 2021, n. 188, recante disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento della presunzione di innocenza dell’imputato. Il testo della direttiva, nei vari considerando (in particolare, dal n. 17 al n. 20), presenta significative aperture all’effettivo recepimento delle concrete garanzie per il rispetto di tale diritto dell’imputato e della dignità delle persone[13].

Va tuttavia rimarcato che tanto le linee-guida della delibera Csm 11 luglio 2018, coerenti con le indicazioni degli organismi europei, quanto le specifiche prescrizioni del d.lgs n. 188/2021 sul rafforzamento della presunzione di innocenza stentano faticosamente a decollare. Ad esse si frappongono ingiustificate resistenze culturali e corporative, insieme con obiettive difficoltà pratiche di organizzazione dei servizi da parte degli uffici competenti[14]

Sicché è dato purtroppo assistere a frequenti episodi di illegittima diffusione di dati sensibili, lesivi della dignità e riservatezza e della presunzione di innocenza della persona, e di persistente violazione del dovere di garantire la tutela dei diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento o addirittura dei terzi estranei. 

La sterilizzazione o, almeno, la mitigazione di siffatti deprecabili episodi, con la puntuale repressione di eventuali violazioni della relativa garanzia, potrebbe contribuire, seppure in tempi non brevi, a un più responsabile e critico approccio sia dei media che dell’opinione pubblica alle gravi distorsioni causate dal fenomeno del cd. populismo giudiziario[15].

 

5. Eterogenesi dei fini. La separazione delle carriere

Mette conto, a questo punto, di svolgere alcune considerazioni critiche in replica al pur legittimo e autorevole disegno legislativo di separazione delle carriere (oltre che delle funzioni) dei giudici e dei pubblici ministeri.

Il progetto, che prevede la sostanziale destrutturazione di larga parte del vigente modello costituzionale sull’ordinamento della magistratura, sul sistema di governo autonomo e sull’obbligatorietà dell’azione penale, sembra potenzialmente destinato a determinare, di riflesso, una più spiccata autoreferenzialità (anche nei rapporti con la narrazione mediatica e con l’opinione pubblica) e un ancora più accentuato distacco – o indifferenza – della pubblica accusa rispetto alle sorti del processo e all’accertamento della verità. 

L’organo di giustizia sarebbe naturalmente sollecitato ad assumere il ruolo di incontrastato vertice della polizia giudiziaria, con la disponibilità di rilevanti risorse di personale e tecnologiche e con la funzione di dirigere indagini finalizzate al raggiungimento di obiettivi concreti e immediati, che potrebbero pure apparire sconnessi dalla lontana nel tempo e imprevedibile opera del giudice – terzo e imparziale – di ricostruzione probatoria dei fatti e della verità nel contraddittorio fra le parti. 

Sembra evidente il rischio che, per una paradossale eterogenesi dei fini, prevalgano vieppiù logiche di chiusura corporativa, opposte alla linea, tracciata dalla Costituzione, dell’attrazione ordinamentale del pubblico ministero nel sistema e nella cultura della giurisdizione. 

In poche parole, con il distacco del pubblico ministero dal perimetro della giurisdizione si viene prospettando la costituzione di un secondo e autonomo potere giudiziario, indipendente da ogni altro potere dello Stato e dallo stesso potere pertinente alla giurisdizione in senso stretto, sulla base di un eccentrico e inedito modello nel panorama della giustizia internazionale, nel quale non è dato rinvenire il riconoscimento di un così largo statuto di autonomia e indipendenza a favore di un pubblico ministero “separato” dal giudice e dalla giurisdizione. Con l’effetto collaterale (certamente non auspicato dai promotori dell’iniziativa riformatrice) di legittimare, con l’ulteriore frammentazione dei poteri dello Stato, l’obiettivo rafforzamento, oltre ogni ragionevole limite, della sfera di influenza nel sistema di giustizia dell’organo di accusa, al quale, munito di ampie risorse investigative e di forti garanzie di autonomia e indipendenza, resta attribuito il ruolo di titolare esclusivo dell’inchiesta e dell’azione penale. 

La smisurata implementazione della figura e dei poteri di quest’organo di giustizia potrebbe, a questo punto, rendere inefficace – nelle dinamiche dei comportamenti concreti, pure extrafunzionali – il formale appello perché osservi anch’egli il precetto, preminente e valido per ogni magistrato, di «agire e apparire agire liberi» da ogni condizionamento o influenza esterna indebita. 

Un duro colpo, dunque, al delicato equilibrio dell’architettura costituzionale disegnata nel titolo IV sulla magistratura, nei termini approvati dai Costituenti e fortemente voluti, in particolare, da Piero Calamandrei, allora presidente del ricostituito Consiglio nazionale forense, nonché alle reali esigenze di tutela dei diritti della persona. 

En fin, un risultato certo non esaltante per il complessivo assetto delle garanzie della difesa a fronte della inedita ampiezza dei poteri del magistrato inquirente.

Anziché proporre interventi destinati a esaltare vieppiù la logica di separatezza e autoreferenzialità dell’ufficio del pubblico ministero e a rivelarsi, inoltre, compressivi dell’indipendenza interna dei singoli magistrati di quell’ufficio, meriterebbe attenzione, viceversa, la proposta alternativa di aprire ulteriori, ancora più pregnanti finestre di controllo di legalità del giudice – terzo e imparziale – fin nei momenti topici delle indagini preliminari, non soltanto, quindi, molto più tardi e spesso infruttuosamente nel giudizio. 

Come pure andrebbe perseguito con determinazione il valore della condivisione della missione di giustizia e dell’organizzazione della giurisdizione da parte della magistratura e dell’avvocatura, che, nel reciproco riconoscimento dei rispettivi ruoli e funzioni, ne accrescerebbe l’autorevolezza e ne rafforzerebbe l’indipendenza rispetto al potere politico (essendo l’una sinergicamente custode e garante dell’indipendenza dell’altra), insieme con l’idea di una comune cultura della giurisdizione che dovrebbe virtuosamente contaminare i pur differenti mestieri del giudice, del pubblico ministero e dell’avvocato.

 

 

1. Vds. Rivista penale, 1919, XC, pp. 346 ss. Cfr., volendo, G. Canzio, Giacomo Matteotti. Il giurista, in Sistema penale, 11 gennaio 2024 (www.sistemapenale.it/pdf_contenuti/1704467759_canzio-matteotti.pdf).

2. Secondo l’art. 13 del codice etico dell’Associazione nazionale magistrati, dedicato alla condotta del pubblico ministero, «Il pubblico ministero si comporta con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo».

3. Circa il ruolo del pubblico ministero cfr., da ultimo, le articolate riflessioni di L. Salvato, La figura del pubblico ministero secondo Alessandro Pizzorusso, alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento e le ricadute sulla configurazione del C.S.M., in Questione giustizia online, 18 dicembre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/pm-pizzorusso). Cfr. anche N. Rossi, Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri o riscrivere i rapporti tra poteri?, in Sistema penale, 16 novembre 2023 (www.sistemapenale.it/it/opinioni/rossi-separare-le-carriere-di-giudici-e-pubblici-ministeri-o-riscrivere-i-rapporti-tra-poteri); G. Azzariti, La separazione delle carriere dei magistrati, in Osservatorio costituzionale, n. 2/2023, pp. 5-13 (www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/2023_2_13_Azzariti.pdf). La letteratura sul tema, com’è noto, è vastissima. Per un dibattito a più voci su «Il pubblico ministero nella giurisdizione», si segnalano i contributi di vari Autori – magistrati, avvocati e accademici – in questa Rivista trimestrale, fascicolo monografico n. 1/2018 (www.questionegiustizia.it/rivista/2018-1.php).

4. Cfr., volendo, G. Canzio, L’indipendenza della Magistratura nel XXI secolo, in Foro it., 2018, V, c. 193. 

5. L. Salvato, La figura del pubblico ministero, op. cit.

6. Cfr., volendo, G. Canzio, Dire il diritto nel XXI secolo, Giuffrè, Milano, 2022, pp. 7 e 275. 

7. D. Rushkoff, Presente continuo. Quando tutto accade ora, Codice Edizioni, Torino, 2014.

8. R. Rumiati e C. Bona, Dalla testimonianza alla sentenza. Il giudizio tra mente e cervello, Il Mulino, Bologna, 2019, p. 225.

9. Per l’analisi del fenomeno cfr., da ultimo: V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Il Mulino, Bologna, 2022; V. Roppo, Garantismo. I nemici, i falsi amici, le avventure, Baldini e Castoldi, Milano, 2022; E. Bruti Liberati, Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell’informazione, Raffaello Cortina, Milano, 2022; E. Amodio, A furor di popolo, Donzelli, Roma, 2019. Va anche ricordato il passo de I promessi sposi, edizione critica della Ventisettana, a cura di D. Martinelli, Casa del Manzoni, Milano, 2022, cap. XXXII, p. 596, in cui A. Manzoni afferma: «L’ira agogna a punire e ama meglio di attribuire i mali ad una nequizia umana, contra cui possa sfogare la sua tormentosa attività, che riconoscerli da una causa colla quale non vi sia altro da fare che rassegnarsi»; il passo è citato nel saggio introduttivo (La minaccia nascosta) di A. Prosperi, curatore della recente edizione della Storia della colonna infame, Einaudi, Torino, 2023, p. XLIV, n. 50. 

10. L. Carroll, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, Marsilio, Venezia, 2002. Cfr. B. Cavallone, La borsa di Miss Flite. Storie e immagini del processo, Adelphi, Milano, 2016.

11. Cfr., volendo, G. Canzio, Un’efficace strategia comunicativa degli uffici giudiziari vs. il processo mediatico, in Diritto penale e processo, n. 12/2018, p. 1537.

12. Già con la sent. n. 26889 del 2016, Scurato, riguardante l’utilizzo a fini intercettativi del captatore informatico (“trojan”) nei procedimenti per i delitti di criminalità organizzata, le sezioni unite della Corte di cassazione avvertivano circa «l’esigenza che, nei rispetto dei canoni di proporzione e ragionevolezza a fronte della forza intrusiva del mezzo usato, la qualificazione, pure provvisoria, del fatto come inquadrabile in un contesto di criminalità organizzata, risulti ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari che ne sorreggano, per un verso, la corretta formulazione da parte del pubblico ministero e, per altro verso, la successiva, rigorosa, verifica dei presupposti da parte del giudice chiamato ad autorizzare le relative operazioni intercettative; fermo restando il sindacato di legittimità della Corte di cassazione in ordine all’effettiva sussistenza di tali presupposti (…) ».

13. Il d.lgs n. 188/2021, commentato da A. Spataro - F. Resta - V.A. Stella, in Giustizia insieme, 14 dicembre 2021, nonostante i rilievi critici di esponenti della stampa o dei media (che hanno accusato il decreto di precostituire addirittura una sorta di “bavaglio” all’informazione), ha trovato puntuale attuazione nelle linee-guida impartite dai procuratori della Repubblica ai magistrati dell’ufficio e alla polizia giudiziaria. 

14. Merita, viceversa, di essere segnalata – in termini senz’altro positivi – la pregevole delibera sull’uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi, adottata il 18 marzo 2021 dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, in coerenza con i codici etici e con le linee di indirizzo dell’ENCJ, che ne suggeriscono un uso prudente, discreto e sobrio.

15. Cfr., da ultimo, G. Giostra, La norma Costa non evita la gogna e mina il controllo democratico, intervista di V. Stella, Il Dubbio, 29 dicembre 2023 (www.ildubbio.news/interviste/la-norma-costa-non-evita-la-gogna-e-mina-il-controllo-democratico-plddi69i).